Appalti e Innovazione. Un Dialogo Incompiuto. – Semplificazione, non de-regolazione, sfruttando appieno tutti gli strumenti disponibili

I. – Il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, recante l’attuale Codice dei contratti pubblici, ha solo quattro anni, ma è stato più volte modificato ed integrato. Additato fra le principali cause del blocco delle commesse pubbliche, le sollecitazioni ad una sua ulteriore e radicale modifica si sono fatte più pressanti in questi ultimi mesi, allo scopo di facilitare gli investimenti pubblici, che rappresentano una potente leva per il rilancio del Paese nella gestione del post Covid-19.
Perché ciò possa accadere, appare indispensabile allentare i mille lacci e lacciuoli, che da troppo tempo frenano gli investimenti pubblici. Il problema si pone innanzitutto per i lavori, dove i tempi richiesti dalla decisione sulle opere, dalla programmazione, dallo sviluppo di tre livelli di progettazione, dalle procedure per l’approvazione del progetto ed il rilascio dei vari permessi richiesti, nonché dalla necessità di assicurare il finanziamento dell’opera, fanno sì che un decennio possa non bastare per vedere i risultati. In realtà, secondo i dati recentemente diffusi dall’ANCE, la gestione di progetti di un certo rilievo, ad esempio per le infrastrutture, sembra molto più lunga e può richiedere fino a 18 anni. Anche i settori di servizi e forniture, dove pure la realizzazione si misura in tempi certamente inferiori, non sono esenti da difficoltà: carenze di programmazione e scarsa conoscenza del mercato, assenza di una adeguata progettazione, frequente impreparazione delle amministrazioni nella gestione delle procedure e nel cambiare appaltatore alla scadenza del contratto, rapida obsolescenza degli acquisti, sono fra gli elementi che più contribuiscono ad alimentare criticità.
Testimoni dell’attuale deterioramento del sistema sono la diffidenza che impronta i rapporti delle stazioni appaltanti nei confronti degli operatori economici e, viceversa, la scarsa fiducia che questi ultimi ripongono nella capacità di gestione delle amministrazioni.
Per ovviarvi, da più parti si prospetta la necessità di superare gli ostacoli caratterizzanti le procedure ordinarie, adottando, sulla spinta dell’attuale situazione di emergenza, paradigmi derogatori a diversi livelli: semplificazione amministrativa, nomina di commissari straordinari dotati di particolari poteri, maggiore flessibilità delle procedure – intesa come possibilità di fare acquisti senza i vincoli della gara europea -, sino ad arrivare alla ‘sospensione’ dell’attuale codice per consentire una ‘applicazione diretta’ delle direttive comunitarie, aventi ad oggetto la disciplina degli appalti pubblici nei settori ordinari, nei settori speciali nonché delle concessioni (direttive 2014/23/UE, sulle concessioni; 2014/24/UE, sugli appalti nei settori ordinari; 2014/25/UE, sugli appalti nei settori speciali).
Spesso la critica all’attuale sistema è così radicale che si auspica una ‘de-regolazione’, all’insegna della massima flessibilità nell’organizzazione dell’appalto secondo quanto si ritiene preferibile per quell’acquisto e in quel momento.
Ovviamente, in un paese appesantito da un profluvio di leggi, decreti, e regolamenti, la deregulation rappresenta una sorta di chimera e può esercitare un fascino irresistibile.
Peraltro, il nostro Paese non è nuovo all’esperienza di una normativa che valorizzi l’emergenza per superare, attraverso procedure in deroga, le criticità del sistema ordinario. Basti ricordare la superfetazione degli strumenti introdotti dalla vecchia legge sulla protezione civile del 1992, che ha caratterizzato i primi anni di questo secolo provocando il moltiplicarsi delle dichiarazioni di emergenza, legate ai fattori più disparati: in materia di rifiuti, nel settore idrico ovvero per i c.d. grandi eventi. Le maglie della legge vennero dilatate per consentire l’accentra-mento del potere decisionale e di amministrazione attiva, semplificare le procedure – in particolare, l’esperimento di procedure di gara non vincolate al rispetto della normativa comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici -, e facilitare la disponibilità delle risorse necessarie.
