Politica monetaria e di bilancio: una complementarità de facto nell’adesione all’Euro

Se debba esservi coordinamento fondato sul primato della politica fra governo del bilancio e governo della moneta è questione da tempo risolta: l’indipendenza della banca centrale è riconosciuta, financo sul piano normativo tutelata. Se l’Esecutivo si abbandona alla finanza allegra la banca centrale ha il dovere di prevenire l’inflazione. Esiste per questo. L’ulteriore principio, dopo Keynes, è che tocca in primo luogo alla manovra espansiva del bilancio – idealmente investimenti pubblici – di contrastare la recessione, con la banca centrale impegnata, al più, a fiancheggiare in autonomia l’azione del bilancio. La politica monetaria poco può, da sola, contro il ristagno della domanda. Lo conferma l’annosa impotenza del quantitative easing, volgarmente detto “bazooka” monetario, della Banca Centrale Europea nel sostenere la domanda interna dell’Euroarea, mentre la Germania tagliava gli investimenti pubblici e mandava in surplus bilancio e conti con l’estero.
Il no al coordinamento, tuttavia, non esclude che fra le due sfere si dia complementarità d’azione nei fatti.
Fu, questo, il caso dell’adesione dell’Italia all’Euro nel 1996-1997.
Il Governo Prodi, con Carlo Ciampi al Ministero del Tesoro, sorse nel maggio del 1996. Dopo una pausa di riflessione annunciò in settembre la determinazione a rispettare i quattro criteri d’adesione nel cruciale anno della verifica, il 1997. Lo fece quando l’economia cresceva a stento e le pubbliche finanze, i prezzi, i tassi d’interesse, il regime e il corso del cambio della lira erano in stridente contrasto con quei criteri.
Il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, era contrario all’adesione. Riteneva che l’economia italiana non fosse in quel momento pronta. Occorreva prima “mettere la casa in ordine”, risolvere le debolezze strutturali da sempre denunciate da Via Nazionale e poi, eventualmente, aderire.
In una recente, rara, intervista Fazio è tornato sulla vicenda: “Personalmente avevo espresso più volte a Carlo (Ciampi) le mie perplessità: ‘Guarda che non possiamo entrare, non abbiamo i requisiti’ (…). Nel giugno del 1997 in Parlamento mi venne chiesto del mio atteggiamento scettico circa l’entrata fin dall’inizio nella moneta unica (…). Dissi: ‘Non avremo più i terremoti valutari, ma avremo una sorta di bradisismo (…), il terreno che sprofonda a poco a poco, come a Pozzuoli’[1].
Il bradisismo poi c’è stato e continua, per cause allora non tutte preventivabili. La moneta, l’euro, non ha colpa. La produttività italiana è ferma da un quarto di secolo a causa delle debolezze strutturali delle imprese e dell’inadeguatezza delle politiche economiche e istituzionali.
Lo scetticismo del Governatore si manifestò sin dal primo, decisivo passaggio: il rientro della lira nello SME.
Pure, già in quella decisiva occasione l’apporto, non solo tecnico, della Banca d’Italia fu decisivo di fronte ai reiterati dubbi olandesi e tedeschi. In quel difficile week-end a Bruxelles, nel novembre del 1996, la delegazione italiana (Ciampi, Fazio, Draghi, chi scrive) dovette toccare con mano che verso il Belpaese – cito ancora il Governatore Fazio – “c’era soltanto fiducia in alcune persone. Era chiaro che la Banca d’Italia dava una sufficiente garanzia e il sistema riteneva particolarmente affidabile Ciampi”.
Il Presidente Prodi si era saggiamente assicurato il sostegno della Francia di Chirac. Ma posso testimoniare che quella notte a Bruxelles Ciampi fu davvero convincente nel conclusivo intervento a braccio in cui sostenne che l’Europa politica aveva bisogno dell’Italia non meno di quanto l’Italia ne avesse dell’Europa.
“Io non ero d’accordo e non era un mistero, però la scelta spettava al nostro Governo…”, Fazio ha ribadito. Tuttavia, una volta che il governo ebbe scelto, il 24 marzo del 1997 il Governatore della Banca d’Italia, coerentemente con l’intenzione governativa, si rifiutò di firmare il parere del SEBC che per l’elevato debito pubblico (121% del Pil) escludeva l’Italia, con il Belgio, dalla moneta nuova. Il Governatore riuscì a spuntare la formula salvifica, che suonò: “L’Italia è molto preoccupata del livello del suo debito pubblico e farà gli sforzi necessari…”. Racconta oggi Fazio: “Mi chiamò Ciampi e mi disse: ‘Antonio è una bocciatura?’ Risposi: ’No, è una promozione condizionata’ ”.
