Cina e Covid-19

SOMMARIO: Tre rapporti su la Cina e il Covid-19; Il controllo del virus e l’intelligenza artificiale; I tempi e i modi dello sviluppo dell’epidemia in Cina; La fase di riapertura; Da dove è venuto Covid-19; Le difficili prospettive di una cooperazione internazionale.

Tre rapporti su la Cina e il Covid-19.
Alla fine di febbraio 2020 è stato reso pubblico il rapporto steso da un gruppo di studiosi della World Health Organization (WHO, 2020) che ha visitato la Cina per rendersi conto di come il paese aveva affrontato la crisi del Covid-19.
Nel rapporto si afferma che il gruppo ha visitato ospedali, laboratori, imprese, mercati nei quali si vendevano animali vivi, stazioni ferroviarie, uffici dei governi locali e ha analizzato i dati raccolti dagli scienziati cinesi.
Dal rapporto risulta circa l’80% delle persone infettate ha avuto una malattia che si può considerare leggera o di gravità moderata; il 14% ha avuto sintomi di notevole serietà; il 6% ha avuto un esito mortale in conseguenza di crisi respiratorie, shock settici e crisi di altri organi.
La mortalità è risultata più elevata tra le persone con più di 80 anni, e in particolare tra coloro che presentavano ipertensione, malattie cardiache, diabete; i bambini colpiti sono stati il 2,5% dei casi e nessun bambino è stato colpito in modo grave.
I sintomi più comuni sono stati febbre e tosse secca; molto meno, raffreddore. Per i casi lievi o di moderata intensità il tempo medio di guarigione è stato di due settimane.
Secondo il rapporto, l’epidemia alla data del 20 febbraio aveva colpito più di 75 mila persone (oggi si riconosce che hanno superato gli 80 mila). Il picco dell’epidemia si è manifestato tra il 20 e il 23 gennaio con oltre 3500 casi giornalieri a Wuhan e oltre 5000 casi giornalieri in tutta la Cina.
Da allora, in seguito alle misure del governo, i casi sono continuamente diminuiti fino a raggiungere i 400 in tutta Cina al 20 febbraio, quando il gruppo della WHO ha concluso le sue analisi.
Secondo il rapporto della WHO, la lotta della Cina è stata un successo.
Il 22 aprile il quotidiano China Daily ha pubblicato un rapporto steso dal China Watch Institute in collaborazione con l’Institute of Contemporary China Studies at Tsinghua University e la School of Health Policy and Management del Peking Union Medical College su come la Cina ha affrontato l’epidemia di Covid-19 (China Watch Institute, 2020).
Come c’era da aspettarsi, si tratta di un rapporto auto-elogiativo che sottolinea i successi della Cina ancora di più del rapporto della WHO.
Il rapporto mette in evidenza vari aspetti del successo contro il Covid-19: l’uso delle tecnologie digitali e delle applicazioni dell’intelligenza artificiale nell’individuazione dei contagiati e dei portatori del virus; l’utilizzo di sistemi per il trattamento medico visualizzato a distanza e per apparecchi di intervento medico e chirurgico basati sulla rete 5G non solo per il trattamento dei pazienti infetti, ma anche per ridurre la trasmissione negli ospedali; l’impegno di personale nelle comunità urbane e nei villaggi rurali del paese per raccogliere i test e informare e aiutare le famiglie isolate anche con la fornitura di beni di prima necessità; l’impegno degli esperti per analizzare i dati raccolti, la storia medica dei casi confermati e di quelli venuti a contatto con questi.
Sulla capacità di eseguire test e di aumentare il tasso di esecuzione di questi test, in particolare quelli sull’acido nucleico per individuare la presenza di anticorpi, il rapporto riferisce che la capacità nella provincia dello Hubei è aumentata da 300 al giorno al momento dello scoppio della malattia a 20 mila al giorno, con una velocità di risposta caduta da sei giorni a quattro-sei ore.
Il rapporto però tace sulla effettiva capacità dei test di individuazione degli asintomatici, probabilmente molto più elevata delle persone risultate positive.
Infine un aspetto interessante del rapporto è l’attenzione dedicata ai trattamenti medici: l’uso di prodotti per il trattamento della medicina occidentale e di plasma prelevato da persone infette sarebbe stato combinato con successo con trattamenti basati sulla medicina cinese tradizionale.