Nonostante il Commissariamento di ampie porzioni del territorio nazionale, tuttavia, spesso i progetti non sono stati realizzati o hanno richiesto tempi consistentemente più lunghi, tanto che l’Italia è stata censurata in sede comunitaria con la (ripetuta) condanna da parte della Corte di Giustizia. Infine, il sistema approntato sulla base della legge del 1992 è stato sostanzialmente smantellato dopo qualche anno, a causa delle molte deviazioni che ne erano derivate.
In passato, sposare la logica dell’emergenza non ha garantito il raggiungimento dei risultati sperati. Perché ciò avvenga, occorre si crei un contesto favorevole al raggiungimento del risultato. Inoltre, e prioritariamente, è necessario fare chiarezza su quali siano i risultati che si intendono raggiungere.
Superata la prima fase di emergenza ‘imperativa’, volta a fronteggiare i bisogni impellenti dopo l’esplosione dell’epidemia, si afferma l’obiettivo di un rilancio del Paese, attraverso la valorizzazione degli investimenti e l’utilizzo della potente leva rappresentata dalla domanda pubblica.
Il raggiungimento di un simile ed ambizioso obiettivo necessita di una prospettiva che vada oltre l’attuale contingenza e di strumenti adeguati a tal fine.
Ci pare quantomeno dubbio che una sostanziale deregulation possa superare gli ostacoli che caratterizzano le procedure ordinarie: a maggior ragione, se a tale deregulation si arrivi attraverso una sospensione del Codice. Per quanto presenti fortissime lacune, carenze e contraddizioni, ed anche molte ridondanze nell’aver attratto materie che avrebbero dovuto essere regolate altrove (ad es., programmazione, ciclo del progetto, norme tecniche sulle costruzioni), il d.lgs. 50/2016 ha ormai una esperienza di applicazione di oltre tre anni, nell’arco dei quali si è visto un progressivo incremento delle procedure di gara.
Una sua sospensione oggi introdurrebbe un regime transitorio, che – in attesa del nuovo assetto regolatorio – rischierebbe di alimentare ulteriori incertezze e conflitti. Inoltre, ci pare una soluzione inidonea ad assicurare un contributo costruttivo al rilancio del Paese.
II. Gli appelli a favore di una sostanziale sospensione del Codice concentrano l’attenzione soprattutto sui lavori pubblici e sembrano dimenticare i motivi strutturali della oramai lunga crisi del settore, che investono la pubblica amministrazione e lo specifico mondo delle costruzioni: questioni quali il processo decisionale, la struttura delle imprese di costruzione, l’alimentazione finanziaria dei lavori, i rapporti con le pianificazioni di area e di settore.
Sottendono inoltre una cronica sottovalutazione degli appalti di servizi e forniture, nonostante che in questi ultimi anni i due comparti abbiano sopravanzato, in termini di valore, quello dei lavori pubblici, acquisendo una rilevanza fondamentale dal punto di vista strategico.
Parimenti ignorati sembrano altresì i numerosi strumenti cui le direttive europee, approvate nel 2014, hanno affidato la modernizzazione della domanda pubblica. Ci si riferisce, in particolare, alla possibilità, per le stazioni appaltanti, di svolgere market test e di esperire procedure di gara scegliendo quella che più si adatta al bisogno di acquisto nel caso concreto: le direttive offrono modelli differenziati di procedure – oltre a quelle tradizionali e al dialogo competitivo, già presente nelle precedenti direttive –, caratterizzate da gradi diversi di discrezionalità e flessibilità nelle negoziazioni e volte ad un graduale affinamento della domanda nel corso della procedura, grazie al dialogo fra stazione appaltante e operatori partecipanti alla procedura. Queste procedure sono poco o nulla utilizzate nel nostro sistema.
Si noti che il problema della sottovalutazione riguarda non solo il D.lgs. 50/2016 – che, al di fuori dell’appalto di lavori, trascura completamente la dimensione progettuale -, ma altresì l’emanando Regolamento attuativo del Codice. Le bozze che sono state diffuse dedicano alla disciplina degli appalti di servizi e forniture pochi articoli – ma questo non sarebbe di per sé un difetto – di contenuto esclusivamente formale; per quanto ci consta, inoltre, non spendono nemmeno una parola sulle procedure diverse da quelle tradizionali.
In questo modo, si trascurano elementi che potrebbero rappresentare la vera leva per valorizzare il settore – anche nel mondo delle costruzioni – a seguito di ricerche di base ed applicate, e con essi gli strumenti amministrativi che sarebbero utilizzabili, ma che, purtroppo sono poco utilizzati da una amministrazione che non li conosce o è impaurita nell’usarli.