La Banca d’Italia, in piena autonomia e com’era suo compito istituzionale, aveva già da tempo impostato e stava attuando una politica monetaria antinflazionistica. Fu questa politica ad assicurare il rispetto dei parametri monetari europei: quelli concernenti i prezzi, i tassi dell’interesse, il cambio. Naturalmente non sarebbe bastato se il Governo, con Vincenzo Visco alle Finanze, non avesse nel 1997 – in un solo esercizio! – abbattuto l’indebitamento netto al disotto del fatidico 3% del Pil, dal 7% nel 1996.
L’inflazione era risalita, dal 4 al 6%, nel volgere del 1995. Ma la Banca d’Italia era intervenuta d’anticipo, temendo che la ripresa della domanda e il deprezzamento del cambio alimentassero le attese inflazionistiche, e viceversa. L’11 agosto del 1994 – quando l’inflazione era scesa in luglio al 3,7% – il tasso di sconto venne rialzato dal 7 al 7,5%. La mossa sorprese il mercato, i cui esponenti, al pari della Confindustria, protestarono. Le aspettative d’inflazione si erano tuttavia innescate. Vennero poi rinfocolate dal calo della lira connesso con la crisi messicana del dicembre 1994/gennaio 1995. Attraverso il deprezzamento del settembre del 1992 e quello dei primi mesi del 1995 il tasso di cambio effettivo della lira si era abbassato di un terzo, quando le importazioni erano pari al 20% del Pil.
La Banca d’Italia pose un freno alla base monetaria (che diminuì nel 1995), alla moneta (che crebbe meno del 2% l’anno nel 1994-1995), al credito (la cui espansione dal 10% l’anno del 1993 si dimezzò nel biennio successivo). “Per spezzare il deterioramento delle aspettative” – come si disse – il tasso di sconto venne innalzato ancora, nel 1995: all’8,25% il 21 febbraio, al 9% il 26 maggio. Nella Relazione letta il successivo 31 maggio il Governatore impegnò Via Nazionale in un obiettivo di disinflazione quantificato, e a brevissimo termine. Lo fece sebbene i colleghi del Direttorio (Desario, Padoa-Schioppa, chi scrive) lo avessero sconsigliato, per non mettere a repentaglio nel caso d’insuccesso il bene più prezioso, la credibilità dell’Istituto. Il Governatore poté farlo, perché allora la Banca d’Italia era – dal 1893 – sanamente monarchica, non affidata alla collegialità, spuria perché intra moenia, poi introdotta nel dicembre del 2005. Usò queste parole, a maggio, mentre l’inflazione tendeva a travalicare il 6%: “Entro l’estate (…) il tasso medio annuo d’inflazione potrà situarsi entro il 4,5 per cento. Dovrà discendere al di sotto del 4 per cento l’anno prossimo. Qualora la dinamica dei prezzi nel corso dei prossimi mesi tenda a discostarsi dall’andamento ora delineato, non esiteremo a restringere ancora le condizioni di offerta del credito” (Considerazioni Finali, p. 26).

Contro l’inflazione le restrizioni creditizie e gli annunci della Banca d’Italia si unirono all’accordo Ciampi-Trentin del 1993, che moderò la dinamica salariale verso il 3% l’anno. Contro l’inflazione nessun apporto provenne dalla politica di bilancio, che mantenne l’indebitamento netto al disopra del 9% del Pil dal 1992 al 1994, per ridurlo solo all’8% nel 1995.
Quella politica monetaria antinflazionistica fu un successo.
Su base mensile i prezzi rallentarono nella misura desiderata. Calcolato a distanza di dodici mesi dal 6% del novembre del 1995 il tasso d’inflazione scese senza soluzione di continuità fino ad attestarsi al disotto del 2% nel 1998. Dall’estate del 1997 il fondamentale criterio della stabilità comparata dei prezzi per l’adesione all’Euro veniva rispettato.
Del pari veniva rispettato il criterio della stabilità del cambio, con la lira lievemente apprezzata dopo il rientro nello SME del novembre 1996 a 990 lire per marco tedesco: apprezzata, perché sostenuta dagli alti tassi d’interesse a breve termine.
Nel 1997 il Pil venne stimato in moderata accelerazione (+1,5%) rispetto all’anno precedente (+0,7%). La disoccupazione, seppure alta (11%), non aumentò. La bilancia dei pagamenti di parte corrente chiuse con un avanzo di quasi 40 miliardi di dollari.
