La Cina: un’economia di mercato capitalistica?

Prima della sconfitta nelle Guerre dell’Oppio di metà Ottocento scatenate dal colonialismo inglese la Cina, pur nell’arretratezza su cui si era adagiata dopo i fasti tecnologici di secoli prima, era la maggiore economia del globo. Nel 1820 esprimeva un terzo del prodotto mondiale, rispetto al 16% dell’India, al 5% del Regno Unito e della Francia, al 4% della Germania. La sua popolazione (381 milioni) era pari al 37% dell’umanità. Il reddito pro capite annuo dei cinesi (600 dollari internazionali 1990) era quindi solo di poco al disotto della media mondiale[1].
Nel 1950 la Repubblica Popolare Cinese, appena creata nel 1949 dai comunisti di Mao Zedong dopo decenni di invasioni, conflitti, rivoluzioni era alla fame[2]. Il paese, finalmente riunificato, generava meno del 5% del prodotto globale, mentre i suoi 547 milioni di abitanti erano pari al 22% della popolazione della terra. Il reddito pro capite era sceso a 448 dollari, ridotto a un quarto della media mondiale, alla metà di quello dell’Africa.
Dal 1950 al 1980 la crescita dell’economia cinese, in varia guisa pianificata, si allineò ai ritmi internazionali, assoluto e pro capite (4,5% e 2,8%, rispettivamente). Fu rallentata da errori strategici, come il Grande Balzo in Avanti del 1958-1961 (carestie con milioni di morti). La produttività totale dei fattori subì un calo solo di poco inferiore all’1% l’anno[3]. Pure, il reddito medio pro capite giunse a superare i 1000 dollari, più che raddoppiando rispetto alla nascita della Repubblica, sebbene nel 1978 quello di due terzi dei contadini fosse al disotto del livello raggiunto negli anni Cinquanta. Il periodo maoista vide il peso dell’industria – favorita rispetto all’agricoltura nei Piani governativi – salire dal 10 al 37% del prodotto e il peso dell’agricoltura scendere dal 60 al 34%.
Le riforme che Deng Xiaoping e Zhao Ziyiang avviarono dopo la morte di Mao nella direzione di “un’economia socialista di mercato”, a cominciare dall’agricoltura, segnarono la svolta. Tra il 1978 e il 1995 la produttività totale dei fattori progredì del 2,2% l’anno, ritmo superiore a quelli di Giappone e Corea del Sud, oltre che degli Stati Uniti[4]. Il miglioramento nell’allocazione delle risorse proseguiva nei successivi venticinque anni, imprimendo alla produttività un abbrivo che restava nell’ordine del 2% l’anno, più che negli Stati Uniti e in altre economie avanzate[5]. Dal 1980 al 2019 la dinamica del Pil cinese ha superato il 9% l’anno – un record nella storia per un così lungo periodo e per una popolazione enorme – distanziando quello mondiale (attorno al 3%, al netto della Cina). La Cina è così arrivata a esprimere il 19% del prodotto del globo, rispetto al 15% degli Stati Uniti. Anche la sua popolazione (1,44 miliardi di persone) è pari al 19% dell’umanità. Il reddito pro capite ha attinto la media mondiale. La produzione è ormai per il 39% industriale, per il 54% terziaria. La Cina è al primo posto al mondo nei prodotti dell’agricoltura (cereali, carne, frutta, verdura, tuberi, tè) e della pesca, nella produzione industriale e nell’offerta di materie prime quali piombo, zinco, stagno, alluminio, oro, carbone. E’ il massimo esportatore di beni (13% del totale mondiale), detiene 3,5 trilioni di dollari di riserve ufficiali, registra una posizione creditoria netta verso il resto del mondo dell’ordine dei 2,5 trilioni di dollari. Con Giappone e Germania è il principale creditore degli Stati Uniti, il massimo detentore del debito pubblico americano .
Questi fatti straordinari invitano a chiedersi come si configuri il tipo di economia a cui la società cinese è pervenuta e tende. “Economia di mercato capitalistica”, “mista”, “programmata”, “socialista di mercato”, “statalista” sono locuzioni di estrema sintesi, in un crescendo verso il ruolo preponderante dello Stato. Sono ipotesi da sottoporre a verifica che tuttavia, semplificando eccessivamente, possono celare la realtà piuttosto che riassumerla.