Un terzo rapporto interessante su quello che è successo in Cina per quanto riguarda la diffusione del Covid-19 è quello dell’International Food Policy Research Institute (IFPRI), con un team di ricercatori della Stanford University, sulla diffusione del virus nelle aree rurali (Rozelle e altri, 2020).
Si tratta di un argomento del quale si sa molto poco, o comunque molto meno di quello che è successo nelle aree urbane; ma è un argomento importante dato il grande numero di migranti nelle città, anche dello Hubei, che sono ritornati in campagna prima del lockdown.
Il team ha condotto una ricerca telefonica su un campione di 726 persone in villaggi di sette province rurali al di fuori di quella dell’Hubei chiedendo quanti contagiati e quanti morti vi erano stati in ciascun villaggio, quali misure erano state prese per il controllo della malattia, e quali erano stati gli effetti di queste misure in termini di occupazione, e di situazione sanitaria e educativa.
La ricerca ha rivelato che in tutti i villaggi erano state prese misure di isolamento molto strette, che in più del 95% dei villaggi erano disponibili strumenti di distanziamento sociale come le mascherine. Queste misure hanno avuto effetto. Solo 4 dei 726 intervistati sono stati contagiati e dei circa 70 mila abitanti nei villaggi coinvolti solo il 10% era stato contagiato, senza nessuna morte.
Le conseguenze sociali sono però state pesanti: oltre il 90% degli intervistati ha dichiarato di aver perso il lavoro e quindi di aver avuto pesanti tagli di reddito, nonostante i peraltro magrissimi aiuti pubblici; le conseguenze sono state aggravate dall’aumento dei prezzi dei beni alimentari; l’80% degli intervistati ha denunciato un impatto negativo sull’istruzione dei figli anche se molti hanno riconosciuto l’intensificazione dell’educazione on-line; il 60% ha dichiarato di aver avuto serie difficoltà nella cura di malattie che non fossero il Covid-19.
Gli effetti sono stati aggravati dalla impossibilità dei migranti rientrati nelle campagne di ritornare di nuovo a lavorare nelle città, sia per le restrizioni ai movimenti, sia per la mancanza di lavoro nelle aree urbane.

Il controllo del virus e l’intelligenza artificiale.
Nella battaglia contro il Covid-19 la Cina ha messo a frutto con successo i recenti progressi fatti nel campo delle tecnologie digitali e delle applicazioni dell’intelligenza artificiale.
Una interessante analisi è quella di Qi Xiaoxia, Direttore del Bureau of International Cooperation della Cyberspace Administration of China, riportata da World Economic Forum (Qi Xiaoxia, 2020).
Secondo Qi Xiaoxia, durante lo sviluppo dell’epidemia varie società hanno messo a disposizione i loro algoritmi di intelligenza artificiale per sostenere la ricerca su come tracciare e combattere il virus.
Ad esempio, Baidu ha messo a disposizione un suo algoritmo per l’analisi della struttura del RNA del virus, riducendo il tempo per ottenere risultati da un’ora a pochi secondi.
Il Center for Disease and Control and Prevention ha lanciato una piattaforma per l’analisi del genoma basata su un algoritmo di intelligenza artificiale sviluppato dall’Accademia DAMO (Discovery, Adventure, Momentum, Outlook) di Alibaba.
Alibaba Cloud ha messo a disposizione delle istituzioni di ricerca il suo potere di calcolo mediante intelligenza artificiale per accelerare lo sviluppo di nuovi trattamenti medici e di un vaccino.
Linfei Technology ha lanciato una piattaforma blockchain per il monitoraggio dell’epidemia in tempo reale su tute le province del paese.
La stampa internazionale ha dato ampia evidenza del successo della Cina nella applicazione di tecnologie contactless ma per misurare le temperature ed effettuare diagnosi a distanza, per controllare gli individui infetti e rafforzare in modo più mirato l’isolamento.

I telefoni cellulari dei cinesi sono stati dotati di app in grado di tracciare la diffusione del virus.
Nella app Alipay Health Code emessa da Ant Financial di Alibaba, il colore rosso del codice Quick Response (QR) indica che la persona dovrebbe stare in quarantena per 14 giorni, il colore giallo indica la necessità di una quarantena di una settimana, il colore verde indica la possibilità di passare liberamente attraverso un controllo.
