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Ancora su euro ed Europa

di - 26 Ottobre 2020
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Rinnovo cinque motivi di riflessione.

1°) L’euro è stato caricato del disegno geopolitico volto alla formazione di un’Europa unita. Ma l’euro è in primo luogo…una moneta. Una moneta è buona quando è domandata. L’euro è molto domandato, anche internazionalmente. La prova è che tende ad apprezzarsi rispetto alle altre monete e ha in parte sostituito il dollaro quale valuta di riserva. Si è apprezzato anche resistendo al tentativo della BCE di deprezzarlo, di ricercare una sua svalutazione competitiva, che ha sortito l’unico effetto di eccitare la minaccia protezionistica degli Stati Uniti di Trump. In quanto buona moneta, l’euro ha fatto il suo dovere. Ha contribuito al prevalere nell’area di prezzi stabili, tassi d’interesse contenuti, integrazione commerciale e finanziaria. E’, questo, il dividendo economico dell’euro.

2°) Rinunciare a una buona moneta, dopo vent’anni, sarebbe per tutti costoso. Fuoruscire autonomamente dall’euro sarebbe disastroso per l’Italia. La nuova lira si deprezzerebbe, ma le merci nazionali non ne approfitterebbero perché non sono più competitive, per bassa produttività; aumenterebbero i prezzi e il costo della vita; la Banca d’Italia contrasterebbe l’inflazione, provocando recessione e disoccupazione; cadrebbero i valori immobiliari e di Borsa; salirebbero i tassi d’interesse e gli spreads, con taglio degli investimenti e dilatazione ulteriore del debito pubblico. Gli italiani perderebbero reddito per centinaia di miliardi e patrimonio per migliaia di miliardi.

3°) Il dividendo dell’euro è stato dissipato in larga parte dall’Europa, totalmente dall’Italia. Nel ventennio in Italia due gravi recessioni si sono unite agli squilibri nei conti pubblici, al ristagno della produttività, a carenze d’offerta. Ma nell’intera Euroarea la crescita del Pil è scesa all’1,3% l’anno, dal 2,4% del ventennio precedente. Ha rallentato la produttività, ma il freno è consistito in una domanda interna che ha solo di poco superato l’1% l’anno. In Europa è stata strategicamente sbagliata la politica economica. Sono stati tagliati gli investimenti pubblici, addirittura nemmeno ammortizzando, manutenendo, le infrastrutture esistenti. L’investimento – lo ha chiarito Keynes un secolo fa – è l’unico strumento di bilancio che, a un tempo, favorisce la produttività, moltiplica la domanda, contiene il debito pubblico. In Germania il taglio degli investimenti si è unito alla corsa verso il bilancio in avanzo, una vera follia per una economia con basso debito pubblico! L’impostazione tedesca ha condizionato Bruxelles e i paesi membri. Sempre nel ventennio, in Germania, l’investimento privato e pubblico è rimasto sul 19% del Pil, mentre il risparmio saliva dal 22 al 28% del Pil. Quindi la crescita tedesca si è aggirata sull’1% l’anno. Avrebbe ben potuto superare il 2%, se l’economia fosse stata sostenuta dalla domanda per investimenti e per consumi, pubblici e quindi privati. Attraverso gli assurdi avanzi nei conti con l’estero che ne sono derivati la Germania ha quindi impiegato all’estero enormi risorse reali, invece di utilizzarle all’interno. Su quegli stessi impieghi sono inoltre stati persi circa 600 miliardi. Non vi è una logica economica in tutto ciò, nemmeno in chiave di ordoliberalismo germanico. Il sospetto sorge che i governanti teutonici, seguiti da una pubblica opinione supina, condiscendente ovvero disinformata, abbiano freddamente scelto di frenare la loro economia pur di accumulare crediti netti verso l’estero che oggi travalicano il 70% del Pil (3mila miliardi di dollari!) allo scopo di condizionare le nazioni debitrici e l’intera Unione sul piano geo-politico.

4°) Quindi non abbiamo un’Unione Europea tra pari. Il covid sembra aver restituito negli ambienti europei dignità e valore alla parola “crescita” (estesi all’emissione di eurobonds). Al di là della crisi pandemica si vedrà se l’Europa avrà fatto suo un principio tanto semplice quanto basilare: la crescita di lungo periodo dipende dalla produttività, non può nascere dalla domanda globale, ma senza domanda globale non c’è crescita. E non c’è neppure stabilità: economica, monetaria, finanziaria, politica. Se questo principio mancherà di affermarsi una volta superata la pandemia, l’Europa politica non si farà, per limiti d’ordine economico, per carenza di risorse.

5°) Il problema dell’Italia, seppure legato all’Europa, è diverso. Nell’economia italiana sono fermi da un quarto di secolo i due motori della crescita, l’accumulazione di capitale e il progresso tecnico, mentre il debito pubblico veleggia verso il doppio del Pil. Né i governi né le imprese hanno sinora risposto. Vanno effettuati grandi investimenti pubblici in infrastrutture, in specie al Sud; tagliata la spesa corrente non sociale e stroncata l’evasione; riscritto il diritto dell’economia; perequata la distribuzione del reddito; imposta alle imprese la concorrenza. Questa agenda per il ritorno alla crescita è indipendente dal covid. L’attuale governo – che pure ha diversi meriti – avrebbe dovuto farsi carico della crescita sin dall’entrata in Parlamento, più di un anno fa. Continua a tardare nel farsene carico, aspettando doni europei che forse arriveranno fra mesi e anni. Intanto il tasso d’interesse sui Btp è sceso sullo 0,6% per il titolo decennale, risultando addirittura negativo fino alla scadenza triennale. Quindi gli investimenti pubblici erano, restano, copribili all’avvio con risorse raccolte sul mercato. Ciò, nella fondata aspettativa che nel medio periodo si autofinanziano, dato il loro effetto moltiplicativo sul reddito. Quindi non è solo questione di soldi. Occorre un più complessivo programma. Il programma, d’altra parte, avrebbe successo solo se le imprese finalmente rispondessero, investendo i loro capitali, innovando, esprimendo produttività, come non accade da un quarto di secolo.


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