Le imprese pubbliche cinesi tra disciplina antitrust e controllo sugli investimenti esteri diretti

ABSTRACT: Il fenomeno della common ownership, ossia della concentrazione di partecipazioni societarie in un dato mercato nelle mani di pochi investitori, ha fatto sorgere interrogativi riguardo ai suoi possibili effetti anticoncorrenziali. In senso analogo, la Commissione Europea ha verificato la compatibilità di alcune acquisizioni effettuate da imprese pubbliche cinesi nel mercato europeo con il regolamento (CE) 139/2004, sul presupposto della loro imputabilità ad un centro decisionale unitario.

1. Introduzione. – La tecnica della diversificazione dell’investimento mira a ridurre o ad eliminare del tutto il rischio “asistematico”, ossia quello correlato al successo di ciascuna singola impresa partecipata da un organismo di investimento in valori mobiliari. Poiché è frequente che simili organismi concentrino parte dei propri investimenti in un dato mercato, il rischio da essi sopportato con il ricorso a tale tecnica può essere trasferito dalla singola impresa al mercato medesimo (c.d. rischio “sistematico”). La diffusione esponenziale di tale tecnica, a partire dagli Sessanta del secolo scorso, ha portato alla progressiva transizione da un assetto della proprietà azionaria diffuso prevalentemente nelle mani di azionisti-persone fisiche ad uno, viceversa, caratterizzato dalla massiccia presenza di c.d. investitori istituzionali. È noto che tale termine convenzionale comprende una miriade di organismi di investimento: fondi pensione, fondi assicurativi, fondi sovrani e via dicendo. Nei decenni passati, tale mutamento dell’assetto proprietario delle imprese occidentali ha portato i regolatori e, di conseguenza, gli interpreti, a focalizzare l’attenzione essenzialmente sui relativi problemi di corporate governance, e di trasparenza dell’operato degli investitori istituzionali nei confronti della propria clientela.
Tuttavia, recente letteratura statunitense ha valorizzato una nuova e diversa prospettiva di indagine critica, a sua volta connessa al mutato assetto della proprietà azionaria, ossia quella relativa alle sue possibili implicazioni anticoncorrenziali. Più precisamente, alcuni studi hanno riscontrato un rapporto di causa-effetto tra l’elevata concentrazione di partecipazioni azionarie in imprese appartenenti allo stesso mercato nelle mani di pochi investitori istituzionali e l’aumento dei prezzi dei prodotti o servizi ivi offerti. Il fenomeno, noto come common ownership ovvero come horizontal shareholding, è stato analizzato soprattutto con riguardo al settore bancario e a quello del trasporto aereo[1]. Nonostante le ricerche empiriche sul tema non forniscano ancora delle indicazioni univoche[2], e malgrado le numerose critiche attirate dalla tesi in questione[3], la premessa dalla quale essa muove sembra, a ben vedere, del tutto intuitiva. Infatti, se l’interesse di chi detiene una gran varietà di partecipazioni in società appartenenti a uno stesso mercato è quello tendente alla valorizzazione dello stesso, allora disincentivare la concorrenza tra le imprese partecipate e favorire accordi collusivi sembrerebbe ad esso funzionale. Si è persino rilevato come in alcune società caratterizzate da una forte common ownership siano diffuse politiche di remunerazione degli amministratori conformate all’andamento del mercato, e non della singola società amministrata[4].
