“La questione ambientale e le altre”*

*Lezione al Master dell’Ambiente
Facoltà di Giurisprudenza della
Università di Roma “La Sapienza”
21 febbraio 2020

Il problema ambientale urge, si fa drammatico. Per comprenderlo appieno e avviarlo a soluzione lo si deve considerare nei suoi stretti raccordi con almeno altre tre dimensioni dell’economia mondiale: produzione, instabilità, distribuzione.

A) L’uomo – faber – ha sempre manipolato, e spesso offeso, la natura: da caccia-raccolta alla rivoluzione neolitica, dalla schiavitù al feudalesimo al sistema mercantile, sino all’attuale economia di mercato capitalistica inaugurata dalla Rivoluzione Industriale inglese del XVIII secolo.
Oggi prevale nel mondo la produzione di merci: beni e servizi prodotti allo scopo di essere venduti sul mercato a prezzi eccedenti i costi, col massimo profitto. L’attività produttiva avviene presso imprese, gerarchicamente organizzate e controllate da chi detiene le risorse finanziarie che vi impiega per guadagnare. Il capitale non è più quello – circolante – del mercante, l’intermediario che comprava per rivendere, il market maker. E’ quello – fisso – incorporato in impianti e macchinari costruiti per produrre con maggiore efficienza. La produzione viene affidata a lavoratori i quali vendono il loro servizio per un salario. L’accumulazione di capitale e il progresso tecnico sono i motori della produttività e della crescita del reddito, la ragione dell’affermarsi di un tale modo di produzione.
Agli inizi dell’Ottocento (1820) il Pil pro capite annuo medio dell’umanità superava appena i 600 dollari di oggi: a mala pena un hamburger al giorno. In due secoli l’aumento è stimato in 13 volte. Ha sollevato dalla miseria e dalla fame, nel 2020, oltre i nove decimi di una popolazione mondiale esplosa nei due secoli da uno a 7,7 miliardi di persone. Non sorprende che il modo di produzione capace di tanto sia stato gradualmente accettato su scala planetaria.
Ma l’economia di mercato capitalistica violenta l’ambiente ben più gravemente dei modi di produzione che l’hanno preceduta. Ciò, per due motivi principali.
La crescita tumultuosa dell’attività produttiva è di per sé inquinante. Lo è per le fonti d’energia impiegate, per l’utilizzo dei beni di consumo e d’investimento prodotti, per i rifiuti, per l’occupazione e l’usura del suolo e dello spazio. Con il capitalismo moderno dagli inizi dell’Ottocento il Pil mondiale è aumentato in volume di quasi 100 volte. Duecento anni fa la componente industriale  del prodotto – particolarmente nociva dell’ambiente – non superava il 15%. E’ arrivata a sfiorare un picco del 35% alla fine del Novecento. Si è quindi attestata sull’attuale 27%, moltiplicandosi comunque di 180 volte rispetto al 1820.
L’altra ragione è che le imprese capitalistiche non calcolano nei costi le cosiddette “esternalità negative”: i danni che per produrre esse infliggono, senza compensarli, a soggetti esterni non impegnati nella produzione. I profitti risultano in tal modo esaltati e così le produzioni inquinanti, la cui domanda non è frenata da prezzi che sarebbero più elevati per coprire i costi esterni, oltre a quelli interni. Nella logica del profitto capitalistico viene a mancare il servofreno automatico del maggior costo e del più elevato prezzo.
La carenza di politiche a tutela dell’ambiente, coordinate fra le nazioni, non ha finora posto limiti alle ripercussioni negative di questi due fattori: la crescita e le esternalità.