Ciò è grave non solo in sé, ma soprattutto se si pensa all’importanza che servizi e forniture hanno nella moderna economia, ed ancora di più in futuro. Anche nella gestione del post Coid-19.
Gli assetti fisici dei nostri insediamenti, di certo non cambieranno molto rispetto agli attuali. Neanche una convivenza forzatamente lunga con la presenza del Coronavirus consentirà di de-densificare le città, favorendo di realizzare gli obbiettivi del distanziamento fisico. La stessa gestione di processi sociali e produttivi caratterizzati dalla “lentezza” e dalla “distanza” tra operatori – “lenti” e “lontani”, questo lo slogan -, non saranno realizzabili se non si innovano profondamente, appunto, i processi e la produzione di beni e forniture, che dovranno essere distribuiti.
Si pensi, ad esempio, che in Francia è da tempo sperimentata la possibilità di ottenere “permessi di costruire” in deroga alle norme vigenti, purché motivati dalla applicazione di processi e di prodotti innovativi. Una sorta di applicazione dello strumento del contratto di innovazione, nei processi di progettazione di servizi, lavori e forniture, in ispecie quando riguardano materiali innovativi.
La costruzione del nuovo “villaggio olimpico”, ad esempio, è stata autorizzata con questa procedura innovativa: l’obiettivo è il rilascio di un permesso di costruire che incorpori, già dal suo rilascio originario, il cambio di destinazione d’uso una volta esauritasi la sua funzione di ospitare gli atleti olimpici. In questo modo, viene resa possibile non solo una innovativa progettazione e costruzione edilizia, ma anche una efficace organizzazione dell’intera operazione, non ultimo sotto l’aspetto economico-finanziario.
III. L’innovazione deve – o meglio, dovrebbe – svolgere un ruolo cruciale nel rilancio dell’economia.
La sua rilevanza è stata ben messa in luce dal legislatore comunitario nelle direttive del 2014, adottate a conclusione di un lungo iter segnato dai travagli della crisi economica del 2008. Queste direttive hanno segnato un cambio di passo testimoniato, fra l’altro, proprio dal rilievo centrale riservato all’innovazione.
Sino al 2014, l’innovazione rimane sostanzialmente al di fuori della normativa sugli appalti pubblici, rappresentando semmai un limite alla sua applicazione: ad essa erano dedicati gli appalti c.d. per la ‘ricerca e sviluppo’, richiamati dalle direttive esclusivamente al fine di indicare le condizioni per la loro esclusione dall’ambito della propria disciplina.
Le nuove direttive, viceversa, evidenziano l’importanza di un uso strategico degli appalti pubblici, nonché la necessità di valorizzare il fattore innovazione come motore per il rilancio dell’economia e per un progresso sostenibile sotto il profilo ambientale e sociale.
Per tale ragione, pur mantenendo un regime differenziato per gli appalti dedicati a ricerca e sviluppo, le direttive hanno in qualche modo integrato il fattore ‘innovazione’ all’interno della disciplina ordinaria. Significative appaiono, sotto questo profilo, l’introduzione di una definizione di ‘innovazione’ – vale a dire “l’attuazione di un prodotto, servizio o processo nuovo o significativamente migliorato”; la possibilità, per le stazioni appaltanti, di instaurare un dialogo costruttivo e preventivo con gli operatori mediante test di mercato; la pluralità di procedure caratterizzate da un elevato grado di discrezionalità e flessibilità in rapporto, fra l’altro, alle esigenze di progressiva definizione dell’oggetto dell’acquisto – ab origine non presente sul mercato -, e al suo tasso di innovazione: dialogo competitivo, procedura competitiva con negoziazione, partenariato per l’innovazione.
Le disposizioni delle direttive sono state recepite dalla disciplina nazionale, ma proprio le parti che avevano lo scopo di incentivare l’innovazione – come le procedure sopra descritte -, sono rimaste per lo più lettera morta.