Alcuni autori hanno suggerito l’attinenza del problema posto dalle rilevate ipotesi di concentrazione di partecipazioni societarie con gli ingenti investimenti effettuati negli ultimi anni da parte delle imprese pubbliche cinesi nel mercato europeo. Ora, poiché la Repubblica Popolare Cinese ricorre ad un modello centralizzato di gestione delle partecipazioni statali (attraverso un’apposita commissione governativa, di cui si parlerà oltre), si è sollevato il quesito se lo Stato cinese possa essere considerato alla stregua di un centro di direzione unitario degli investimenti effettuati dalle società a partecipazione statale, analogamente al rapporto intercorrente tra i grandi investitori istituzionali e le società partecipate da questi, con le relative implicazioni in punto di diritto antitrust. In effetti, la scarsa trasparenza nella struttura organizzativa delle società pubbliche cinesi e soprattutto gli stretti legami intercorrenti con il Partito Comunista Cinese hanno indotto la Commissione Europea a serrare la vigilanza sulle acquisizioni effettuate dalle prime nel mercato interno[5]. A partire dal 2011, la Commissione, allo scopo di attrarre nella propria giurisdizione operazioni di concentrazione che vedevano coinvolte imprese pubbliche cinesi, ha infatti progressivamente adottato un approccio estensivo, giungendo a considerare tutte quelle operanti nello stesso mercato come un’unica entità economica facente capo ad un centro decisionale unitario[6]. In realtà, un simile approccio risponde alla diffusa tendenza a considerare una parte fondamentale dell’economia cinese come un’unica “impresa”, o meglio come un unico conglomerato di imprese, comunemente riassunto nell’espressione “China Inc.” e facente capo ad un centro decisionale unitario. Tale conglomerato potrebbe non comprendere soltanto le imprese pubbliche, ma anche quelle private, che spesso hanno nel proprio board of directors membri del Partito, o che comunque sono legate ad esso a vario titolo. Ciò ha persino indotto un autore europeo a suggerire di considerare tutte le imprese cinesi, pubbliche e private, aventi una connessione con il Partito, come un unico soggetto ai fini dello scrutinio relativo alle operazioni di concentrazione tra imprese, a prescindere dal mercato in cui operano[7].
Tuttavia, appare dubbio che gli strumenti forniti dal diritto antitrust europeo, e in particolare dal regolamento sulle concentrazioni, siano quelli adeguati per operare un controllo sulle acquisizioni delle imprese pubbliche cinesi. In tal senso, come si approfondirà oltre, nella letteratura internazionale si è condivisibilmente ritenuto più idoneo, almeno per i settori strategici, lo scrutinio della loro compatibilità con la sicurezza nazionale dello Stato membro in cui viene effettuata l’acquisizione della quota, di maggioranza o di minoranza. Peraltro, le operazioni rilevanti ai fini del regolamento europeo sulle concentrazioni riguardano comunque solo le ipotesi di acquisto del controllo, e non anche di quote di minoranza che non conferiscano il controllo (diversamente dalla Section 7 del Clayton Act statunitense, viceversa basata su un approccio teleologico), anche se pure queste potrebbero ipoteticamente provocare effetti anticoncorrenziali, differenziandosi così dai problemi posti dalla tecnica della diversificazione degli investimenti seguita dai fondi comuni d’investimento, che dal punto di vista endosocietario si traduce soprattutto in acquisti di quote di minoranza.
Con il presente lavoro, che comunque tratterà il problema segnalato senza alcuna pretesa di completezza, dapprima si descriverà sinteticamente la peculiare struttura istituzionale della governance economica cinese, per poi dare conto degli orientamenti assunti dalla Commissione Europea in merito ad alcune acquisizioni notificate da parte di imprese pubbliche cinesi, per verificare se lo strumento impiegato fosse effettivamente quello più adeguato. In conclusione, si proporrà una prospettiva sugli strumenti alternativi ritenuti più funzionali di quelli forniti dal diritto antitrust per la gestione del problema segnalato.