L’utilizzo degli strumenti di sorveglianza dei cittadini attraverso le applicazioni delle tecnologie digitali nella lotta contro il Covid-19 è stato certamente utilizzato per aumentare le possibilità di controllo sociale del governo sui cittadini; ma il fatto che abbia permesso di meglio affrontare l’epidemia ha quantomeno ridotto le critiche per l’eccessiva intromissione del governo nella vita privata delle persone.

I tempi e i modi dello sviluppo dell’epidemia in Cina.
Nessuno dei rapporti appena citati si occupa dei tempi nei quali l’epidemia si è sviluppata in Cina e della modalità con le quali si è mosso il governo.
I grafici presentati nel rapporto pubblicato da China Daily, che si riferiscono ai casi cumulativi e ai nuovi casi giornalieri, danno un valore zero fino alla metà di gennaio 2020, cioè in pratica fino al 23 gennaio quando è stato deciso il lockdown di Wuhan.
Nel rapporto della WHO c’è solo un cenno al fatto che fin dal 30 dicembre 2019 nell’ospedale Jinyintan di Wuhan erano stati prelevati materiali dai bronchi di un paziente affetto da una polmonite di eziologia sconosciuta che, esaminati, hanno rivelato un virus del tipo coronavirus.
Dal rapporto pubblicato su China Daily e soprattutto da quello della WHO ci si sarebbe aspettati di più; quei due rapporti, e soprattutto quello della WHO, sarebbero stati una buona occasione per dire qualcosa, e magari per smentire con delle prove, quanto scritto sulla stampa internazionale sulle colpe che la Cina avrebbe avuto nell’ignorare per troppo tempo i segnali dello scoppio della epidemia.
Bisogna riconoscere che molti sono i segnali di poca chiarezza da parte cinese sui tempi e i modi dell’origine e dello sviluppo dell’epidemia.
Un articolo pubblicato il 13 marzo sul South China Morning Post di Hong Kong (giornale di proprietà di Jack Ma, fondatore di Alibaba) sostiene di aver visto fonti governative secondo le quali una persona era stata trovata infetta da Sars-Cov-2, il virus responsabile di Covid-19, ancora il 17 novembre 2019 (Ma, 2020).
Uno studio pubblicato su The Lancet il 24 gennaio informava che il 2 gennaio 2020 41 pazienti ricoverati erano risultati positivi al Covid-19; 27 di questi erano stati esposti allo Huanan Seafood Market di Wuhan; ma gli altri 14 non erano mai stata in contatto con il mercato di Wuhan (Huang Chaolin e altri, 2020).
Il 21 gennaio un gruppo di epidemiologi cinesi (Tan Wenjie e altri, 2020) pubblicò un articolo su CCDC (Chinese Center for Disease Control and prevention) Weekly nel quale si affermava che un gruppo di pazienti con una polmonite di eziologia ignota era stato trovato ancora il 21 dicembre 2019.
Ma già il 30 dicembre 2019 un oftalmologo dell’ospedale centrale di Wuhan, Li Wenliang, mise in rete un messaggio nel quale informava che sette pazienti ricoverati nel suo reparto erano stati trattati senza successo per polmoniti virali e temeva il rischio di un nuovo virus.
Era stato informato che già da alcuni giorni nel reparto di emergenza dell’ospedale erano stati individuati casi che sembravano simili alla Sars; tra i dottori che operavano in quel reparto e che aveva visto quei casi era la dottoressa Ai Fen.
Il 3 gennaio 2020 la polizia convocò il dottor Li Wenliang, ammonendolo per aver fatto commenti falsi su Internet. Li tornò al lavoro in ospedale, contrasse il virus e morì il 7 febbraio 2020.
Solo il 2 aprile è stato dichiarato martire e eroe nazionale. Il caso di Li Wenliang ha fatto grande scalpore sulla stampa e i media di tutto il mondo.
Il 10 marzo 2020 un quotidiano cinese pubblicò una intervista con la dottoressa Ai Fen nella quale ella rivelò che il 1° gennaio era stata severamente ammonita dalla direzione dell’ospedale per le notizie rivelate sul virus (Kuo 2020).
L’articolo fu ritirato dalla censura che ne ritirò anche una versione online. Non si ebbe notizia della dottoressa Ai Fen per un mese; il 14 aprile riprese servizio presso il suo ospedale.
