Il debito non è una colpa, ma …..

“When written in Chinese, the word ‘crisis’ is composed of two characters. One represents danger and the other represents opportunity”
John F. Kennedy

1. Introduzione
In tedesco e in olandese i termini debito e colpa (Schuld) sono gli stessi. L’avversione dei due Paesi nordici al debito e segnatamente a quello pubblico ha radici profonde e diffuse delle quali occorre tener conto.
Timori e preoccupazioni sono emersi dopo l’articolo scritto da Mario Draghi per il Financial Times il 25 marzo 2020 che fa storia come quello del 26 luglio 2012. Tutti ricordano il famoso “a qualunque costo” con il quale Draghi ha spezzato il circolo vizioso debito sovrano/banche e ha salvato l’euro.
Il messaggio del 2012 era positivo e coinvolgente e ha travolto anche talune iniziali contrarietà. La parola d’ordine del 2020 “un aumento significativo del debito pubblico” inevitabilmente connesso alla pandemia globale è apparsa comprensibile per le cicale, ma non ha convinto le formiche. La contrapposizione spiegata da Esopo (peraltro non ascoltato in patria) 2500 anni fa continua.
Può sembrare vano scavare in proposizioni apodittiche. Questa nota si cimenta forse in un esercizio inutile o addirittura impossibile. Le questioni in gioco sono talmente rilevanti da giustificare il tentativo.
*Ringrazio Francesco Capriglione per i costanti scambi di idee sui temi qui trattati e, senza coinvolgerlo, per le osservazioni che hanno contribuito a migliorare significativamente questa nota.

2. Il dogma del bilancio pubblico in pareggio
L’economia non è una scienza esatta: molteplici sono le teorie, i modelli e le prescrizioni di politica economica. Al costo di semplificazioni forse eccessive si riassumono di seguito alcune questioni dibattute sul debito pubblico. Secondo schemi di analisi che affondano le radici nei classici della scienza economica (Say, Ricardo, Smith) l’offerta di beni e servizi crea sempre una corrispondente domanda. Non esiste pertanto un problema di domanda effettiva (e di disoccupazione strutturale). Il sistema economico e le forze di mercato tendono automaticamente all’equilibrio e al pieno impiego. Secondo questi schemi il debito pubblico può essere giustificato per finanziare guerre o eventi eccezionali, va comunque rimborsato con tasse (fra le quali rientra l’imposta da inflazione, comunque indesiderabile sotto molteplici profili). Secondo questo approccio si può dunque temporaneamente finanziare la spesa pubblica prendendo a prestito, ma poi si dovranno aumentare le imposte per ripagare il debito, come sarebbe compreso dagli stessi cittadini per i quali il debito non è ricchezza netta ma solo imposizione differita. Il canone di equilibrio è dunque quello del bilancio pubblico in pareggio.
Questo modello può essere posto in discussione sotto molteplici profili, come verrà indicato nel seguito. Non si può tuttavia dimenticare che esso è stato posto alla base dell’Unione Europea (UE). I Trattati e i Patti che tutti i paesi aderenti hanno condiviso e sottoscritto sono incardinati su questi principi, talchè oggi non è agevole mettere in discussione o addirittura disconoscere scelte liberamente accettate.
In primo luogo, la stessa UE corrisponde al principio: le entrate e le spese devono sempre risultare in pareggio, l’Unione non può emettere debito per finanziarsi. Si tratta di concetti consostanziali da sempre all’Unione. Per quanto riguarda i bilanci nazionali, il Trattato di Maastricht entrato in vigore nel 1993 e l’adesione all’eurozona creata nel 1999 ponevano vincoli ai bilanci economici nazionali sia in termini di flussi sia di stock rispetto al Pil (i famosi criteri del 3 e del 60%). L’impianto di Maastricht era stato concepito guardando indietro a decenni di crescita sostenuta dopo la guerra. I due criteri sopra indicati non erano stati pertanto concepiti come limiti particolarmente stringenti. Lo sono nei fatti diventati man mano che la crescita attuale e prospettica si affievoliva.