2. Cenni sulla governance delle imprese pubbliche cinesi. – È opinione diffusa che la lettura dell’ordinamento cinese attraverso la lente di definizioni e astratte categorie concettuali, e per ciò solo incomplete, possa condurre a fraintendimenti ed equivoci[8]. In quest’ottica, è preferibile evitare confronti con altri sistemi, a maggior ragione in un lavoro di sintesi, limitandosi a illustrare la peculiare struttura istituzionale del modello economico cinese. Infatti, dalla fine degli anni Ottanta, contestualmente alla profonda crisi che a livello globale investì i paesi socialisti, per il Partito Comunista Cinese si pose la necessità di operare una revisione del settore dell’economia, ove fino ad allora la presenza statale era stata assolutamente preponderante, anche dal punto di vista formale della detenzione diretta di quote sociali nelle imprese partecipate dallo Stato.
A tale scopo, tra il 1997 e il 2003, furono cedute quasi metà delle partecipazioni statali in società pubbliche, ingenerando negli osservatori occidentali la convinzione che la Cina stesse conducendo un processo di privatizzazione formale e sostanziale delle imprese pubbliche, sulla falsariga di quelli operati in Occidente. In realtà, l’obiettivo dichiarato tra i dirigenti del Partito era esattamente opposto, vale a dire, realizzare un riassetto delle partecipazioni statali che gli consentisse di stringere il controllo sulle grandi imprese operanti in settori strategici, viceversa allentando la presa su quelle più piccole, in molti casi comunque rimesse al controllo di enti territoriali minori (province e municipalità)[9]. L’equivoco risiede nel fatto che tale riorganizzazione non venne attuata attraverso il diretto trasferimento delle partecipazioni nelle mani del Partito, soluzione che pure era stata proposta, bensì attraverso la creazione di un’apposita commissione, vale a dire la SASAC (State-owned Assets Supervision and Administration Commission), facente capo direttamente al Consiglio di Stato, ossia il governo centrale, e deputata alla gestione delle partecipazioni societarie statali. Inoltre, ciascun livello di governo ha le proprie SASAC, che operano come soci di controllo delle imprese pubbliche più rilevanti nelle rispettive province e municipalità, e che rispondono direttamente alla SASAC centrale.
Le SASAC, quella centrale come quelle locali, non operano come meri investitori passivi, bensì proprio come un fondo di investimento gestirebbe le società controllate: nomina e revoca gli amministratori, redistribuisce le risorse e crea sinergie tra le stesse[10]. Peraltro, secondo un’ibridazione tipicamente cinese, la SASAC svolge anche funzioni di regolatore di non poco conto[11]. Ciò che le distingue dalle holding private è che comunque l’operato del management delle partecipate viene valutato anche con riguardo all’interesse dello Stato cinese, secondo le linee dettate dal Partito, peraltro in coerenza con gli scopi istituzionali delle società a partecipazione pubblica in generale. Bisogna inoltre tenere a mente che le controllate della SASAC operano comunque in condizioni di concorrenza tra di loro: per fare un esempio, essa controlla le tre maggiori compagnie cinesi operanti nei settori delle telecomunicazioni e delle industrie petrolchimica e siderurgica. Tra l’altro, se la SASAC e le sue propaggini locali hanno la funzione di gestire le partecipazioni statali, l’investimento diretto di risorse pubbliche è invece di competenza della China Investment Corporation, cioè del fondo sovrano cinese, il quale controlla a sua volta la Central Huijin Investment Ltd., che è la holding di controllo delle quattro maggiori banche di Stato cinesi. Inoltre, allo scopo di coordinare il controllo sulle imprese pubbliche nei vari settori, lo Stato si serve di un’altra commissione governativa, la National Development and Reform Commission (NDRC), la quale svolge una gran varietà di funzioni, sovrintendendo, tra l’altro, alla predisposizione dei piani quinquennali. Anch’essa, analogamente alla SASAC, si articola verticalmente in sottocommissioni provinciali e municipali soggette alla direzione di quella centrale.
Ad ogni modo, il vero elemento di eccezionalità del quadro cinese è fornito dal ruolo esercitato dal Partito, il quale, in coerenza con gli scopi perseguiti dagli accennati processi di riforma, esercita in modo tentacolare il proprio controllo sulle maggiori compagnie del paese, e non solo su quelle a partecipazione pubblica, attraverso la nomina diretta di amministratori, ma anche su quelle private, tenuto conto che membri del board possono far parte del Partito senza per ciò essere stati nominati dallo stesso[12]. A ciò si aggiunge che ciascun c.d.a. di impresa pubblica o privata, cinese o straniera (è il caso della statunitense IBM), che abbia al suo interno almeno tre membri del Partito, deve formare un comitato interno di Partito, i cui lavori restano segreti. È anche interessante notare che la ripartizione delle cariche sociali all’interno di una certa società a partecipazione pubblica comunque debba ricalcare, in una certa misura, l’organigramma del Partito, in modo tale da assicurare una tendenziale corrispondenza tra la posizione gerarchica ricoperta nell’una e nell’altro[13]. Peraltro, il potere del Partito sui propri membri è così esteso che esso, oltre a sovrintendere all’amministrazione della giustizia statale, di fatto esercita anche una propria giurisdizione penale, indipendente da quella statale, potendo condurre dei procedimenti disciplinari interni che possono anche concludersi con la pena della reclusione.
La peculiarità del ruolo del Partito in questa struttura organizzativa mista, trasversale, fatta di reciproche commistioni e ibridazioni tra settore pubblico e privato, trova il proprio culmine in quello che è stato definito institutional bridging[14], ossia una sorta di legame orizzontale tra gruppi di imprese, banche, istituzioni politiche, enti di ricerca, università, che può esprimersi attraverso collegamenti formali e informali, che includono lo scambio di personale o di informazioni, ovvero collaborazioni di vario genere. Insomma, il filo rosso rappresentato dall’onnipresenza del Partito consente di creare delle sinergie che vanno al di là della mera detenzione verticale o orizzontale di partecipazioni societarie, realizzando una connessione molto più labile, ma al contempo assai estesa e capillare, funzionale a far convergere anche solo occasionalmente gli interessi dei soggetti coinvolti ed a permettere allo Stato di sviluppare politiche comuni, senza per ciò dover entrare nel merito delle decisioni prettamente commerciali delle imprese partecipate.