Solo il 31 dicembre 2019 la Cina finalmente informò la WHO di un nuovo virus.
E’ significativo però che lo stesso giorno la rete CNA abbia riportato che la polizia di Wuhan aveva multato otto persone per aver messo su internet informazioni false; che il giorno dopo, il 1mo gennaio 2020, una società di sequenze genetiche abbia ricevuto dalla municipalità di Wuhan una diffida ad analizzare quelle da campioni del nuovo coronavirus e l’imposizione di distruggere quei campioni e non rivelare i dati trovati; che il 2 gennaio l’ospedale centrale di Wuhan abbia proibito a tutto lo staff di parlare pubblicamente del nuovo virus.
Il 3 gennaio il Comitato Nazionale per la Salute riconobbe che il nuovo coronavirus era un patogeno altamente pericoloso, però impose di trasmettere tutti i campioni ai livelli provinciali o più elevati, senza rivelare nessun dato.
Il 7 gennaio 2020 il presidente Xi Jinping, durante una riunione dello Standing Committee del Politburo del Partito Comunista Cinese, ha chiesto informazioni sulla prevenzione e il controllo della epidemia di polmonite scoppiata a Wuhan.
Il testo del discorso di Xi Jinping è stato pubblicato dal giornale ufficiale del Partito Comunista Qiushi (“La ricerca della verità”).
Nei giorni immediatamente successivi vari centri di ricerca cinesi hanno annunciato di aver individuato la sequenza genetica di Sars-Cov-2.
Ma solo il 20 gennaio Xi Jinping ha dato istruzioni su come si dovesse agire imponendo di fatto il lockdown a Wuhan.
In questi tredici giorni la autorità di Wuhan non sembrano essersi comportate in modo adeguato per fronteggiare la situazione.
Si è parlato di parties con migliaia di invitati in occasione di incontri provinciali del Partito Comunista.
Milioni di persone hanno lasciato Wuhan in occasione del capodanno cinese senza controlli.
E sembra che lo stesso inviato da Pechino avesse riferito che la situazione era sotto controllo.
Infine si è arrivati al “lockdown” di Wuhan il 23 gennaio e alla dichiarazione del più elevato livello di emergenza sanitaria in tutto il paese.
Tutti gli interventi per il controllo dell’epidemia sono stati messi sotto il controllo di un leading group guidato dal primo ministro Li Keqiang.
Il governo centrale è intervenuto in modo drastico nei confronti dei dirigenti locali di Wuhan e della provincia dell’Hubei (Zheng, 2020).
Il segretario del Partito Comunista dello Hubei è stato sostituito dal sindaco di Shanghai, che era stato uno stretto collaboratore del Presidente Xi Jinping quando era stato segretario del Partito nello Zheijang.
Anche il segretario del Partito di Wuhan è stato sostituito dal segretario del Partito della città di Jinan nella provincia dello Shandong.
Sono stati licenziati i responsabili delle commissioni sanitarie dello Hubei.
Queste misure sono state anche il risultato delle proteste dei cittadini che sono filtrate sui social media contro l’evidente incapacità e l’incompetenza delle autorità locali, contro gli interventi repressivi nelle prime settimane di gennaio tra cui quelli che avevano colpito operatori sanitari; in particolare la morte del dottor Li Wenliang.
È stato dopo che una commissione nazionale di inchiesta aveva riesaminato il suo caso che Li Wenliang è stato riabilitato e addirittura dichiarato eroe nazionale.
L’autorità centrale è intervenuta con un inviato speciale che ha di fatto preso il controllo della situazione sanitaria della intera provincia aumentando gli sforzi per identificare le persone infette, come del resto vari medici avevano richiesto.

Questo ha portato a un aumento consistente sia dei casi di persone contagiate, sia di quelle decedute.
I dati sulle persone decedute a Wuhan rivelati all’opinione pubblica internazionale sono aumentati di oltre il 50% rispetto a quelli inizialmente dichiarati.
L’incertezza e i ritardi nel periodo che è passato da quando i primi casi di Covid-19 si sono manifestati in Cina a quando si è arrivati al lockdown e i modi drastici, anche con un pesante intervento dell’esercito, con i quali questo stato attuato hanno finito spesso per mettere in secondo piano il pur evidente successo nel controllo dell’epidemia.

