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Uscita dal confinamento e il non facile riavvio : note di inizio percorso

di - 15 Giugno 2020
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È stata evocata l’analogia fra impatto di questa pandemia e quello di una guerra mondiale, l’ultima, o la precedente. Si tratta certo di accostamento improprio di eventi non comparabili, utili forse più ad alimentare una retorica esortativa verso la disciplina collettiva nella sofferenza, e l’attesa fiduciosa di una successiva fase di ‘ricostruzione’.
Riprendo, tuttavia, la metafora ‘bellica’ come espediente narrativo, per evocare quelli che sono, a mio avviso, due similitudini, e invece una differenza, dei quadri economici e sociali conseguenti. Shock ‘pandemico’ e shock bellico condividono, in primo luogo, l’immediato impatto per il fabbisogno di una finanza ‘eccezionale’ a cui lo Stato deve fare fronte. Nella pandemia, si tratta in primis dei costi diretti di contrasto sanitario; ma pesano subito, e ancora di più, le erogazioni di supporto di liquidità sussidiaria, che consentono di alimentare nelle situazioni di lock-down il circuito di reddito-spesa delle famiglie, al limite, a livello del minimo di sussistenza. La guerra, d’altra parte, impone allo stato ingenti spese, per armamenti e vettovagliamenti di una forza lavoro sottratta alla produzione e inviata ai fronti.
Una seconda similitudine si propone fra pandemia e guerra: entrambi si proiettano nel tempo, in contesti di grande incertezza, per direzioni di sviluppo, durata ed intensità degli eventi. Quando cadono le iniziali illusioni, di un blitzkrieg dai rapidi esiti favorevoli, si deve fronteggiare una resistenza ‘nemica’ che potrà rivelarsi ostinata, dove a fasi di ripiegamento possono seguire ritorni aggressivi.
È stata la durata, inizialmente sottovalutata, dello sforzo bellico, che ha portato, nei conflitti mondiali del passato, a rendere vana rapidamente ogni norma, o buona pratica, di gestione ordinaria di finanza pubblica, da quella più conservatrice di bilancio in pareggio, a quadri più progressivi dove consistenze di debito pubblico erano giustificate da una contropartita di ‘capitale sociale’ finanziato in deficit.
Con ‘Finanza di guerra’ si allude, ancor oggi, a situazioni in cui le fonti correnti di alimento delle entrate, fiscalità e titoli di debito assorbiti da un risparmio privato sul ‘mercato’, diventano ampiamente inadeguate rispetto alle urgenze della spesa. L’interruzione dei circuiti ordinari di produzione-consumo prosciuga redditi e scambi, fonti di incasso di tributi diretti ed indiretti. Il risparmio corrente sarà probabilmente negativo per i più; quello ‘accumulato’ e parcheggiato nelle diverse forme di ricchezza finanziaria tenderà a rifuggire acquisti di titoli di debito pubblico, quando subentrano anticipazioni di prossima insostenibilità. Estrazioni dal risparmio per lo sforzo bellico, o post-bellico, richiederanno allora forme di ‘coazione’ politica (‘oro alla patria’, ‘prestito della ricostruzione’, consols irredimibili, ecc.), o infine una qualche forma di imposizione patrimoniale , al limite ‘implicita’ (es. iperinflazione post-bellica). In conclusione, una emergenza che si prolunghi nel tempo comporta, alla fine, una quota ampiamente maggioritaria di spesa corrente ‘finanziata’ da emissione monetaria. Tale quota si avvicinò al 90% negli anni finali delle due guerre mondiali nei paesi coinvolti…
Il finanziamento ‘monetario’, nelle circostanze, può passare attraverso diverse modalità: monetazione diretta, acquisti di titoli di debito pubblico diretto (mercato ‘primario’) o indiretto (secondario’) da parte dell’Istituto di Central Banking. Interessi e scadenze sui titoli emessi rappresenteranno, in ogni caso, un vincolo pesantissimo per la capacità di spesa in una successiva fase di ‘ricostruzione’.