3. Diritto antitrust e imprese pubbliche cinesi. – Dal quadro sinteticamente illustrato emerge che il modello cinese è caratterizzato da una gestione fortemente centralizzata delle partecipazioni statali, affidata a commissioni facenti capo allo stesso governo centrale. Tuttavia, sol considerando che tali commissioni si articolano anche a livello locale, ed alla luce della gran varietà di forme di coordinamento che possono intercorrere tra le imprese partecipate dallo Stato, malgrado le apparenze la governance delle imprese pubbliche cinesi si connota per un’elevata frammentarietà e decentralizzazione, essendovi pertanto notevoli ostacoli al coordinamento statale diretto delle imprese partecipate e, dunque, alla configurazione di un centro decisionale unitario.
Lo sviluppo della Belt and Road Initiative e di altre iniziative commerciali come Made in China 2025 ha portato ad un incremento senza precedenti degli investimenti cinesi diretti verso il mercato europeo, almeno fino al 2016, alcuni dei quali sono finiti sotto la lente della Commissione Europea in applicazione del regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio, relativo al controllo sulle concentrazioni tra imprese. Il regolamento, ispirato al principio di non discriminazione tra il settore pubblico e quello privato, affermato in via generale dall’art. 345 TFUE, al considerando 22 sottolinea che «nel settore pubblico […] si deve tener conto delle imprese che costituiscono un insieme economico dotato di un potere decisionale autonomo, indipendentemente dalla detenzione del capitale o dalle norme di controllo amministrativo che sono loro applicabili». Ne consegue che, ai fini dello scrutinio sulla legittimità delle operazioni di concentrazione che vedano coinvolte imprese a partecipazione pubblica, la Commissione Europea deve verificare se imprese pubbliche, pur concorrenti tra loro, possano essere considerate un insieme economico unitario, essendo soggette allo stesso centro decisionale, in ragione, tra l’altro, della presenza del medesimo socio pubblico. Ciò è quanto disposto nella Comunicazione consolidata della Commissione sui criteri di competenza giurisdizionale a norma del regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese (2008/C 95/01), al § 52. In diverse acquisizioni che hanno riguardato imprese partecipate dallo Stato cinese, la Commissione Europea ha dunque dovuto verificare l’esistenza di un centro economico e decisionale unitario che giustificasse il blocco dell’operazione. Stante la peculiarità del quadro istituzionale cinese, tale scrutinio implica l’insorgenza di numerose questioni interpretative[15].

