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Il debito non è una colpa, ma …..

di - 7 Aprile 2020
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“When written in Chinese, the word ‘crisis’ is composed of two characters. One represents danger and the other represents opportunity”
John F. Kennedy

1. Introduzione
In tedesco e in olandese i termini debito e colpa (Schuld) sono gli stessi. L’avversione dei due Paesi nordici al debito e segnatamente a quello pubblico ha radici profonde e diffuse delle quali occorre tener conto.
Timori e preoccupazioni sono emersi dopo l’articolo scritto da Mario Draghi per il Financial Times il 25 marzo 2020 che fa storia come quello del 26 luglio 2012. Tutti ricordano il famoso “a qualunque costo” con il quale Draghi ha spezzato il circolo vizioso debito sovrano/banche e ha salvato l’euro.
Il messaggio del 2012 era positivo e coinvolgente e ha travolto anche talune iniziali contrarietà. La parola d’ordine del 2020 “un aumento significativo del debito pubblico” inevitabilmente connesso alla pandemia globale è apparsa comprensibile per le cicale, ma non ha convinto le formiche. La contrapposizione spiegata da Esopo (peraltro non ascoltato in patria) 2500 anni fa continua.
Può sembrare vano scavare in proposizioni apodittiche. Questa nota si cimenta forse in un esercizio inutile o addirittura impossibile. Le questioni in gioco sono talmente rilevanti da giustificare il tentativo.
*Ringrazio Francesco Capriglione per i costanti scambi di idee sui temi qui trattati e, senza coinvolgerlo, per le osservazioni che hanno contribuito a migliorare significativamente questa nota.

2. Il dogma del bilancio pubblico in pareggio
L’economia non è una scienza esatta: molteplici sono le teorie, i modelli e le prescrizioni di politica economica. Al costo di semplificazioni forse eccessive si riassumono di seguito alcune questioni dibattute sul debito pubblico. Secondo schemi di analisi che affondano le radici nei classici della scienza economica (Say, Ricardo, Smith) l’offerta di beni e servizi crea sempre una corrispondente domanda. Non esiste pertanto un problema di domanda effettiva (e di disoccupazione strutturale). Il sistema economico e le forze di mercato tendono automaticamente all’equilibrio e al pieno impiego. Secondo questi schemi il debito pubblico può essere giustificato per finanziare guerre o eventi eccezionali, va comunque rimborsato con tasse (fra le quali rientra l’imposta da inflazione, comunque indesiderabile sotto molteplici profili). Secondo questo approccio si può dunque temporaneamente finanziare la spesa pubblica prendendo a prestito, ma poi si dovranno aumentare le imposte per ripagare il debito, come sarebbe compreso dagli stessi cittadini per i quali il debito non è ricchezza netta ma solo imposizione differita. Il canone di equilibrio è dunque quello del bilancio pubblico in pareggio.
Questo modello può essere posto in discussione sotto molteplici profili, come verrà indicato nel seguito. Non si può tuttavia dimenticare che esso è stato posto alla base dell’Unione Europea (UE). I Trattati e i Patti che tutti i paesi aderenti hanno condiviso e sottoscritto sono incardinati su questi principi, talchè oggi non è agevole mettere in discussione o addirittura disconoscere scelte liberamente accettate.
In primo luogo, la stessa UE corrisponde al principio: le entrate e le spese devono sempre risultare in pareggio, l’Unione non può emettere debito per finanziarsi. Si tratta di concetti consostanziali da sempre all’Unione. Per quanto riguarda i bilanci nazionali, il Trattato di Maastricht entrato in vigore nel 1993 e l’adesione all’eurozona creata nel 1999 ponevano vincoli ai bilanci economici nazionali sia in termini di flussi sia di stock rispetto al Pil (i famosi criteri del 3 e del 60%). L’impianto di Maastricht era stato concepito guardando indietro a decenni di crescita sostenuta dopo la guerra. I due criteri sopra indicati non erano stati pertanto concepiti come limiti particolarmente stringenti. Lo sono nei fatti diventati man mano che la crescita attuale e prospettica si affievoliva.
Si è tuttavia deciso nel 2012 di rendere le regole comuni sui bilanci pubblici nazionali molto più stringenti. Si è privilegiato l’aspetto dell’”apparente” stabilità a quello della crescita. Il Fiscal Compact del 2012, approvato con trattato internazionale e introdotto in Italia con legge costituzionale nello stesso anno, introduceva “regole d’oro” molto più stringenti. Si è adottato il principio dell’equilibrio di bilancio anche a livello nazionale, sia pur consentendo gradi di libertà in particolare al verificarsi di eventi eccezionali. Per economie che crescano nel tempo ciò avrebbe implicato al limite un rapporto fra debito e prodotto tendente a zero: l’obiettivo ultimo del sistema.
Molti illustri premi Nobel e più modesti economisti come chi scrive avevano criticato questa impostazione, rimanendo inascoltati. L’Italia fra i primi paesi ha introdotto il Fiscal Compact, come peraltro aveva forzato il Rapporto Delors e il Trattato di Maastricht per entrare da subito nell’Unione monetaria, in palese inosservanza del vincolo sul rapporto debito/Pil.
Con il Patto Fiscale si è resa ancor più rigida una Unione Economica e Monetaria (UEM) priva di “central fiscal capacity” e non ancora dotata di unione dei mercati dei capitali, dove mancavano (e mancano) cioè i due strumenti fondamentali per poter assorbire shock e svolgere il ruolo di stabilizzazione macroeconomica. Di fatto si sono poste le condizioni per un mix di politiche economiche sbilanciato verso la politica monetaria (whatever it takes) e in ultima analisi destabilizzante, in quanto i tassi ultrabassi inducevano azzardo morale.