Si è tuttavia deciso nel 2012 di rendere le regole comuni sui bilanci pubblici nazionali molto più stringenti. Si è privilegiato l’aspetto dell’”apparente” stabilità a quello della crescita. Il Fiscal Compact del 2012, approvato con trattato internazionale e introdotto in Italia con legge costituzionale nello stesso anno, introduceva “regole d’oro” molto più stringenti. Si è adottato il principio dell’equilibrio di bilancio anche a livello nazionale, sia pur consentendo gradi di libertà in particolare al verificarsi di eventi eccezionali. Per economie che crescano nel tempo ciò avrebbe implicato al limite un rapporto fra debito e prodotto tendente a zero: l’obiettivo ultimo del sistema.
Molti illustri premi Nobel e più modesti economisti come chi scrive avevano criticato questa impostazione, rimanendo inascoltati. L’Italia fra i primi paesi ha introdotto il Fiscal Compact, come peraltro aveva forzato il Rapporto Delors e il Trattato di Maastricht per entrare da subito nell’Unione monetaria, in palese inosservanza del vincolo sul rapporto debito/Pil.
Con il Patto Fiscale si è resa ancor più rigida una Unione Economica e Monetaria (UEM) priva di “central fiscal capacity” e non ancora dotata di unione dei mercati dei capitali, dove mancavano (e mancano) cioè i due strumenti fondamentali per poter assorbire shock e svolgere il ruolo di stabilizzazione macroeconomica. Di fatto si sono poste le condizioni per un mix di politiche economiche sbilanciato verso la politica monetaria (whatever it takes) e in ultima analisi destabilizzante, in quanto i tassi ultrabassi inducevano azzardo morale.

3. Una diversa tassonomia (e analisi) del debito pubblico
Un differente approccio al debito pubblico fa riferimento al criterio dello scopo dei prestiti accesi dal governo. Si introduce la tassonomia di debito produttivo (o riproduttivo), ovvero non produttivo (deadweight nella letteratura anglosassone). Questa distinzione riprende, con opportune cautele, uno schema di analisi di impresa. Se i prestiti fatti dal governo finanziano spese in conto capitale, ovvero investimenti in infrastrutture definite in senso lato e caratterizzate ex ante e ex post da redditività (sociale) superiore al costo dell’indebitamento, i rendimenti netti generano nel tempo flussi di risorse che consentono l’autofinanziamento del debito posto in essere. Accanto cioè all’effetto sulla domanda effettiva, questi investimenti pubblici creano un flusso di risorse direttamente connesso alle spese, diversamente da quanto avviene per quelle non produttive. L’accumulazione produttiva aumenta la domanda di breve periodo, può avere effetti moltiplicativi sul reddito in carenza di domanda effettiva, non si scontra in generale con il vincolo del bilancio. Gli effetti positivi degli investimenti in buone infrastrutture hanno non solo un effetto sull’offerta in dipendenza del maggior capitale fisico e umano, ma possono anche innescare processi di aumento della produttività totale dei fattori generando quindi surplus permanenti. I lavori di Arrow e Kurz (1970) rappresentano un valido schema di riferimento analitico su questi temi.
Le considerazioni qui svolte erano e sono ancora oggi di particolare rilievo se si accetta l’ipotesi che l’economia dell’Euroarea è caratterizzata da fenomeni di eccesso di risparmio. Questo modello era peraltro accettato dalla BCE e concorreva a giustificare la politica dei tassi di interesse negativi. Lo ha spiegato a chiare lettere lo stesso allora Presidente Draghi. “Vi è la tentazione di concludere che i tassi di interesse molto bassi, poiché generano queste sfide, rappresentano essi stessi il problema. Di fatto non è così. Sono il sintomo di un problema sottostante, che è una domanda di investimenti insufficiente ad assorbire tutto il risparmio disponibile nell’economia. E’ questo fenomeno – l’eccesso di risparmi rispetto agli investimenti remunerativi a livello mondiale – che sospinge i tassi di interesse su livelli estremamente bassi. Il modo corretto per far fronte alle sfide non consiste quindi nel tentativo di eliminare i sintomi, ma nel combattere la causa di fondo” (Draghi, 2016).