Per quanto attiene allo scrutinio della Commissione Europea su acquisizioni preventivamente notificate da imprese a partecipazione pubblica, una parte della letteratura ha tuttavia sottolineato come la Commissione Europea abbia utilizzato un diverso metro di giudizio rispettivamente per l’esame delle operazioni riguardanti imprese pubbliche partecipate da Stati membri ovvero dallo Stato cinese[16]. In particolare, rispetto alle prime la Commissione ha ritenuto insufficiente la sussistenza del controllo di diritto, ossia della possibilità in astratto di esercitare il controllo sulle imprese partecipate, richiedendo altresì l’effettività del controllo esercitato (come del resto suggerisce la lettera del citato considerando 22 del regolamento 139/2004). Infatti, in alcuni casi paradigmatici[17], nonostante la Commissione avesse espressamente riconosciuto che lo Stato membro coinvolto detenesse diritti di voto nelle imprese interessate, tali da conferire il controllo di diritto, d’altro lato aveva focalizzato l’esame sul controllo effettivamente esercitato, attestando come nei casi di specie non vi fosse alcun coordinamento statale su tali imprese suscettibile di alterare il gioco della concorrenza nel mercato interno. Tuttavia, a quanto risulta la Commissione, nell’esaminare analoghe operazioni di concentrazione riguardanti imprese extraeuropee, e specificamente russe o cinesi, ha utilizzato un diverso metro di giudizio.
Il primo caso sintomatico di tale mutato orientamento della Commissione risale al 2011, e riguarda la progettata acquisizione della società norvegese Elkem, operante nel campo della produzione del silicone, da parte della cinese China National Bluestar. Quest’ultima è una società operante nell’industria chimica controllata dalla ChemChina, a sua volta direttamente controllata dalla SASAC centrale. A differenza che nelle operazioni coinvolgenti imprese pubbliche europee, in questo caso la Commissione ha enfatizzato il carattere potenziale e probabilistico del potere dello Stato cinese di influenzare (tramite la SASAC) le condotte concorrenziali delle società partecipate nel mercato di riferimento, il che diverge con l’approccio seguito dalla Commissione nei precedenti casi europei. Nella decisione Elkem/China National Bluestar la Commissione ha infatti chiarito che l’accertamento sarebbe stato guidato «dal possibile potere dello Stato di influenzare la strategia commerciale delle imprese e dalla probabilità che lo Stato coordini direttamente la loro condotta commerciale»[18].
In un’altra decisione, relativa all’operazione riguardante le società Électricité de France/China General Nuclear/NNB Group (c.d. Hinkley Point case)[19], operanti nel settore dell’energia nucleare, la Commissione ha ancora una volta modificato orientamento, questa volta allo scopo di attrarre l’operazione in questione nell’ambito della propria giurisdizione. La decisione si è comunque risolta in un nulla osta all’operazione di concentrazione notificata, in quanto nel caso di specie non si sono rilevate minacce alla concorrenza nel mercato di riferimento, ma ciò che conta è il contenuto della relativa motivazione. Infatti, poiché il basso fatturato della Chinese General Nuclear nel mercato unico non era sufficiente al fine del calcolo del fatturato rilevante ai sensi dell’art. 5 del regolamento 139/2004, la Commissione ha considerato tutte le imprese pubbliche cinesi operanti in Europa nell’intero settore energetico come rispondenti ad un centro decisionale unitario. In altre parole, la Commissione ha ritenuto che le imprese pubbliche in quel dato mercato appartenessero a una sorta di conglomerato di imprese, ossia quello che viene diffusamente riassunto nell’espressione “China Inc.”