B) Il danno ambientale più grave, presente e futuro, è il cambiamento climatico. Altri danni, come quelli derivanti dal mancato smaltimento dei rifiuti, sono tendenzialmente circoscritti alle zone che li generano. Il riscaldamento della terra e il cambiamento climatico che ne consegue minacciano il pianeta, quindi l’intero genero umano.
La sequenza è: produzione; uso di energia fossile (legno, carbone, petrolio); emissione di gas come Co2 e metano; concentrazione e permanenza di questi gas nell’atmosfera; riscaldamento del pianeta; mutazioni climatiche.
L’energia inquinante è tuttora pari al 90% dell’energia totale.
Negli ultimi cento anni le emissioni nocive sono salite di 20 volte, o del 2,5% l’anno, anche se meno del Pil (grazie a economie nelle fonti energetiche, ricorso a fonti non fossili, produzione più terziaria che industriale e agricola).
La concentrazione dei gas-serra negli ultimi 50 anni è salita da 315 a oltre 390 p.p.m., dopo aver oscillato per milioni di anni fra 190 e 280 p.p.m. . Crescendo dello 0,4% l’anno in soli 175 anni arriverebbe a 800 p.p.m.!
L’effetto serra provocato dalla concentrazione dei gas come una sorta di “coperta” impedisce il rilancio verso il sole del calore che la terra riceve dal sole. La temperatura media è quindi aumentata di un grado nell’ultimo secolo (da 13 a 14 gradi). L’incremento potrebbe arrivare nel 2100 a 3,5 gradi, fino a un massimo di 4 gradi.
Al di là delle stime e delle previsioni offerte dai diversi modelli, sul piano scientifico la tendenza è chiara. Le conseguenze sarebbero disastrose, per il pianeta e per il genere umano. Fra esse:

La discontinuità con cui questi fenomeni si determineranno rappresenta un ulteriore elemento di complicazione, potendo anche alimentare la minimizzazione del problema: se nevica a Washington il presidente degli Stati Uniti schernisce i  “catastrofisti” del riscaldamento …

C) Si può evitare tutto ciò? Si può disinquinare il pianeta e prevenire l’ulteriore cambiamento climatico?
La risposta è positiva, in punto sia di strumenti sia di risorse.
Gli strumenti vanno da i) obblighi e divieti (“chi inquina paga”) a ii) tassazione dell’uso delle fonti energetiche inquinanti a iii) emissione di permessi di inquinare a pagamento, posti all’asta fra le imprese entro un inquinamento totale tollerabile. L’indicazione generale consiste nell’internalizzare le esternalità negative, facendole rientrare nel calcolo dei costi e del profitto capitalistico. Così attivato, il meccanismo dei prezzi relativi proprio di un’economia di mercato orienterebbe la composizione della domanda, la struttura dell’offerta, la scelta delle tecniche e la combinazione dei fattori verso i consumi e le produzioni meno inquinanti. Le tecnologie per una green economy sono ampiamente disponibili, l’automobile elettrica essendo solo un esempio già pervenuto all’opinione pubblica.