L’approccio qui tratteggiato mostra la fallacia del mantra secondo il quale è sempre desiderabile ridurre il rapporto debito pubblico/prodotto. La questione è più complessa e richiede analisi costi benefici intertemporali. Resta vero che non si può comunque trascurare lo “spazio fiscale” di cui un paese/area dispone. Permane l’obiezione di fondo al Fiscal Compact sopra ricordata. La critica dipende anche dall’osservazione che taluni paesi hanno alimentato l’eccesso di risparmio con avanzi sistematici molto elevati del saldo delle partite correnti all’interno dell’Euroarea e nei confronti del resto del mondo.
Secondo l’approccio qui delineato cade anche la tesi comunque semplicistica secondo la quale il debito pubblico rappresenta sempre un’eredità “avvelenata” per le generazioni future. Se a fronte del debito stanno capitale fisico e umano, ricerca e sviluppo, infrastrutture sociali, servizi pubblici e public utilities, progetti e programmi per la     mitigazione del rischio ambientale, l’eredità che viene trasmessa è positiva, feconda e necessaria per la crescita sostenibile.

4. Ricostruzione, infrastrutture e eurobond
Le considerazioni svolte consentono di affrontare il dibattito economico/politico/istituzionale in atto nell’UE, oggi posto all’attenzione del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, introducendo un filo conduttore di analisi e di policy. L’inevitabile eccesso di semplificazione consente di focalizzare la natura dei problemi e le ipotesi di soluzione, guardando all’emergenza ma anche alla prospettiva di rapida ricostruzione e durevole ripresa. Si è spesso affermato nelle ultime convulse settimane che i coronabond, auspicati da molti paesi, sono una rivisitazione del modello (peraltro non realizzato) dei cosiddetti eurobond. Secondo queste affermazioni si tratterebbe di creare un meccanismo di mutualizzazione dei nuovi debiti pubblici imposti dall’emergenza della pandemia. I debiti sarebbero cioè utilizzati per finanziare le esigenze immediate di intervento, di sostegno al reddito e alle imprese in difficoltà, aldilà dei fabbisogni di nuove infrastrutture che sembrano sfumare in quest’ottica di emergenza. Lo schema qui proposto implica un distinguo a questo approccio. Si riconosce naturalmente che nuovo debito corrente è necessario in questa fase; i paesi in passato più vicini alle cicale che alle formiche hanno consumato impropriamente il proprio spazio fiscale e incontrano oggi difficoltà che devono comunque essere sciolte rapidamente. In assenza di interventi immediati e concordati non si possono sottacere i rischi per l’Italia con il paventato scenario del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e del Programma Outright Monetary Transactions (OMT). Imporre la mutualizzazione dei nuovi debiti pubblici correnti non è realistico, ma la coesione e la solidarietà dell’Europa sono un bene comune anche per i paesi “formiche”.
La carenza di domanda nelle attuali condizioni di crisi da pandemia è talmente rilevante che può incidere sugli stessi rendimenti attesi degli interventi in infrastrutture. I ritorni previsti dagli stessi fondamentali investimenti per la mitigazione ambientale appaiono compressi, ma non devono essere rinviati; quelli in infrastrutture sociali diventano più pressanti. Anche queste considerazioni mostrano l’esigenza oggi di sostegni alla domanda nella componente dei consumi. Idonee forme di coesione sono necessarie e sono alla portata. La sospensione delle regole del Patto di stabilità, il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) della BCE, il Fondo predisposto dalla Commissione europea Support to Mitigate Unemployment Risks in Emergency (SURE) ne sono una dimostrazione.