. Nello specifico, la decisione, ai §§ 36 ss., richiama le disposizioni della Law of the People’s Republic of China on State-owned Assets in Enterprises che consentono alla SASAC di influenzare con il proprio diritto di voto importanti decisioni commerciali, e quelle che affermano che il governo può promuovere il coordinamento a livello centrale delle più importanti imprese pubbliche, ossia quelle che hanno rilievo per l’economia e la sicurezza nazionale. È vero che la decisione faceva riferimento espresso alle imprese pubbliche cinesi operanti nel settore energetico, tuttavia essa ha aperto la strada ad un’originale interpretazione estensiva, peraltro accolta favorevolmente da numerosi osservatori, alcuni dei quali ne hanno anche ampliato la portata, ad esempio suggerendo di considerare tutte le imprese pubbliche cinesi, e non solo quelle operanti nello stesso settore economico, come una singola entità economica rispondente ad un centro decisionale unitario, riconducibile alla SASAC[20]. Altri, come già visto in avvio, hanno invece proposto una soluzione onnicomprensiva, volta a ritenere tutte le imprese pubbliche e private cinesi che abbiano un nesso con il PCC come un’unità economica rilevante ai fini del regolamento 139/2004 [21].
Simili proposte interpretative sembrano condurre, da un lato, a sopravvalutare il ruolo della SASAC, dato che l’affidamento della gestione centralizzata delle partecipazioni statali ad un organismo governativo è una soluzione istituzionale adottata anche da parte di alcuni paesi europei, tra cui la Francia, che attribuisce una funzione analoga ad un’agenzia interministeriale denominata Agence des participations de l’État. Inferire l’esistenza di un centro decisionale comune a tutte le imprese pubbliche cinesi dalla presenza di una holding di Stato, come la SASAC, ovvero dall’elemento di continuità rappresentato dalla presenza di membri del Partito nei relativi c.d.a, costituisce pertanto una semplificazione eccessiva. D’altro lato, la presenza capillare del Partito non comporta necessariamente che questo eserciti il proprio potere di orientamento per perseguire obiettivi di natura commerciale, il che contribuisce ad escludere che le discipline antitrust siano lo strumento appropriato per il controllo sugli investimenti effettuati dalle imprese pubbliche e private cinesi.
Con ciò non si vuole sminuire lo scetticismo che aleggia intorno all’effettiva indipendenza dal potere politico delle imprese pubbliche cinesi, che mostrano invero diversi aspetti problematici quanto all’opacità della loro governance ed in particolare alla diffusa presenza del Partito, che grazie al sistema organizzativo descritto nel paragrafo precedente appare in grado di controllare tutte le imprese partecipate, pubbliche e private. Anzi, la posizione occupata dal Partito ai vertici di grandi imprese pubbliche e private, cinesi e stranieri, pone senz’altro il problema che questo possa, all’occorrenza, esercitare il suo latente potere di coordinamento per qualsivoglia finalità, che sia di natura politica ovvero commerciale. Un altro aspetto a ragione rilevato criticamente dagli osservatori europei attiene alla mancanza di reciprocità tra le possibilità di investimento offerte rispettivamente alle imprese cinesi in Europa e alle imprese europee nel mercato cinese, anche se forse un passo in avanti è stato fatto con la nuova legge cinese sugli investimenti stranieri (Foreign Investment Law), entrata in vigore il 1° gennaio 2020.
Tuttavia, dietro la spinta di tali pur legittime istanze, dettate dall’esigenza di porre un argine ad un enorme afflusso di capitali stranieri, che senza dubbio necessita di una forma di selezione all’ingresso, soprattutto nei settori strategici, la Commissione Europea ha operato delle forzature interpretative che rischiano di minarne la credibilità come Autorità antitrust equa e imparziale [22]. Inoltre, considerare tutte le imprese controllate dalla SASAC in un dato settore come un’unica entità economica potrebbe anche sollevare problemi di coordinamento con la disciplina sulle intese restrittive della concorrenza di cui all’art. 101 TFUE, che per definizione implica accordi o pratiche concordate intercorrenti tra imprese che facciano capo a centri decisionali indipendenti [23].