Fra i sostenitori di una Cina ormai “capitalista” va sottolineato l’apporto di Ronald Coase. Coase si chiede come “China has transformed over the past three decades from a broken economy where the market and entrepreneurship were banned to a vibrant one where market forces prevail and private enterprises blossom”[6]. “Capitalista” è per Coase un’economia che si affida al mercato e all’iniziativa privata, in un quadro giuridico che abbatte i costi delle transazioni[7].
La spinta a un passaggio così rapido sarebbe per Coase scaturita in notevole misura dal basso. Un popolo stanco della miseria e dei vincoli imposti dall’alto avrebbe finito per imporsi alla classe politico-burocratica di matrice comunista, affidando alla propria iniziativa la conquista del benessere. Politici e burocrati non poterono che prendere atto dell’ineluttabilità di dare forma ai mutamenti istituzionali e organizzativi necessari al mercato e all’impresa privata. Sia la presa d’atto sia le conseguenti riforme furono graduali, progressive: “China became capitalist with marginal revolutions”[8]. Il punto chiave dell’interpretazione di Coase è il seguente: “Besides the official track of reform directed by the Chinese government, there existed a separate track of reform. This was a combination of several spontaneous, grassroots movements some expressly prohibited by the chinese government (…), some discriminated against (…), and some guarded warily        by Beijing (…). The presence of two reforms – one state-led, one grassroots – in China’s economic transformation is beyond any doubt (…). The unintentional presence of two parallel tracks of reform  worked surprisingly well”[9]. Il Partito Comunista si sarebbe alla fine proposto come mediatore e arbitro, sancendo i mutamenti sul piano giuridico-istituzionale e su quello delle formule politiche. Soprattutto è riuscito a governare le lacerazioni sociali che un rivolgimento siffatto provocava, in un paese ancora profondamente segnato dalle cicatrici di quelle lacerazioni, antiche e recenti. A perpetuare il successo cinese mancherebbe, secondo Coase, quel “mercato delle idee” che l’apertura delle strutture scolastiche, la legge eguale per tutti e la democrazia sono chiamate ad assicurare, non sempre riuscendovi negli stessi paesi che le hanno da tempo sperimentate.
La tesi opposta trova tuttavia più di un sostenitore. Nella versione estrema quella cinese resterebbe un’economia dominata dallo Stato. I metodi invalsi dal 2012 sotto la guida di Xi Jinping hanno insospettito gli Stati Uniti, che li considerano incoerenti con un’economia di mercato: sussidi, crediti agevolati, favor per le imprese di Stato, acquisizione programmata di tecnologie all’estero, pressione sulle imprese straniere affinchè travasino tecniche nelle aziende cinesi, discriminazioni nei confronti della presenza industriale straniera[10].
Al congresso del partito nell’ottobre del 2017 Xi ribadiva la volontà di “sostenere il capitale statale per renderlo più forte, efficiente, vasto”.
Delle 103 imprese cinesi nel 2016 incluse dalla rivista “Fortune” fra le 500 maggiori al mondo 75 erano a controllo pubblico (con 16 milioni di dipendenti e oltre 7 trilioni di dollari di fatturato) e anche le rimanenti 28 si finanziavano grazie ai legami con lo Stato, il 68% dell’attivo di bilancio del sistema creditizio cinese facendo capo a intermediari pubblici. La concorrenza straniera resta altresì limitata da scarsa trasparenza delle regole, difficoltà nel rispetto dei contratti, inadeguata protezione della proprietà intellettuale e dei brevetti.
Il governo cinese ha lanciato nel 2015 e confermato nel 2018 un Piano Made in China 2025 teso a rendere dominanti nel mondo le industrie del Paese nelle tecnologie di punta: ICT, robotica, digitale, nuovi materiali, farmaceutica, strumenti medici, intelligenza artificiale. Anche la Belt and Road Initiative lanciata nel 2013 dal governo cinese è vista come strumento di penetrazione commerciale e politica in vaste aree del mondo, affidato in larga misura a imprese pubbliche inquadrate da Pechino. Questi e altri elementi hanno contribuito a motivare le misure e le minacce protezionistiche come pure la reazione sul piano geo-politico dell’Amministrazione Trump nei confronti d’una Cina dichiaratamente tesa a imporsi non solo come prima economia ma come “Zhongguo”, “il centro” (del mondo ?).