Riprendendo la metafora bellica, rimane ancora da sottolineare il punto di diversità per la implicazione macroeconomica di ‘pandemia’ e ‘guerra’. Si ascolta spesso nel dibattito corrente che la crisi è allo stesso tempo crisi ‘dal lato dell’offerta’ e ‘dal lato della domanda’. Solo commentatori più attenti inquadrano tuttavia il punto di diversità: in una crisi pandemica, le interruzioni dei circuiti di produzione-reddito descrivono uno shock negativo di offerta, a cui segue lo shock, ancora negativo, di domanda, sul circuito reddito-spesa. Il lock-down sottrae lavoro, e rende inoperoso il capitale, riducendo l’offerta aggregata; ma le perdite di remunerazioni dei lavoratori, del cash-flow d’impresa, ecc., innescano immediatamente sequenze (e moltiplicatori) ‘keynesiani’, per la caduta della spesa. Lo shock subito si trasmette al mercato del lavoro; un’ampia quota di attività e di occupazioni associate a fruizioni di consumo, in particolare nell’area dei servizi alla persona, viene posta in fermo totale. Le aspettative sono a loro volta negativamente colpite dall’incertezza circa tempi e entità di una ripresa della domanda finale. Il pessimismo frena ulteriormente la propensione alla spesa, innescando il loop negativo. Accenniamo alla diversa valenza di un’economia in guerra, nel senso proprio: lo sforzo bellico si associa invece ad una fattispecie di spesa pubblica corrente estremamente ‘carica’ di assorbimento diretto ed indiretto di risorse umane (Warfare Economy!)…. Allo shock di offerta negativo, per il lavoro sottratto ad impieghi produttivi e mandato al massacro, si contrappone qui uno ‘shock di domanda’ positivo…Le guerre hanno portato ad una straordinaria mobilitazione (ahimé, seguita dalla smobilitazione nei dopoguerra…) di un potenziale di lavoro femminile, chiamato a sostituire le leve maschili con impegni in lavori ‘pesanti’, considerati altrimenti di appannaggio maschile. Anche le implicazioni inflazionistiche divergono: eccessi di domanda ed inflazione repressa in guerra, lacune di domanda e rischio deflattivo (con la possibile eccezione dei comparti di un consumo essenziale, cibo, ecc.), in seguito a lock-down.
Queste considerazioni, limitate allo scenario macroeconomico, sono in parte scontate, e carenti, quando si omettono le ripercussioni anche queste devastanti a livello di una ‘psicologia sociale’, individuale e collettiva, degli eventi. Si rinvia, per queste, a contributi di più esperti.
L’incertezza rimane lo sfondo, entro cui si deve muovere il decisore politico nella missione ‘quasi impossibile’ di ricerca del percorso di minor danno, nel trade-off fra rischi di risorgenza epidemica e recessione cumulativa. Quando cade l’illusione di blitzkrieg, inizia la difficile continuità in vita in stato di guerra, o di ‘convivenza con il virus’. Il mancato superamento, di fatto, dell’emergenza, può allora fare apparire declamatori i propositi enunciati per politiche nella ‘ripresa’. Tuttavia, se non si pongono, sin da ora, una visione per il ‘dopo’, e una strategia per la ‘ricostruzione’, l’ansia che incombe sul presente diventa ancor più opprimente, e rischia magari di alimentare fantasie di sortite avventurose.
Su questo terreno non bastano, a mio avviso, gli appelli che invocano la funzione prioritaria degli investimenti pubblici, con richiami spesso scontati: green economy, networking, infrastrutture materiali e immateriali, ecc. Si attenderebbero invece elenchi e selezioni per progetti concreti, con specificazione per priorità, tempi di realizzazione, costi e modi di finanziamento. E questo da adesso, ancora nell’immanenza delle urgenze sanitarie e sociali che richiedono la continua attenzione e tempestività di contrasto.
Nelle circostanze ricordate, il ‘buco nero’, che può inghiottire fabbisogni cumulativi di liquidità con crescenti oneri e criticità per il bilancio, è rappresentato dal supporto di quelle fasce di popolazione per cui lo shock pandemico ha implicato la completa interruzione del flusso di reddito e di capacità di spesa. Casse ‘in deroga’, sussidio d’emergenza per il lavoro autonomo, ecc. dovranno essere assicurate, e con migliore tempestività, anche nelle circostanze malaugurate di criticità che persistono. Alcuni comparti di un terziario commerciale e di servizi al consumo, negli episodi ciclici del passato, avevano rappresentato aree di assorbimento di lavoro e, pur spesso con basse remunerazioni e con precarietà, fonti di reddito principale od addizionale essenziali per la sussistenza economica e la tenuta sociale in contesti territoriali spesso difficili. È questa ampia area di servizi ad ‘elevata intensità di contatto umano’ che è oggi in caduta. Al dramma immediato si aggiungono aspettative di fragilità di un recupero di domanda, anche nella fase di progressivo allentamento dei vincoli alle attività e alle mobilità. Un esempio: quanti, e fra quanto tempo, prenoteranno crociere su ingombranti palazzi galleggianti, luoghi privilegiati di diffusione del virus? Ma le prospettive appaiono sconfortanti anche per le aree più meritevoli, di un consumo di cultura, arte, spettacoli, ecc.
Il declino, forse inevitabile, di una vocazione e di capacità di attivazione occupazionale della manifattura, e le dotazioni naturali ed artistiche del ‘bel paese’, hanno fatto del turismo il settore forse più importante per attivazione di impiego e reddito negli anni recenti, con una intensità anche eccessiva in molti contesti. Se la propensione ai consumi di leisure non può venir meno, nel lungo periodo, nelle società di consumo ‘mature’, i tempi per il recupero dallo shock pandemico non si annunciano tuttavia brevi. Nel frattempo, si deve cercare di contenere la perdita, in parte inevitabile, di strutture e risorse umane, dal lato dell’offerta.

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