4. Conclusioni.
Dalla rassegna effettuata nell’ultimo paragrafo è emerso che la peculiare struttura istituzionale delle imprese pubbliche cinesi mal si concilia con le fattispecie fondamentali del regolamento europeo sulle concentrazioni, se non al costo di inevitabili forzature interpretative. Infatti, sembra che l’orientamento adottato dalla Commissione, e qui criticato, sia stato dettato da considerazioni di natura eminentemente politica, ossia dal timore che gli investimenti effettuati dalle imprese pubbliche cinesi possano risultare viziati dall’interesse di appropriarsi di infrastrutture strategicamente rilevanti.
Tuttavia, non sembra che simili preoccupazioni possano essere assecondate sul piano dell’interpretazione del diritto antitrust vigente, richiedendo viceversa risposte di natura politica, ed in particolare a livello di controllo degli investimenti esteri diretti, attraverso una verifica dell’impatto che una data acquisizione può avere sulla sicurezza nazionale dello Stato membro interessato. Una prima indicazione in tal senso, del resto, è offerta dallo stesso regolamento sulle concentrazioni, il cui art. 21, paragrafo 4, non esclude che un’acquisizione che la Commissione abbia giudicato di per sé non lesiva della concorrenza possa essere bloccata dagli Stati membri al fine di tutelare suoi “interessi legittimi”, individuati a titolo esemplificativo nella sicurezza pubblica, nella pluralità dei mezzi di informazione e nelle norme prudenziali. La maggiore utilità di questa prospettiva per la selezione degli investimenti cinesi in particolare, appare attestata dal fatto che nel solo 2018 gli Stati membri hanno bloccato per ragioni di protezione della sicurezza nazionale ben sette acquisizioni effettuate da società cinesi [24], diversamente dall’applicazione del diritto antitrust che, nonostante la giurisdizione esercitata dalla Commissione sulle acquisizioni operate dalle imprese pubbliche cinesi, anche ricorrendo all’interpretazione estensiva vista in precedenza, non ha portato al blocco di alcuna operazione di concentrazione notificata.
Nella direzione suggerita sembra collocarsi anche la recente approvazione del regolamento (UE) 2019/452 [25], relativo al controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione, il quale consente agli Stati membri di istituire “meccanismi di controllo” che consentano di «valutare, esaminare, autorizzare, sottoporre a condizioni, vietare o liquidare investimenti esteri diretti per motivi di sicurezza o di ordine pubblico»: così l’art. 2, paragrafo 1, n. 4. Nella prospettiva italiana, costituisce un esempio di meccanismo di controllo conforme al regolamento citato la disciplina dei golden powers di cui al d.l. 15 marzo 2012, n. 21, convertito in l. 11 maggio 2012, n. 46 [26]. Nel contempo, viene favorito un coordinamento di tali controlli a livello europeo basato sullo scambio di informazioni reciproco relativamente agli investimenti stranieri suscettibili di incidere sugli interessi protetti dal regolamento stesso. Ne consegue che acquisizioni potenzialmente rischiose potranno essere bloccate non tanto per il loro asserito rilievo anticoncorrenziale, quanto in ragione di considerazioni attinenti alla sicurezza nazionale dello Stato membro interessato, almeno quando riguardanti settori strategicamente sensibili.
Infine, resta fermo che il considerando 36 del regolamento (UE) 2019/452 fa comunque salva la concorrente applicazione del regolamento sulle concentrazioni, sicché, in caso di acquisto del controllo da parte dell’investitore estero su un’impresa operante in un settore strategico, vi dovrà essere un coordinamento tra il controllo antitrust e quello relativo all’eventuale esercizio di poteri ostativi di natura politico-strategica.
ARMANDO SANTONI