Più pragmaticamente esperti come Nicholas Lardy[11] hanno creduto di ravvisare un allontanamento dell’economia cinese dai tratti di mercato e iniziativa privata che aveva attinto sulla scia delle riforme avviate da Zhu Rongji, primo ministro nel 1998-2003. Sarebbe in atto un vero e proprio riflusso nella direzione di un’economia pianificata, governata dal Partito Comunista e dalle sue propaggini. Oltre che pericoloso sul piano geopolitico, il riflusso frenerebbe la crescita dell’economia cinese, già rallentata dalle minori esportazioni nette e dall’apprezzamento del cambio. Dato il peso della Cina ne risentirebbe lo sviluppo mondiale, Stati Uniti compresi.
Lardy esclude che l’economia cinese – al pari di altre, secondo la regola statistica della “ricaduta sulla media”[12] – sia destinata a rallentare semplicemente perché cresciuta tanto a lungo con ritmi forsennati. Nonostante questi ritmi in Cina il reddito pro capite era bassissimo nel 1978 (5% di quello americano) e resta tuttora comparativamente tale (30% di quello USA), tanto da giustificare un ulteriore, ampio recupero.
Il potenziale di progresso cinese è stato stimato alto – tra il 5 e il 7% al 2025 – anche in analisi basate sulle funzioni di produzione[13]. Lardy fonda un suo ottimismo sul riorientamento che su tre fronti è in atto nell’economia cinese: dagli investimenti e dalle esportazioni ai consumi privati e pubblici; dall’industria ai servizi moderni; dai profitti ai salari. Soprattutto lo fonda sui margini di arretratezza (Gerschenkron) che, se orientata al mercato, l’economia colmerebbe. La produttività aumenterebbe molto perché i divari d’efficienza sono tuttora grandi, fra imprese, settori, regioni, città e campagna. La Cina ha in agricoltura ancora circa un quarto della forza-lavoro, che esprime appena il 7% del Pil nazionale. La produttività complessiva crescerebbe solo trasferendo questa manodopera a industria e servizi, dalla campagna alla città.
Lardy pone in particolare l’accento sulle inefficienze delle imprese pubbliche, le SOE. Comunque misurate – aiuti statali, tassi medi di profitto, indebitamento, oneri per interessi – in assoluto e nel confronto con le aziende private le inefficienze sono elevate, nell’ultimo decennio crescenti.
Il fenomeno è d’ordine macroeconomico. Sostenute dal credito agevolato del sistema bancario pubblico, le SOE non finanziarie hanno visto il loro attivo di bilancio quadruplicare dal 2008 al 2016, avvicinando il doppio del Pil. Chiudendole o privatizzandole, non solo si risparmierebbe quasi il 3% del PIL nel bilancio dello Stato, ma la stessa crescita di trend acquisterebbe fra l’1 e il 2%, riportandosi sull’8% l’anno[14].

