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La Cina: un’economia di mercato capitalistica?

di - 28 Settembre 2020
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Più pragmaticamente esperti come Nicholas Lardy[11] hanno creduto di ravvisare un allontanamento dell’economia cinese dai tratti di mercato e iniziativa privata che aveva attinto sulla scia delle riforme avviate da Zhu Rongji, primo ministro nel 1998-2003. Sarebbe in atto un vero e proprio riflusso nella direzione di un’economia pianificata, governata dal Partito Comunista e dalle sue propaggini. Oltre che pericoloso sul piano geopolitico, il riflusso frenerebbe la crescita dell’economia cinese, già rallentata dalle minori esportazioni nette e dall’apprezzamento del cambio. Dato il peso della Cina ne risentirebbe lo sviluppo mondiale, Stati Uniti compresi.
Lardy esclude che l’economia cinese – al pari di altre, secondo la regola statistica della “ricaduta sulla media”[12] – sia destinata a rallentare semplicemente perché cresciuta tanto a lungo con ritmi forsennati. Nonostante questi ritmi in Cina il reddito pro capite era bassissimo nel 1978 (5% di quello americano) e resta tuttora comparativamente tale (30% di quello USA), tanto da giustificare un ulteriore, ampio recupero.
Il potenziale di progresso cinese è stato stimato alto – tra il 5 e il 7% al 2025 – anche in analisi basate sulle funzioni di produzione[13]. Lardy fonda un suo ottimismo sul riorientamento che su tre fronti è in atto nell’economia cinese: dagli investimenti e dalle esportazioni ai consumi privati e pubblici; dall’industria ai servizi moderni; dai profitti ai salari. Soprattutto lo fonda sui margini di arretratezza (Gerschenkron) che, se orientata al mercato, l’economia colmerebbe. La produttività aumenterebbe molto perché i divari d’efficienza sono tuttora grandi, fra imprese, settori, regioni, città e campagna. La Cina ha in agricoltura ancora circa un quarto della forza-lavoro, che esprime appena il 7% del Pil nazionale. La produttività complessiva crescerebbe solo trasferendo questa manodopera a industria e servizi, dalla campagna alla città.
Lardy pone in particolare l’accento sulle inefficienze delle imprese pubbliche, le SOE. Comunque misurate – aiuti statali, tassi medi di profitto, indebitamento, oneri per interessi – in assoluto e nel confronto con le aziende private le inefficienze sono elevate, nell’ultimo decennio crescenti.
Il fenomeno è d’ordine macroeconomico. Sostenute dal credito agevolato del sistema bancario pubblico, le SOE non finanziarie hanno visto il loro attivo di bilancio quadruplicare dal 2008 al 2016, avvicinando il doppio del Pil. Chiudendole o privatizzandole, non solo si risparmierebbe quasi il 3% del PIL nel bilancio dello Stato, ma la stessa crescita di trend acquisterebbe fra l’1 e il 2%, riportandosi sull’8% l’anno[14].