Note

1. Cfr. soprattutto J. AZAR- M. SCHMALZ-I. TECU, Anticompetitive Effects of Common Ownership, in Journal of Finance 1513, 2018.

2. Sul punto, si v. la recente ricerca, coordinata dal Comitato per gli affari economici e monetari del Parlamento Europeo: v. S. FRAZZANI – K. NOTI – M.P. SCHINKEL – J. SELDESLACHTS – A. BANAL ESTANOL – N. BOOT – C. ANGELICI, Barriers to Competition through Common Ownership by Institutional Investors, May 2020.

3. A. BURNSIDE – A. KIDANE, Common ownership: an EU perspective, in Journal of Antitrust Enforcement, 2020, pp. 1 ss.

4. E. ELHAUGE, Horizontal Shareholding, in 129 (2016) Harvard Law Review 1267, passim.

5. A. ZHANG, The Antitrust Paradox of China, Inc., in International Law and Politics, Vol. 50:159, 2017, p. 162.

6. Cfr. A. ZHANG, Foreign Direct Investment from China: Sense and Sensibility, 34 NW Journal of International Law and Business, 395, 435 (2014), ove l’A. cita anche diversi casi in cui è stato adottato un simile approccio.

7. N. PETIT, Chinese State Capitalism and Western Antitrust Policy, in Concurrences Review Nº 4-2016, Art. N° 81859, pp. 69 ss., disponibile anche in www.ssrn.com, p. 12.

8. In questo senso, v. da ultimo P. CIOCCA, La Cina: un’economia di mercato capitalistica?, in questo Osservatorio, 28 settembre 2020.

9. Sul punto, v. R. MCGREGOR, The Party. The Secret World of China’s Communist Rulers2, London, 2012, p. 43 s.

10. In tema, v. M. WU, The “China, Inc.” Challenge to Global Trade Governance, 57 (2016) Harvard International Law Journal 1001.

11. Per alcune indicazioni sul ruolo della SASAC, si v. L. ENRIQUES – F. MUCCIARELLI, Governance pubblica e privata delle politiche pubbliche per obiettivi: una proposta di riforma della governance di Cassa Depositi e Prestiti, in Giur. comm., 2019, I, p. 1014 ss., in part. p. 1020.

12. Si tenga presente che il Partito Comunista Cinese conta oltre 90 milioni di membri (fonte Wikipedia).

13. Si v. N. PETIT, (nt. 7), p. 6.

14. LI-WEN L.-C. MILHAUPT, We Are the (National) Champions, in 65 (2013) Stan. Law Rev. 697, p. 706.

15. Sul punto, v. A. SVETLICINII, The Acquisitions of the Chinese State-Owned Enterprises under the National Merger Control Regimes of the EU Member States, in Market and Competition Law Review, vol. II, n. 1, April 2018, p. 107; V. ŠMEJKAL, Chinese State-Owned Enterprises and the Concept of Undertaking under EU Competition Law, in Intereulaweast, 2019, Vol. VI (2), p. 38 s.

16. Sul punto, si v. diffusamente A. ZHANG, (nt. 5), pp. 180 ss.

17. Si allude alle decisioni No. IV/M.931 – Neste/IVO del 2 giugno 1998 e No. COMP/M.5549 – EDF/Segebel del 12 novembre 2009.

18. Decisione No. COMP/M.6082 China National Bluestar/Elkem del 31 marzo 2011, § 10.

19. Decisione M. 7850 – EDF/CGN/NNB Group of Companies del 10 marzo 2016.

20. A. RILEY, Nuking Misconceptions: Hinkley Point, Chinese SOEs and EU Merger Law, in European Competition Law Review 37, No. 8 (2016), pp. 301 ss.

21. N. PETIT, (nt. 7), p. 12.

22. In tal senso, A. ZHANG, (nt. 5), p. 189; V. ŠMEJKAL, (nt. 15), p. 44.

23. Ma si v. il § 130 della Comunicazione consolidata della Commissione sui criteri di competenza giurisdizionale.

24. Lo riporta P. LE CORRE, On China’s Expanding Influence in Europe and Eurasia, disponibile su https://carnegieendowment.org/2019/05/09/on-china-s-expanding-influence-in-europe-and-eurasia-pub-79094.

25. Sul solco di tale regolamento sembra porsi anche il Libro bianco relativo all’introduzione di pari condizioni di concorrenza in materia di sovvenzioni estere, pubblicato dalla Commissione Europea lo scorso 17 giugno e sottoposto a pubblica consultazione con scadenza al 23 settembre 2020.

26. E per alcune indicazioni relative al necessario adeguamento di tale disciplina al recente regolamento europeo, v. G. NAPOLITANO, I golden powers italiani alla prova del Regolamento europeo, in Foreign Direct Investment Screening. Il controllo sugli investimenti esteri diretti, a cura di G. Napolitano, Bologna, 2019, pp. 120 ss.