Fra le due estreme che contrappongono una Cina capitalista a una Cina statalista di ritorno si situa la posizione di Xi Jinping, l’attuale leader di Pechino. Per lui il sistema attuale è “una società socialista con caratteristiche cinesi”, ovvero “un moderno socialismo con caratteristiche cinesi” nel quale peraltro il mercato è “decisivo”. Restano pubblici i settori ad alta intensità di capitale, dell’industria di base e quelli considerati strategici: strade, ferrovie, aviazione, telecomunicazioni, fonti d’energia, siderurgia, alluminio, petrolchimica, armamenti. La formula di Xi esclude che il sistema sia dominato dal mercato e dagli interessi privati. La linea divisoria fra pubblico e privato è in effetti tutt’altro che netta. Le imprese controllate da privati sono spesso sostenute dallo Stato, non di rado registrate come pubbliche, talvolta date in “affitto” dai governi locali.
E’ forse strumentale al conservare il consenso popolare etichettare come “socialista” – sia pure con caratteristiche cinesi – un’economia nella quale ai privati fa capo ormai la più gran parte dell’attività produttiva del Paese. Nel 2016 le SOE non finanziarie avevano 46 milioni di addetti, su una forza-lavoro prossima agli 800 milioni per lo più impiegata da privati. Grandi imprese promosse e gestite da imprenditori si sono affermate sino a sfidare i giganti mondiali del settore: Hayer (elettrodomestici), Hengan (materiali sanitari), Geely e Byd (autoveicoli), Huawei, Xiaomi, Lenovo (elettronica), Alibaba (e-commerce), Tencent (messaggi on-line), Baidu (motore di ricerca) sono fra i principali esempi. I privati tuttavia sono accettati e valorizzati dallo Stato nella misura in cui praticano un insieme di regole che la leadership di Xi Jinping rende più stringenti: nel diritto dell’economia, nel contrasto alla corruzione, nella fiscalità, nel rapporto con la finanza[15]. L’1% dei cinesi più ricchi detiene un terzo del patrimonio totale del Paese, mentre appena l’1% del patrimonio fa capo al 25% della popolazione meno abbiente. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito è del pari altissima, misurata da un coefficiente di Gini non lontano da 0,50[16].
Si può anche ammettere – con Lardy – che senza SOE il bilancio statale risparmierebbe, l’economia crescerebbe di più, l’indebitamento delle imprese scenderebbe. Ma il debito pubblico supera appena il 50% del Pil, il ritmo di crescita dell’economia pre-covid – 6% l’anno – è comunque sostenuto, il rischio dell’instabilità finanziaria può apparire, ed essere, gestibile. Privatizzare le imprese pubbliche implicherebbe altresì far fronte alle proteste dei lavoratori che resterebbero disoccupati come pure alla reazione dei governi locali e degli strati burocratici coinvolti nella perdita di potere e di consenso.
I tentativi di rendere le SOE più efficienti proseguono: convertendole in società per azioni, fondendole, immettendovi capitale privato, trasformando in azioni i loro debiti, rendendo le banche più attente al loro merito di credito. Al tempo stesso permane la nomina di una parte dei loro dirigenti, oltre che dalla SASAC (la commissione statale creata nel 2003 per orientarle), dagli organi del Partito Comunista, con rischio di commistioni, conflitti d’interesse, reciproca “cattura”.
Nonostante i formidabili progressi compiuti, la società e l’economia della Cina sono gravate da problemi irrisolti: una produttività aumentabile si unisce ad acutissimi squilibri territoriali, distributivi, ambientali, nella rete di protezione sociale (pensioni, sanità), finanziari. Si comprende quindi come lo Stato intervenga, più che altrove, con l’intento di avviare quei problemi a risoluzione.
Inoltre, non fosse altro che per le sue dimensioni, la Cina oltre a condizionare l’economia mondiale è necessariamente in gara con gli Stati Uniti per il primato geopolitico. Parte di questo impegno è la ricerca, attraverso imprese pubbliche persino in perdita e il sostegno a grandi gruppi privati, di una leadership globale nelle tecnologie più avanzate.
Gli Stati Uniti vorrebbero una Cina interamente affidata al mercato che colmi per questa via le sue inefficienze e continui a esprimere una crescita capace di alimentare attraverso liberi commerci e una concorrenza fair l’intera economia mondiale, quella americana compresa.
Finora la risposta degli Stati Uniti alla sfida cinese – la risposta protezionistica – è stata la peggiore, sia per la sua inefficacia sia per le sorti dell’intera economia del globo. Gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto concentrarsi sul superamento delle loro debolezze interne. Queste sono emerse da anni, ben prima della crisi da covid, pessimamente gestita da una sanità inadeguata, con milioni di contagiati e decine di migliaia di vittime: produttività ristagnante, basso risparmio, basso investimento, bassa riserva di forza-lavoro (unita a divieti all’immigrazione), debito pubblico ampiamente eccedente il Pil, borse drogate dalla liquidità, bilancia dei pagamenti da mezzo secolo in disavanzo (a cui corrisponde una posizione debitoria verso l’estero che travalica gli 11 trilioni di dollari), scandalosi divari di mezzi e di opportunità fra ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne, stati dell’Unione. In sintesi, il Paese da un tempo troppo lungo vive in una bolla, al disopra delle proprie risorse. Queste aumentano tanto lentamente che presto o tardi non basterà più il dollaro valuta di riserva.
In sintesi, Cina e Stati Uniti sono entrambi giganti con i piedi d’argilla. La consapevolezza di ciò dovrebbe indurli a non scontrarsi – a evitare nuove “guerre dell’oppio” – e, se non a cooperare, a tollerare che anche la nazione rivale curi le sue piaghe.
Ne dipendono la pace e il benessere dell’intera umanità.