3. Una diversa tassonomia (e analisi) del debito pubblico
Un differente approccio al debito pubblico fa riferimento al criterio dello scopo dei prestiti accesi dal governo. Si introduce la tassonomia di debito produttivo (o riproduttivo), ovvero non produttivo (deadweight nella letteratura anglosassone). Questa distinzione riprende, con opportune cautele, uno schema di analisi di impresa. Se i prestiti fatti dal governo finanziano spese in conto capitale, ovvero investimenti in infrastrutture definite in senso lato e caratterizzate ex ante e ex post da redditività (sociale) superiore al costo dell’indebitamento, i rendimenti netti generano nel tempo flussi di risorse che consentono l’autofinanziamento del debito posto in essere. Accanto cioè all’effetto sulla domanda effettiva, questi investimenti pubblici creano un flusso di risorse direttamente connesso alle spese, diversamente da quanto avviene per quelle non produttive. L’accumulazione produttiva aumenta la domanda di breve periodo, può avere effetti moltiplicativi sul reddito in carenza di domanda effettiva, non si scontra in generale con il vincolo del bilancio. Gli effetti positivi degli investimenti in buone infrastrutture hanno non solo un effetto sull’offerta in dipendenza del maggior capitale fisico e umano, ma possono anche innescare processi di aumento della produttività totale dei fattori generando quindi surplus permanenti. I lavori di Arrow e Kurz (1970) rappresentano un valido schema di riferimento analitico su questi temi.
Le considerazioni qui svolte erano e sono ancora oggi di particolare rilievo se si accetta l’ipotesi che l’economia dell’Euroarea è caratterizzata da fenomeni di eccesso di risparmio. Questo modello era peraltro accettato dalla BCE e concorreva a giustificare la politica dei tassi di interesse negativi. Lo ha spiegato a chiare lettere lo stesso allora Presidente Draghi. “Vi è la tentazione di concludere che i tassi di interesse molto bassi, poiché generano queste sfide, rappresentano essi stessi il problema. Di fatto non è così. Sono il sintomo di un problema sottostante, che è una domanda di investimenti insufficiente ad assorbire tutto il risparmio disponibile nell’economia. E’ questo fenomeno – l’eccesso di risparmi rispetto agli investimenti remunerativi a livello mondiale – che sospinge i tassi di interesse su livelli estremamente bassi. Il modo corretto per far fronte alle sfide non consiste quindi nel tentativo di eliminare i sintomi, ma nel combattere la causa di fondo” (Draghi, 2016).
L’approccio qui tratteggiato mostra la fallacia del mantra secondo il quale è sempre desiderabile ridurre il rapporto debito pubblico/prodotto. La questione è più complessa e richiede analisi costi benefici intertemporali. Resta vero che non si può comunque trascurare lo “spazio fiscale” di cui un paese/area dispone. Permane l’obiezione di fondo al Fiscal Compact sopra ricordata. La critica dipende anche dall’osservazione che taluni paesi hanno alimentato l’eccesso di risparmio con avanzi sistematici molto elevati del saldo delle partite correnti all’interno dell’Euroarea e nei confronti del resto del mondo.
Secondo l’approccio qui delineato cade anche la tesi comunque semplicistica secondo la quale il debito pubblico rappresenta sempre un’eredità “avvelenata” per le generazioni future. Se a fronte del debito stanno capitale fisico e umano, ricerca e sviluppo, infrastrutture sociali, servizi pubblici e public utilities, progetti e programmi per la     mitigazione del rischio ambientale, l’eredità che viene trasmessa è positiva, feconda e necessaria per la crescita sostenibile.

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