La fase di riapertura.
Nella fase di riapertura che la Cina ha imboccato dopo la caduta dei casi di Covid-19 ci sono molte imprese che si stanno riprendendo bene, applicando diverse misure per la riduzione del rischio per i lavoratori.
Ma ci sono anche segnali di incertezza rappresentati dalla persistente paralisi di settori come quello dei servizi e da un consumo di beni rispetto al quale le famiglie cinesi appaiono ancora riluttanti.
La Cina sembra avere sofferto di una caduta di quasi il 7% del PIL nel primo trimestre del 2020, e la strategia di riapertura adottata dal governo farebbe ritenere che alla fine dell’anno il tasso di crescita potrebbe assestarsi sull’1,2%.
Questo dato è confermato dall’ultimo World Economic Outlook del International Monetary Fund, che ottimisticamente prevede un tasso di crescita del 9,2% nel 2021.
I problemi strutturali che la Cina non ha ancora affrontato in modo adeguato peseranno sulla ripresa: il persistente elevato indebitamento, l’invecchiamento della popolazione, l’elevato tasso di disoccupazione che la epidemia ha determinato e che si è rivelato particolarmente grave tra gli oltre 250 milioni di migranti che non sono coperti dai sussidi di disoccupazione.
Gli interventi di politica economica per fronteggiare la crisi sono stati in Cina di entità minore rispetto a quelli approntati dai governi delle economie occidentali. La Banca centrale ha aumentato la liquidità, ha abbassato le riserve obbligatorie, ha ridotto i tassi di interesse; ma i programmi di rilancio della spesa pubblica sono stati, almeno per ora, molto inferiori a quelli che hanno caratterizzato la reazione alla crisi globale del 2008-2009 e anche a quelli che con cui i governi dei paesi occidentali hanno reagito alla crisi attuale (Magnus, 2020).
L’operazione di riapertura e di rilancio economico avviene poi in un clima di inevitabile attenzione al pericolo di un ritorno del Covid-19.
Nella prima settimana di aprile sono scoppiati casi nella provincia dello Heilongjiang nel nord-est della Cina, alcuni anche nella città di Harbin di quasi 11 milioni di abitanti, costringendo le autorità a imporre nuove misure di lockdown.
Questi casi sono prevalentemente collegati al rientro di cinesi dalla confinante Russia, ma non solo; la stampa internazionale ha rivelato che uno studente rientrato a Harbin dagli Stati Uniti ha contagiato un gruppo di residenti.
Le misure prese a Harbin sono state drastiche anche se i casi di persone risultate positive sono stati poche decine.
Ma questo rivela la preoccupazione delle autorità cinesi per una ripresa dell’epidemia.
La Cina vuole arrivare alla eliminazione delle possibilità di ri-emergenza.
Le preoccupazioni di questo tipo sono alla base della decisione del governo cinese di impedire l’ingresso nel paese di residenti stranieri che pure hanno validi permessi di residenza.
Di fatto oggi i confini della Cina sono chiusi per quasi tutti gli stranieri, come è testimoniato dallo scarsissimo di voli internazionali che atterrano ogni giorno in Cina.
Ma questo non va certo nella direzione di favorire la ripresa economica, anche se le restrizioni agli spostamenti interni sono state allentate.

Da dove è venuto Covid-19.
Un confronto che non ha coinvolto solo esperti, ma anche la geopolitica, si è sviluppato su dove e come si è propagato il Sars-Cov-2, il virus responsabile della epidemia Covid-19..
La ricerca ha dimostrato la somiglianza tra il SARS-CoV-2 e altri coronavirus simili presenti in alcune specie di pipistrelli che potrebbero aver costituito il l’ospite serbatoio del virus.
Questi pipistrelli sono ampiamente presenti nella Cina meridionale e risultano tra i mammiferi con più “familiarità” con i virus, probabilmente a causa della elevata socialità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni elevatissime (fino ad un milione di individui in un sito); la capacità di volare li porta a diffondere e contrarre virus su aree molto estese.
Nel 2003 una ricercatrice dell’importante Wuhan Institute of Virology (WIV) Shi Zhengli aveva individuato il virus che ha provocato la Sars (Zhengli, 2005).