Note

1.  A. Maddison, L’economia mondiale dall’anno 1 al 2030. Un profilo quantitativo e macroeconomico, Pantarei, Milano 2008, Appendice statistica A; Id., L’economia cinese. Una prospettiva millenaria, Pantarei, Milano 2006.

2.  Per un’introduzione alla storia cinese nell’ultimo secolo cfr. G. Samarani, La Cina del Novecento. Dalla fine dell’Impero a oggi, Einaudi, Torino 2004.

3.  Maddison, L’economia cinese, cit., Tab. 3.10, p. 86.

4.  Ibidem.

5.  Economic Data, Federal Reserve Bank of St. Louis.

6.  R. Coase-N. Wang, How China Became Capitalist, Palgrave Macmillan, London 2012, p. 208.

7.  Sull’economia di mercato capitalistica e il suo affermarsi negli ultimi due secoli cfr. P. Ciocca,“L’economia europea: otto secoli+2, di prossima pubblicazione su “Studi Storici”.

8.  Ibidem, p. 46.

9.  Ibidem, pp. 159, 160, 167.

10.  W.M. Morrison, China’s Economic Rise: History, Trends, Challenges, and Implications for the United States, CRS Report, University of North Texas, June 25, 2019.

11.  Cfr. in particolare N. Lardy, The State Strikes Back – The End of Economic Reform in China?, Peterson Institute for International Economics, Washington 2019.

12.  L. Pritchett-L.H. Summers, Asiaphoria Meets Regression to the Mean, NBER, 2014.

13.  D.H. Perkins-T.G. Rawski, Forecasting China’s Economic Growth to 2025, in L. Brandt-T.G. Rawski, (eds.), China’s Great Economic Transformation, Cambridge University Press, Cambridge 2008.

14.  Lardy, op. cit., Ta. 2.1, p. 52 e p. 3.

15.  Xi’s new economy. Don’t underestimate it, The Economist, Aug 15th 2020.

16.  I. Musu, Eredi di Mao. Economia, società, politica nella Cina di Xi Jinping, Donzelli, Roma 2018, pp. 102-103.