La questione delle risorse chiama in causa i legami fra cambiamento climatico e le altre dimensioni dell’economia prima evocate: produzione, instabilità, distribuzione.
E’ stato da alcuni proposto di tutelare l’ambiente frenando la crescita della produzione: se il produrre inquina, si sostiene, basterebbe produrre di meno sino a governare una “decrescita serena” dell’economia. Le obiezioni alla proposta – che trova sostenitori persino fra gli studiosi – sono più d’una.
La prima attiene alla non praticabilità della proposta. Il capitalismo è una macchina da crescita: “Accumulate, accumulate”, è la missione storica, rivoluzionaria, della borghesia tanto vituperata quanto ammirata da Marx. Invertirne la dinamica sarebbe contro la natura di un sistema a cui nessuno più vuole rinunciare, che nessuno più mira a sovvertire anche perché non saprebbe come sostituirlo.
La seconda ragione è che la crescita è preziosa per lenire due dei tre tratti negativi radicati, insieme con l’inquinamento, nell’economia di mercato capitalistica. Il ristagno accentuerebbe i rischi dell’instabilità: nei prezzi, nell’occupazione, nella finanza. Il ristagno accentuerebbe l’iniquità nella distribuzione del reddito e della ricchezza in ciascun paese e fra le nazioni. Il Novecento, in particolare, è stato il secolo che ha visto l’inflazione più acuta, la depressione più profonda, ripetute crisi bancarie e di borsa. Nel 2009 una recessione molto grave ha colpito le economie avanzate dopo i fallimenti degli operatori finanziari negli Stati Uniti, Inghilterra, Germania. In prospettiva, il ristagno ridurrebbe i margini d’intervento per le politiche volte a contenere sia l’instabilità e l’iniquità sia gli altri “fallimenti di mercato” a cui il sistema è esposto. Ogni volta che instabilità e iniquità si sono riproposte in forma acuta il tema dell’ambiente è scaduto in secondo piano.
La terza, e principale ragione, è che, se la crescita economica contribuisce al cambiamento climatico, solo la crescita può rendere disponibili i mezzi occorrenti a bloccarlo e a sanare le ferite che ha già inflitto al pianeta. Il modo di produrre e di consumare verde che è necessario richiede risorse aggiuntive, segnatamente per l’ammortamento dei beni capitali esistenti e per investimenti netti in nuovi beni capitali. E’ stato stimato (Stern) che la soluzione del problema richiede l’impiego di circa il 2% del Pil mondiale nell’arco di un quarantennio. Il Pil mondiale è attestato su un trend di crescita dell’ordine del 3,5% l’anno. Se questo ritmo si manterrà vi sarebbe lo spazio sia per gli investimenti ecologici necessari sia per incrementare ulteriormente il benessere materiale della popolazione mondiale. Se l’economia mondiale ristagnasse continuerebbero ad essere sacrificate le risorse destinabili alla tutela e al risanamento dell’ambiente.

D) Le politiche per l’ambiente sono note, le risorse disponibili. Stenta tuttavia a configurarsi un accordo fra le nazioni affinchè esse operativamente collaborino ad attuare quelle politiche, a impiegare in modo coordinato quelle risorse. Non sono stati sufficienti a pervenire alla cooperazione e a prevenire i comportamenti opportunistici di alcuni paesi i progressi che pure si sono realizzati attraverso i fori promossi dalle Nazioni Unite che negli anni si sono succeduti, dall’Accordo di Rio de Janeiro del 1992 all’Accordo di Parigi del dicembre 2015, dal quale peraltro si sono ritirati gli Stati Uniti guidati dal presidente Trump. Dal 20015 non si sono registrati sviluppi positivi.
Data natura planetaria della questione ambientale, gli sforzi di singoli paesi non possono bastare. Fondamentale perché la cooperazione si configuri è che l’opinione pubblica sia consapevole e disposta a sostenere il costo necessario a sventare la più grave minaccia  che grava sull’umanità.

  1. Hicks, Una teoria della storia economica, (1969), UTET, Torino 1971;
  2. Baumol-W. Oats, The Theory of Environmental Policy, Prentice Hall, New York 1975;
  3. Pearce-K. Turner, Economia delle risorse naturali e dell’ambiente, il Mulino, Bologna 1994;
  4. Ciocca, L’economia mondiale nel Novecento. Una sintesi, un dibattito, il Mulino, Bologna 1988;
  5. Musu, Introduzione all’economia dell’ambiente, il Mulino, Bologna 2000;
  6. Stern, Clima è vera emergenza, (2006), Brioschi, Milano 2009;
  7. Ciocca-I. Musu (a cura di), Natura e capitalismo. Un conflitto da evitare, Luiss University Press, Roma 2013;
  8. Nordhaus, The Climate Casino. Risk, Uncertainty, and Economics for a Warming World, Yale University Press, New Haven and London 2013;
  9. Ciocca-I. Musu (a cura di), Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato, Luiss University Press, Roma 2016;
  10. Carraro-M. Davide, La novità dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, in “ApertaContrada”, 14 gennaio 2016;
  11. Carraro-A. D’Aprile, Le conseguenze del ritiro statunitense dall’accordo globale sul clima, in “ApertaContrada”, 11 luglio 2017.