Negli anni seguenti, questa ricercatrice e un suo gruppo di ricerca hanno visitato vari luoghi della Cina in cerca di virus simili a Sars-Cov e ne hanno trovato uno in un tipo di pipistrelli nello Yunnan.
E’ proprio nei genomi virali raccolti durante questi studi che, come ha rivelato la stessa Shi Zhengli, è stato trovato un virus nei pipistrelli che condivide il 96% della sua sequenza genetica con il Sars-Cov-2 (Zhengli, 2020).
Ma il problema è come il virus è passato dai pipistrelli all’uomo; se ci sia stato, e se sì quale sia stato, un ospite intermedio.
Covid-19 è scoppiato nella città di Wuhan nella provincia dello Hubei e inizialmente molti erano convinti che sia stato provocato dalla diffusione del coronavirus Sars-Cov-2 nel mercato degli animali vivi di quella città.
Ma come è passato dai pipistrelli a quel mercato? Recenti ricerche suggeriscono che Sars-Cov-2 sarebbe il risultato di una ricombinazione genomica naturale: coronavirus diversi che infettano lo stesso ospite si scambiano parti dei loro genomi.
Se un virus in un pipistrello entra in un animale già infetto da un coronavirus più adatto a infettare gli umani, la logica secondo la quale i virus cercano di massimizzare la propria sopravvivenza e riproducibilità fa nascere un nuovo virus che è ancora più in grado di infettare gli umani.
Si è ritenuto che l’ospite intermedio potesse appunto essere una specie venduta nel mercato degli animali di Wuhan.
Questa tesi sarebbe confermata dal fatto che su quasi 600 campioni prelevati da superfici intorno al mercato circa il 10% sono risultati positivi a Sars-Cov-2, e tutti erano stati prelevati in zone del mercato dove si vendevano animali selvatici.
Una tesi che trova molto credito è che a facilitare la diffusione del nuovo coronavirus potrebbero essere stati i pangolini, mammiferi con le squame a metà tra una formica e un armadillo, perché un coronavirus trovato in questi animali aveva un genoma identico a quello del Sars-Cov-2; questo suggeriva che quello sia stato il virus con il quale il virus dei pipistrelli si è ricombinato per arrivare a diventare Sras-Cov-2 (Tao, 2020).
I pangolini sono oggetto di un enorme commercio, soprattutto illegale, perché la cheratina nelle scaglie che ne ricoprono il corpo è considerata curativa e utilizzata nella medicina tradizionale orientale. A questo si aggiunge il fatto che la carne di pangolino viene considerata da alcune comunità una vera e propria prelibatezza.
Il commercio internazionale di pangolini è stato dichiarato illegale dal 2016 da una risoluzione sulla base della Convenzione internazionale che regola il commercio delle specie animali e vegetali minacciate di estinzione, ma è ben lontano dall’essere cessato.
Non sembra esservi traccia che oggi i pangolini siano venduti sul mercato di Wuhan; ma può essere che il fatto che la vendita sia illegale e che questa possa essere accusata di essere alla base dello scoppio di Covid-19, abbia indotto a ritirarlo dal mercato.

Bisogna comunque tenere presente che gli ospiti intermedi potrebbero anche essere altri. Non si può nemmeno escludere che il virus sia arrivato a Wuhan da qualche altra parte. Dopo tutto nel mercato di Wuhan andavano persone che venivano da ogni parte della Cina. E non si può nemmeno escludere che un ospite intermedio non ci sia stato cioè che il virus sia passato direttamente da un pipistrello a un uomo.
Questa ipotesi è avanzata in una intervista (Boezi, 2020) da David Quammen, autore del libro Spillover (Quammen, 2014), diventato famoso perché aveva preannunciato lo scoppio di una epidemia globale derivante da contagio da parte di animali selvatici.
Quammen ricorda che dei primi 41 pazienti di Covid-19 documentati dall’articolo su Lancet del 24 gennaio, 27 avevano avuto contatti con il mercato del pesce di Wuhan, ma non gli altri 14 e si chiede dove e come erano stati contagiati gli altri casi.
E avanza l’ipotesi che qualcuno, magari un cacciatore, potrebbe aver catturato un pipistrello in campagna, portandolo poi nella città in casa in una gabbia. La moglie del cacciatore potrebbe essersi ammalata per un contatto con il pipistrello senza mai essersi avvicinata al mercato.