Il modello qui proposto guarda all’oggi, ma anche a un domani che è distante solo settimane o mesi. Occorre sin d’ora pensare alla ricostruzione e a superare i vincoli di savings glut e di politiche economiche inadeguate.
In questa prospettiva gli eurobond sono ben distinti dagli schemi coronabond, rappresentano la sfida per tutti i paesi europei a creare un debito comune sicuro che abbia a fronte le grandi infrastrutture produttive dell’Unione Europea. E’ questa la vera sfida a cui devono essere chiamati i paesi del nord Europa, rassicurandoli che il nuovo debito produttivo europeo sarebbe la base per la costruzione di una unione fondata su rigore, crescita e valorizzazione del risparmio. Secondo diverse modalità, peraltro già sperimentate dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) e dal Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (FEIS), i progetti infrastrutturali dovrebbero essere in grado di attrarre cofinanziamento privato, disponibile e necessario. Il supporto delle Banche nazionali di sviluppo (la Cassa Depositi e Prestiti, CDP in Italia) e delle imprese bancarie e assicurative (con vincoli regolamentari sul capitale meno soffocanti) contribuirebbe al rilancio dell’economia in Europa.
Nel decennio passato l’attività di investimento pubblico e privato nell’Euroarea è stata ridotta. I tassi di interesse negativi non hanno avuto gli effetti desiderati. La BEI ha documentato la performance insoddisfacente dell’accumulazione di capitale pubblico (BEI 2019). In Italia gli effetti negativi della contrazione dei flussi sono stati esaltati dalla qualità insoddisfacente degli stessi spesso inquinati da fenomeni corruttivi. Le sfide in Europa connesse all’adeguamento di buone infrastrutture sono di enorme portata. Come si è indicato, accanto alle esigenze connesse alla ricostruzione dopo gli shock di domanda e di offerta derivanti dalla pandemia, i cambiamenti climatici e ambientali (Green Deal) rappresentano esigenze di straordinario rilievo. I fenomeni della digitization e della servitization, i Cyber Physical Systems (CPS), l’Artificial Intelligence (AI), i Big Data costituiscono mega trend globali che riformulano i modelli di business, la creazione e le catene di valore in tutte le aree dei sistemi economici, incluso naturalmente il settore pubblico. La crisi mondiale da pandemia imporrà riflessioni sullo stesso processo di globalizzazione, riportando l’attenzione sul “Glocal” e su catene di valore più resilienti rispetto a quelle che sono state spezzate durante la crisi. Il capitale fisico e quello umano diventano sempre più profondamente interconnessi. L’educazione lungo l’intero arco di vita e il (re)training utilizzando le opportunità del lavoro a distanza rappresentano la chiave di volta per dominare questi processi, per sostenere l’occupazione competitiva, la crescita sociale e civile. Al vantaggio comparato si sostituisce il vantaggio competitivo. L’enorme sforzo di adattamento alle nuove modalità di lavoro imposto dalla pandemia lascia comunque una base su cui costruire sistemi produttivi più efficienti ed efficaci.
Cambiamenti radicali stanno rimodellando in tutti i campi e in tutti i settori i “buoni” investimenti in infrastrutture, pubblici e privati: la ricostruzione di nuovi modelli economici, la tecnologia che determina il bundling di attività, beni e servizi, che trasforma scuola e università; i valori e gli atteggiamenti della società con la consapevolezza dei rischi di carenze nel capitale sociale e di insufficiente contenimento di quelli ambientali e climatici; l’invecchiamento delle infrastrutture fisiche tradizionali, segnatamente nelle reti di trasporto e nel sistema abitativo (anche come conseguenza della crescente frequenza e gravità degli impatti climatici avversi) e nell’area della difesa; la demografia con implicazioni estremamente rilevanti sulla migrazione, l’invecchiamento, l’urbanizzazione. L’innovazione e i cambiamenti tecnologici implicano di per sé rapida obsolescenza del capitale pubblico e quindi richiedono flussi più elevati di nuovi investimenti per mantenerlo immutato. Dall’inizio della Grande Crisi Finanziaria l’accumulazione in infrastrutture economiche e sociali ha viceversa mostrato un costante declino.