Bisogna riconoscere che il problema non sembra riguardare solo l’Italia ed è stato evidenziato dalla Commissione europea in una Comunicazione dell’ottobre 2017, Appalti pubblici efficaci in Europa e per l’Europa (COM(2017) 572 del 03.0.2017), volta a promuovere un maggiore uso di appalti strategici. In quell’occasione la Commissione, pur riconoscendo i rilevanti sforzi fatti da taluni Stati membri per modernizzare la domanda pubblica, constatava come a livello generale non fossero state colte appieno le opportunità offerte dalle nuove direttive, posto che la maggior parte delle procedure di gara risultavano ancora aggiudicate al prezzo più basso. Per tale ragione, invitava a passare da un ‘approccio puramente amministrativo a uno strategico e orientato alle esigenze’, al fine di favorire gli investimenti nell’economia reale e stimolare la domanda, per aumentare la competitività basata sull’innovazione e sulla digitalizzazione. La Comunicazione propone una strategia per gli appalti pubblici che definisca il quadro generale, fissando alcune priorità volte a migliorare gli appalti nella pratica e sostenere gli investimenti nell’UE: garantire una più ampia diffusione degli appalti pubblici strategici; professionalizzare gli acquirenti pubblici; migliorare l’accesso ai mercati degli appalti; aumentare la trasparenza, la qualità e l’integrità dei dati; promuovere la trasformazione digitale degli appalti; cooperare negli appalti.
Alcune delle suggestioni provenienti dalla Commissione sembrano essere state raccolte nel nostro Paese, come testimonia la recente crescente attenzione ai temi della digitalizzazione e dell’innovazione (si vedano, ad esempio, la creazione di una struttura ad hoc presso la Presidenza del Consiglio ad opera dell’art. 1, co. 401, della l. 160/2019, nonché le informazioni consultabili sul sito appaltinnovativi.gov.it). Per quanto ci consta, tuttavia, al momento l’attenzione sembra concentrata prevalentemente, se non esclusivamente, sugli accordi pre-commerciali. Manca, viceversa, una visione strategica per incentivare appalti innovativi – e le connesse procedure di affidamento – di dimensione industriale; a ciò si aggiunga che gli investimenti pubblici complessivamente programmati, in alcuni settori sono di entità assolutamente insufficiente a sviluppare progetti su scala nazionale.
Molta strada rimane ancora da fare, dunque, e non sembra che l’attuale dibattito sulla sospensione del Codice possa offrire un contributo costruttivo in tal senso.
E’ di pochi giorni fa un documento, predisposto da ANAC ed inviato alla Presidenza del Consiglio e ai Ministri competenti, contenente varie proposte per velocizzare le procedure e favorire la ripresa economica. Le proposte dell’Autorità vertono essenzialmente su due profili: da un lato, le “strategie e azioni per l’effettiva semplificazione e trasparenza nei contratti pubblici attraverso la completa digitalizzazione”; dall’altro, l’individuazione delle condizioni per fare ricorso a procedure eccezionali sino al 31 dicembre 2020.
Tali iniziative appaiono apprezzabili per la parte in cui mirano a favorire la digitalizzazione e la semplificazione delle procedure (ad es., valutazione dei requisiti separata dalla valutazione di merito, lavoro dei commissari in «remoto», con la riduzione del numero delle sedute pubbliche).
Tuttavia, ancora oggi, l’ANAC non sembra aver colto la dimensione profonda e l’importanza della qualificazione della domanda pubblica – e non solo nel settore dei lavori pubblici – né la necessità progettare appalti a contenuto plurimo – lavori, forniture, servizi, dove il criterio della prevalenza non si esprime esclusivamente in termini economici -, superarando la programmazione per settore a favore di una integrazione intersettoriale che coinvolga esplicitamente ambiente, territorio e città.
IV. In settori ad elevata complessità tecnologica, l’investimento pubblico è indispensabile e deve essere di entità adeguata; tuttavia, da solo non riesce ad essere efficace, richiedendo invece un’integrazione con l’iniziativa privata. Inoltre, l’innovazione deve essere parte di un processo organico.
Perché ciò possa avvenire, occorre una strategia non di breve periodo ed articolata su più livelli, che non sia limitata alla sola materia degli appalti pubblici.
Per quanto riguarda specificamente questi ultimi, numerose sono le proposte di riforma e riordino. Ai limitati fini di questo contributo, preme evidenziarne due.
Il primo, indispensabile, intervento riguarda la razionalizzazione delle regole e delle relative fonti di produzione, nonché il riordino delle competenze istituzionali. Questi ultimi anni sono stati caratterizzati da una iper-produzione normativa, dalla pluralità di livelli di regolazione – spesso non coerenti fra di loro -, nonché dalla presenza di soggetti dotati di competenze in larga parte sovrapponibili.