Ma si è fatta strada anche un’altra teoria, di tipo “cospirativo”, ed è che il Sars-Cov-2 sia in qualche modo connesso con la ricerca virologica in Cina, tenendo conto che proprio nel Wuhan Institute of Virology si è fatta e si sta facendo molta ricerca sui coronavirus e sulla loro possibilità di diffusione attraverso gli animali.
Si cita il fatto che nel 2017 il Wuhan Institute of Virology ha aperto un laboratorio nel quale si fa ricerca sui patogeni più dannosi e sul potenziale di trasferimento agli umani di virus che circolano tra i pipistrelli.
Può sempre succedere che i virus ottenuti come risultato di queste ricerche sfuggano accidentalmente.
Ma in un articolo pubblicato su Nature Medicine nel marzo di quest’anno (Andersen, 2020) un gruppo di cinque tra i migliori studiosi di evoluzione virale ha esaminato il genoma di questo virus analizzando proprio la possibilità di una origine in laboratorio del Covid-19, concludendo contro questa possibilità.
Uno studio ulteriore appena pubblicato su Current Biology (Hong Zhou e altri, 2020) riporta la scoperta di un nuovo coronavirus in pipistrelli cinesi nello Yunnan, a quasi duemila chilometri di distanza da Wuhan, con caratteristiche molto simili a quelle di Sars-Cov-2.
Il nuovo coronavirus condivide per il 93,3% l’identità dei nucleotidi con Sars-Cov-2, ma l’identità sale al 97,2% per uno specifico gene. Ci sono poi forti somiglianze nella cosiddetta proteina spike che avvolge il nucleo e che serve al virus per il suo attacco alle cellule ospiti.
Secondo gli autori dell’articolo, la loro ricerca non solo conferma che i pipistrelli sono un importante ospite serbatoio naturale per i coronavirus, nel quale si trovano i parenti più prossimi del Sars-Cov-2, ma che mutazioni come quelle nella proteina spike che sembravano essere possibili solo come risultato di ricerche in laboratorio, avvengono invece in natura nella fauna selvatica.
Questo è un ulteriore segnale che Sars-Cov-2 non sia stato creato in un laboratorio.
Ma lo studio indica anche che molto deve essere ancora fatto per trovare il progenitore di Sars-Cov-2
Comunque, fino a che non si è sicuri di avere delle prove che smentiscano definitivamente la possibilità che, magari per un errore o una svista, uno dei virus ai quali la ricerca effettuata ha portato sia stato proprio Sars-Cov- 2, è difficile spazzare via questa ipotesi.
E proprio questa ipotesi è diventata una tesi nelle accuse fatte dagli Stati Uniti contro la Cina.

Le difficili prospettive di una cooperazione internazionale.
Questo è solo un segno del pericolo che l’epidemia di Covid-19 venga utilizzata come strumento di scontro geopolitico piuttosto che di una invece necessaria collaborazione internazionale.
Si invoca da più parti la necessità e l’urgenza di una cooperazione internazionale per combatterla, per trovare le cure più adatte, per arrivare alla individuazione di un vaccino, per agire affinché una nuova pandemia magari anche più distruttiva di questa si ripeta.
Ma invece che avere la necessaria priorità scientifica, il problema sta sempre più diventando un problema geopolitico. E questo rischia di creare ulteriori divisioni in un modo già diviso dallo scontro tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia globale.
La Cina ha molte responsabilità. Non ci sono solo i ritardi, le intimidazioni, le incertezze, il modo con cui è stato attuato il lockdown, solo in parte riconosciuti; ci sono stati anche comportamenti da parte di autorità cinesi che sembravano fatti apposta per alimentare le reazioni che soprattutto negli Stati Uniti, non solo da parte del Presidente Trump, si sono scatenate contro la Cina.
Basta citare il caso del portavoce del Ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian che ha insinuato che poteva essere stato l’esercito americano a portare l’epidemia a Wuhan. Fortunatamente è stato smentito dall’ambasciatore delle Cina negli Stati Uniti Cui Tiankai che ha definito quelle insinuazioni una follia (Cunnigham, 2020).
Al di là di episodi come questi appare comunque evidente che la Cina ha un problema di ricostituire il ruolo di potenza responsabile e determinante nell’ordine geo-economico e geopolitico, ruolo che questa epidemia ha quanto meno scosso.