Nell’UE gli investimenti in infrastrutture previsti, in assenza di un piano organico e integrato di interventi, risulterebbero circa la metà di quelli richiesti che sono dell’ordine di €900 miliardi l’anno per il prossimo decennio. Colmare questo gap consentirebbe di far ripartire la ricostruzione su solide basi, di superare i vincoli del savings glut, di far ripartire il processo di integrazione virtuosa in Europa con crescita sostenibile e inclusiva.
Buoni investimenti in infrastrutture, aldilà dell’impatto sulla domanda effettiva, fanno aumentare il tasso sostenibile di crescita della produttività totale dei fattori e contribuiscono a proteggere le economie dai rischi del cambiamento climatico che hanno assunto connotazioni sia reali sia finanziarie (i cosiddetti cigni verdi). L’accumulazione di infrastrutture intese in senso lato può rappresentare la chiave per riportare l’UE su un sentiero di crescita sostenibile. Questi obiettivi sono particolarmente rilevanti nell’Eurozona dove i limiti di bilancio in molti paesi potrebbero influenzare le significative esigenze di accumulazione di capitale pubblico netto. Comunque, sulla base dei vincoli alle finanze pubbliche, il ruolo degli investimenti delle imprese private e soprattutto quello delle Partnership Private e Pubbliche (PPP) deve e può essere fortemente aumentato.
Non si propone che i paesi dell’Eurozona adottino – attraverso cambiamenti nei Trattati o Accordi intergovernativi – una cosiddetta “golden rule” per gli investimenti infrastrutturali su base nazionale. Si propone viceversa che venga rapidamente posto in essere un processo per la costruzione delle nuove infrastrutture a livello di area, soggetto a scrutinio comune e a monitoraggio specifico degli investimenti proposti dai singoli paesi/gruppi di paesi da parte del gruppo BEI e del FEIS. Questo approccio con la connessa creazione di eurobond, garantiti in primo luogo dagli investimenti reali sottostanti e in secondo luogo dai paesi dell’area, servirebbe anche a evitare iniziative non coordinate e potenzialmente non coerenti con le esigenze di reti comuni e integrate.
L’approccio qui delineato conterebbe sul contributo in primo luogo della BCE, ma anche del MES per attivare politiche di (reverse) debt management. Si creerebbe una struttura secondo la scadenza di rendimenti “sicuri” e un punto di riferimento per i tassi a breve coerenti con politiche della BCE fondate, aldilà dell’immediata emergenza, su tassi di interesse non più negativi. Si darebbe anche una risposta all’esigenza di creare safe assets che continua a rappresentare un grave problema irrisolto dell’UEM.

5. Conclusioni
Per tracciare alcune considerazioni conclusive può essere utile un flashback che ci riporti alla fine della Seconda Guerra Mondiale quando i paesi europei stremati dagli eventi bellici, e anche da gravi carestie, poterono contare su un lungimirante aiuto degli Stati Uniti, peraltro a ben vedere coerente con i loro stessi interessi. Tra il 1946 e il 1947 la politica americana subì profondi mutamenti. La saggezza convenzionale elaborata dal “falco” Henry Morgenthau, Segretario del Tesoro, prevedeva tra l’altro lo smembramento della Germania e un piano basato su pagamenti di danni di guerra e l’imposizione nelle regioni tedesche del divieto di ricostruzione industriale. La Germania sarebbe dovuta diventare un’economia agricola e pastorale. Il Presidente Truman che raccoglieva l’eredità lungimirante di Roosevelt elaborò con alcuni stretti collaboratori del suo governo un programma completamente diverso. Si pose in primo luogo una moratoria ai pagamenti dei danni di guerra. Soprattutto, si decise dapprima di delineare il cosiddetto Piano della Speranza che criticava alla base il progetto Morgenthau; poi, nel 1947, si adottò un piano operativo, European Recovery Program (ERP), più noto come Piano Marshall (dal nome del Segretario di Stato, Premio Nobel per la Pace nel 1953, al quale il progetto fu affidato). Il piano di ricostruzione accanto a interventi immediati di carattere umanitario prevedeva fondamentalmente progetti di ricostruzione e di sostegno agli investimenti per tutti i paesi europei, anche quelli che avevano combattuto contro gli Stati Uniti, segnatamente Germania e Italia. A ben vedere le risorse messe a disposizione dagli Stati Uniti rappresentarono l’elemento di innesco, catalitico, di progetti di investimento finanziati tramite il risparmio rapidamente creato negli stessi paesi europei. I progetti di investimento inizialmente subivano un vaglio degli Stati Uniti, ma furono poi demandati ai paesi e ad alcune istituzioni finanziarie selezionate di comune accordo.