Fra le due estreme che contrappongono una Cina capitalista a una Cina statalista di ritorno si situa la posizione di Xi Jinping, l’attuale leader di Pechino. Per lui il sistema attuale è “una società socialista con caratteristiche cinesi”, ovvero “un moderno socialismo con caratteristiche cinesi” nel quale peraltro il mercato è “decisivo”. Restano pubblici i settori ad alta intensità di capitale, dell’industria di base e quelli considerati strategici: strade, ferrovie, aviazione, telecomunicazioni, fonti d’energia, siderurgia, alluminio, petrolchimica, armamenti. La formula di Xi esclude che il sistema sia dominato dal mercato e dagli interessi privati. La linea divisoria fra pubblico e privato è in effetti tutt’altro che netta. Le imprese controllate da privati sono spesso sostenute dallo Stato, non di rado registrate come pubbliche, talvolta date in “affitto” dai governi locali.
E’ forse strumentale al conservare il consenso popolare etichettare come “socialista” – sia pure con caratteristiche cinesi – un’economia nella quale ai privati fa capo ormai la più gran parte dell’attività produttiva del Paese. Nel 2016 le SOE non finanziarie avevano 46 milioni di addetti, su una forza-lavoro prossima agli 800 milioni per lo più impiegata da privati. Grandi imprese promosse e gestite da imprenditori si sono affermate sino a sfidare i giganti mondiali del settore: Hayer (elettrodomestici), Hengan (materiali sanitari), Geely e Byd (autoveicoli), Huawei, Xiaomi, Lenovo (elettronica), Alibaba (e-commerce), Tencent (messaggi on-line), Baidu (motore di ricerca) sono fra i principali esempi. I privati tuttavia sono accettati e valorizzati dallo Stato nella misura in cui praticano un insieme di regole che la leadership di Xi Jinping rende più stringenti: nel diritto dell’economia, nel contrasto alla corruzione, nella fiscalità, nel rapporto con la finanza[15]. L’1% dei cinesi più ricchi detiene un terzo del patrimonio totale del Paese, mentre appena l’1% del patrimonio fa capo al 25% della popolazione meno abbiente. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito è del pari altissima, misurata da un coefficiente di Gini non lontano da 0,50[16].
Si può anche ammettere – con Lardy – che senza SOE il bilancio statale risparmierebbe, l’economia crescerebbe di più, l’indebitamento delle imprese scenderebbe. Ma il debito pubblico supera appena il 50% del Pil, il ritmo di crescita dell’economia pre-covid – 6% l’anno – è comunque sostenuto, il rischio dell’instabilità finanziaria può apparire, ed essere, gestibile. Privatizzare le imprese pubbliche implicherebbe altresì far fronte alle proteste dei lavoratori che resterebbero disoccupati come pure alla reazione dei governi locali e degli strati burocratici coinvolti nella perdita di potere e di consenso.
I tentativi di rendere le SOE più efficienti proseguono: convertendole in società per azioni, fondendole, immettendovi capitale privato, trasformando in azioni i loro debiti, rendendo le banche più attente al loro merito di credito. Al tempo stesso permane la nomina di una parte dei loro dirigenti, oltre che dalla SASAC (la commissione statale creata nel 2003 per orientarle), dagli organi del Partito Comunista, con rischio di commistioni, conflitti d’interesse, reciproca “cattura”.
Nonostante i formidabili progressi compiuti, la società e l’economia della Cina sono gravate da problemi irrisolti: una produttività aumentabile si unisce ad acutissimi squilibri territoriali, distributivi, ambientali, nella rete di protezione sociale (pensioni, sanità), finanziari. Si comprende quindi come lo Stato intervenga, più che altrove, con l’intento di avviare quei problemi a risoluzione.
Inoltre, non fosse altro che per le sue dimensioni, la Cina oltre a condizionare l’economia mondiale è necessariamente in gara con gli Stati Uniti per il primato geopolitico. Parte di questo impegno è la ricerca, attraverso imprese pubbliche persino in perdita e il sostegno a grandi gruppi privati, di una leadership globale nelle tecnologie più avanzate.
Gli Stati Uniti vorrebbero una Cina interamente affidata al mercato che colmi per questa via le sue inefficienze e continui a esprimere una crescita capace di alimentare attraverso liberi commerci e una concorrenza fair l’intera economia mondiale, quella americana compresa.
Finora la risposta degli Stati Uniti alla sfida cinese – la risposta protezionistica – è stata la peggiore, sia per la sua inefficacia sia per le sorti dell’intera economia del globo. Gli Stati Uniti dovrebbero piuttosto concentrarsi sul superamento delle loro debolezze interne. Queste sono emerse da anni, ben prima della crisi da covid, pessimamente gestita da una sanità inadeguata, con milioni di contagiati e decine di migliaia di vittime: produttività ristagnante, basso risparmio, basso investimento, bassa riserva di forza-lavoro (unita a divieti all’immigrazione), debito pubblico ampiamente eccedente il Pil, borse drogate dalla liquidità, bilancia dei pagamenti da mezzo secolo in disavanzo (a cui corrisponde una posizione debitoria verso l’estero che travalica gli 11 trilioni di dollari), scandalosi divari di mezzi e di opportunità fra ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne, stati dell’Unione. In sintesi, il Paese da un tempo troppo lungo vive in una bolla, al disopra delle proprie risorse. Queste aumentano tanto lentamente che presto o tardi non basterà più il dollaro valuta di riserva.
In sintesi, Cina e Stati Uniti sono entrambi giganti con i piedi d’argilla. La consapevolezza di ciò dovrebbe indurli a non scontrarsi – a evitare nuove “guerre dell’oppio” – e, se non a cooperare, a tollerare che anche la nazione rivale curi le sue piaghe.
Ne dipendono la pace e il benessere dell’intera umanità.

Note

11.  Cfr. in particolare N. Lardy, The State Strikes Back – The End of Economic Reform in China?, Peterson Institute for International Economics, Washington 2019.

12.  L. Pritchett-L.H. Summers, Asiaphoria Meets Regression to the Mean, NBER, 2014.

13.  D.H. Perkins-T.G. Rawski, Forecasting China’s Economic Growth to 2025, in L. Brandt-T.G. Rawski, (eds.), China’s Great Economic Transformation, Cambridge University Press, Cambridge 2008.

14.  Lardy, op. cit., Ta. 2.1, p. 52 e p. 3.

15.  Xi’s new economy. Don’t underestimate it, The Economist, Aug 15th 2020.

16.  I. Musu, Eredi di Mao. Economia, società, politica nella Cina di Xi Jinping, Donzelli, Roma 2018, pp. 102-103.

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