Tutto ciò ha alimentato una inaccettabile incertezza sull’assetto delle regole e delle competenze. La normativa sugli appalti pubblici andrebbe emendata dalle numerose componenti ‘spurie’, che l’hanno appesantita in questi anni – a cominciare dall’anticorruzione, alle cui esigenze è stato ricondotto, in un’ottica riduttiva e semplicistica, il principio di trasparenza -, e riportata alla sua funzione essenziale: quella di ottimizzare le regole formali e sostanziali per gli acquisti delle stazioni appaltanti.
Occorre inoltre elaborare una politica di acquisti a livello centrale, che assicuri la realizzazione di progetti su scala nazionale a beneficio di tutte le amministrazioni, incluse quelle locali, dalle quali provengono sovente le maggiori resistenze a coltivare progetti innovativi. L’incentivazione di procedure complesse che consentano di realizzare investimenti pubblici in digitalizzazione ed innovazione presuppone l’esistenza di una politica pubblica di modernizzazione della domanda. D’altro canto, per procedure di una certa complessità, non è pensabile che tutte le amministrazioni acquistino per conto proprio.
Nessuna riforma in materia di appalti potrà, però, risultare risolutiva se, nel contempo, non si affrontano alcuni nodi irrisolti. Le criticità del sistema sono note da tempo; nonostante ciò, sembrano puntualmente ignorate dall’afflato riformista del nostro legislatore.
Ci si riferisce, innanzitutto, al problema della qualificazione delle stazioni appaltanti e all’utilizzo della aggregazione della domanda come strumento per puntare sulla qualità – anziché esclusivamente sul risparmio. Tali obiettivi erano già stati enunciati dal Codice dei Contratti pubblici varato nel 2016, rappresentandone uno dei profili di maggiore interesse, ma non hanno mai avuto concreta attuazione.
Una seconda, rilevante, criticità del sistema è data dalle regole che presiedono alla responsabilità dei funzionari pubblici, in particolare per danno erariale. Attualmente, tali regole non premiano il conseguimento del risultato per diverse ragioni, a cominciare dall’elasticità con cui viene interpretato il concetto di colpa grave ed individuato il danno risarcibile. La salvaguardia della decisione discrezionale, la capacità di gestione e la considerazione dei risultati sostanziali ottenuti – non del singolo atto di gestione -, sono aspetti troppo spesso considerati secondari rispetto all’osservanza formalistica delle procedure e rappresentano, al più, un ‘fattore di riduzione’ del danno erariale. Viceversa, tali elementi dovrebbero avere un peso determinante nel valutare la responsabilità del funzionario – beninteso, sempre che questi non abbia agito dolosamente. In direzione opposta a quella appena delineata sembrano andare alcune proposte di riforma, che, per quanto consta, mirerebbero a sottoporre determinati atti – ad es., quelli di gara – al controllo preventivo della Corte dei Conti. Anche se spesso invocato dai funzionari pubblici per ottenere una ‘copertura’ preventiva, un simile controllo non potrebbe che essere puramente formale e rischierebbe di aggiungere un ulteriore elemento di appesantimento delle procedure e di moltiplicazione delle regole, in ultima analisi inducendo l’effetto di una sostanziale deresponsabilizzazione dei funzionari stessi.
Una terza componente, sulla quale è indispensabile intervenire, riguarda i processi decisionali. La pluralità e complessità dei procedimenti necessari alla realizzazione di un progetto, il moltiplicarsi dei centri decisionali – ciascuno competente per un frammento, mai per l’intero -, e la continua incertezza sulle regole, rappresentano oggi un insormontabile ostacolo alla decisione e rallentano, quando non precludono, il conseguimento del risultato.
La semplificazione delle procedure, pertanto, non dovrebbe riguardare tanto, o solo, la fase della gara, bensì l’intera catena –riducendone gli anelli -, dalla ricognizione del fabbisogno alla esecuzione del contratto. La riduzione dei passaggi necessari alla realizzazione di un investimento e la semplificazione dei procedimenti decisionali avrebbe, poi, ricadute positive anche sul fronte del contenzioso legato ai singoli progetti, favorendone la concentrazione e la rapida definizione.
In questo quadro, un ruolo fondamentale è giocato dalla decisione e dai tempi del finanziamento pubblico: troppo spesso, infatti, accade che dietro gli ostacoli ‘burocratici’ si nascondano in realtà criticità del processo decisionale o ritardi nelle procedure di finanziamento dell’intervento.