Il progetto qui delineato (e più compiutamente elaborato in diversi miei scritti) trae ispirazione dal flashback appena ricordato. La ricostruzione che può e deve partire in Europa tra pochi mesi si basa sul progetto di una creazione di debito pubblico fondato su buoni investimenti pubblici che fungano da volano a un più ampio processo di accumulazione produttiva trainato dalle imprese private. Non si propone che i paesi dell’Eurozona adottino una golden rule per gli investimenti pubblici su basi nazionali. Si propone invece che venga creato un processo per la costruzione delle infrastrutture intese in senso lato, economiche e sociali, a livello di area. Il progetto sarebbe guidato dalla BEI e dal FEIS. Il processo sarebbe soggetto a scrutinio di carattere generale e a monitoraggio specifico a livello europeo, per assicurare la qualità dei progetti di investimento e anche per evitare la commistione fra le opere di ricostruzione e la contaminazione di fenomeni corruttivi, purtroppo ben nota in Italia. Il rigore nelle finanze pubbliche è assicurato dal fatto che, aldilà degli interventi immediati comunque necessari per far fronte all’emergenza del coronavirus, i bilanci pubblici sarebbero vincolati al rispetto del pareggio per le spese non riproducibili. Non si ricadrebbe tuttavia nell’assurdo di schemi che considerano virtuoso e opportuno sotto il profilo della politica economica prevedere l’azzeramento al limite dei debiti pubblici complessivi. Il modello consente inoltre di liberare la BCE dalla necessità di interventi sempre più connessi al finanziamento dei debiti e delle spese pubbliche, che finirebbero inevitabilmente per coartarne l’indipendenza. Guardando ancora più avanti su queste premesse si potrebbe dar seguito alla visione non solo di Delors (1989) ma anche del Presidente Mitterand e del Cancelliere Kohl (1990) di trasformare l’Unione Economica e Monetaria in una Unione Fiscale e Politica.
Gli uomini politici, gli imprenditori e i cittadini europei sono chiamati a scelte coerenti con quelle dei Padri Fondatori, ad azioni lungimiranti nell’interesse comune. La crisi può trasformarsi in opportunità, viceversa, in assenza di visione, può risultare disgregante.

Riferimenti bibliografici

– Arrow K. e Kurtz M. (1970), “Public Investment, the Rate of Return, and Optimal Fiscal Policy”, Johns Hopkins Press, Baltimore.
– Draghi M. (2016), “Addressing the causes of low interest rates”, ECB, Frankfurt, May 2.
– EIB (2019), “Retooling Europe’s Economy”, Luxembourg.
– Masera R. (2018), “The new infrastructures challenges in the EU and the need for a deepened PPP paradigm”, The European Union Review, Vol. 23 No. 1.2.3.
– Delors J. (1989), “Report on Economic and Monetary Union”, EU Commission W.D., Brussels, 17 April.
– Kohl H. and Mitterrand F. (1990), “Letter by the German Federal Chancellor Helmut Kohl and French President Francois Mitterrand to the Irish Presidency of the EC”, Agence Europe, Brussels, 20 April.