Secondo uno stile che gli è tipico Xi Jinping sta tentando di rilanciare la Cina come attore responsabile della collaborazione internazionale; come già è avvenuto negli anni recenti rimane aperta la questione se sia sincero o se la sua non sia altro che una applicazione di una logica del “soft power” che nasconde il rilancio di una prospettiva egemonica che ha trovato il suo punto di riferimento nella Belt and Road.
Gli Stati Uniti, non solo il loro presidente, non sembrano avere dubbi che la prospettiva egemonica sia prevalente.
Ma resta il fatto che a livello globale ci sono la necessità e l’urgenza di sviluppare strumenti diagnostici e terapeutici per contrastare il virus, di capire meglio la natura del virus, ad esempio la sua mutabilità, e di individuare un vaccino che sia efficace e sicuro.
A questo scopo il contributo della Cina può essere essenziale, per gli sforzi che ha fatto per trattare la malattia, e per quelli che sta facendo per capire meglio la natura del virus e trovare un vaccino.
I risultati delle ricerche dovrebbero essere diffusi e discussi dalla comunità scientifica internazionale, senza condizionamenti politici.
Così come sarebbe importante riconoscere il ruolo che la Cina può avere se viene coinvolta nello sforzo necessario per il rilancio dell’economia globale.
E ancora il contributo della Cina sarebbe necessario per creare le condizioni di sostenibilità ecologica globale necessaria per la prevenzione e comunque una minore diffusione delle epidemie.
Questo punto è di particolare importanza. È molto importante che continui la ricerca per arrivare a capire sempre meglio il meccanismo di spillover che ha portato negli umani Sars-Cov-2, e che questa ricerca sia fatta in modo trasparente e in collaborazione internazionale.
Ma ci sono anche altre cose che è necessario fare. Si sa che dietro la diffusione di molte epidemie, a anche di quest’ultima, c’è il commercio, spesso illegale, di animali selvatici vivi e di loro parti del corpo.
Il 60% delle malattie infettive sono zoonosi, ossia sono trasmesse da animali all’uomo, e il 72% di queste zoonosi originano da animali selvatici.
Il commercio illegale di specie selvatiche costituisce nel mondo il quarto mercato criminale più importanti e diffuso e genera profitti immensi, valutati dalle Nazioni Unite nell’ordine almeno di una decina di miliardi di dollari l’anno.
La recente decisione della Cina di vietare sul proprio territorio nazionale il commercio di animali vivi a scopo alimentare rappresenta una scelta importante e necessaria, ma ancora non sufficiente. Anche dopo la SARS il governo cinese aveva vietato questo commercio, salvo consentire che riprendesse dopo la scomparsa della malattia.

Ma non c’è solo il commercio di animali selvatici ad alimentare la diffusione di zoonosi; forse ancora più importante è la perdita della complessità degli habitat naturali, la distruzione della loro biodiversità e la creazione di ambienti artificiali che spingono per una densità umana sempre più alta.
In un ecosistema con una ricca comunità di potenziali ospiti un agente patogeno ha infatti una minore probabilità di trovare un ospite in cui possa facilmente moltiplicarsi e da cui possa diffondersi utilizzando un altro animale vettore (Jones, 2008; Keesing, 2010).
In condizioni di bassa biodiversità tendono invece a prevalere poche specie che divengono quindi più esposte a contrarre e diffondere le infezioni. Aumenta così la probabilità che agenti patogeni possano riuscire a infettare l’uomo, diffondendosi e creando epidemie.
Intervenire sulla perdita di biodiversità è però un compito molto complesso che richiede un impegno e una collaborazione globale (anche se poi si realizza nelle singole realtà locali) alla quale è necessario che anche la Cina partecipi.
Come si possa arrivare a questo, come si possano fare passi concreti verso la cooperazione senza aggravare la già evidente divisione del mondo, a livello commerciale, tecnologico, e ormai anche militare, che vede due pilastri contrapposti negli Stati Uniti e nella Cina, non è oggi affatto chiaro.
Ci sarebbe bisogno di un grande sforzo probabilmente non solo politico, e neanche solo scientifico, ma anche e soprattutto culturale a livello globale perché si possa arrivare almeno a intravedere uno spiraglio luminoso.
Ma per il momento tutto ciò non si vede. Anzi.
Venezia, 15 maggio 2020.

Bibliografia.
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