Più complessa questione fu quella del rispetto del terzo criterio monetario: i rendimenti dei titoli pubblici decennali non oltre i 200 punti base rispetto a quelli medi dei tre paesi candidati all’euro con l’inflazione più bassa.
La Banca d’Italia – quella Banca d’Italia, quantomeno – moveva dal convincimento, di teoria e d’esperienza, che il tasso a lunga è fenomeno d’aspettative (Keynes) più che di produttività e parsimonia (Fisher): alti tassi a breve abbattono i tassi a lunga, se piegano le attese d’inflazione e l’incertezza (Keynes, General Theory, Ch. 15, segnatamente pp. 202-203). Il tasso interbancario a tre mesi dal picco del 10,7% a dicembre 1995 veniva fatto diminuire solo gradualmente, con estrema prudenza mantenuto dalla Banca d’Italia su livelli di guardia. Ancora a fine 1998, alla vigilia dell’avvio dell’euro, col 6% eccedeva il 4% tedesco. A differenza anche di quella dei tassi sui Bot, la discesa dei tassi a lunga sui Btp fu invece molto più rapida: dal 13,5% dei primi mesi del 1995 toccarono il 4,2% nel dicembre 1998, pochi punti base al disopra del rendimento dei Bund. Sebbene il debito pubblico fosse ancora al 118% del Pil, dall’inizio del 1997 anche questo criterio di convergenza venne rispettato.
L’idea keynesiana che ad alti tassi a breve corrispondessero più bassi tassi a lunga non riscosse l’apprezzamento del Tesoro e del Governo, da cui era molto sentita l’urgenza di un servizio del debito pubblico meno costoso. La Banca d’Italia non mutò la linea antinflazionistica che le spettava di fronte alle rimostranze di Via XX Settembre. Secondo la Banca il lassismo monetario avrebbe avuto l’effetto contrario, di rialzo dei tassi a lunga. Vi furono discussioni, anche aspre. Personalmente, ricordo una cena con i Ciampi in casa di amici comuni a Santa Severa: il mio onesto tentativo di opporre…Keynes all’onere immediato del debito pubblico si scontrò con il forte dissenso del dottor Ciampi, oltre che con la manifesta irritazione della signora Franca!
Aderimmo all’Euro, davvero in extremis.
Visco alle Finanze e Fazio alla Banca d’Italia si assunsero le responsabilità ed ebbero il merito operativo nel realizzare quella che può dirsi complementarità de facto fra politica monetaria e politica di bilancio. Al Governo Prodi si deve la volontà di portare il Paese nella moneta unica sin dall’avvio.
Di quella volontà Carlo Ciampi fu la bandiera, politica e morale.
Sull’economia Ciampi era certo che i tassi di cambio irrevocabilmente fissati nell’euro avrebbero dato ai paesi membri prezzi stabili, costo del danaro contenuto, più intenso movimento di merci, persone, capitali. Confidava che le regole europee e la coordinazione delle politiche nazionali avrebbero assicurato una dinamica della domanda globale in linea con l’espansione del potenziale produttivo. Sperava che, sollecitati da Bruxelles, i governi italiani avrebbero allora anch’essi attuato politiche coerenti con una crescita nella stabilità. Da tutto ciò i produttori italiani avrebbero potuto trarre grande beneficio, a propria volta apportando alla crescita capitale e produttività.
Nell’Euroarea il primo obiettivo si è ampiamente realizzato: nel ventennio dell’euro – ottima moneta, anche internazionalmente domandata – l’inflazione è scomparsa, i tassi d’interesse nominali si sono situati su minimi storici, l’integrazione economica si è fatta più stretta.
Ma l’azione fiscale e monetaria anticiclica nelle recessioni del 2009 e del 2012-2013 è stata insufficiente e nel 2007-2019 la dinamica di trend della domanda interna europea è stata fiacca (0,8% l’anno in media). La domanda ha alimentato nell’area un incremento del Pil appena superiore all’1%, con conseguente rallentamento dello stesso prodotto potenziale. La politica monetaria è stata tardiva e discontinua: si è avviata solo settimane dopo il fallimento Lehman, mentre il bilancio dell’Eurosistema si è ristretto di un terzo fra l’estate del 2012 e l’estate del 2014. Comunque, il quantitative easing non poteva surrogare una politica di bilancio europea attenta ai conti al punto da tagliare gli investimenti pubblici ad alto moltiplicatore.
I governi italiani, nell’insieme, sono stati incapaci di risanare le finanze, rafforzare le infrastrutture, perequare la distribuzione dei redditi, riscrivere il diritto dell’economia, imporre la concorrenza ai produttori, agire per il Mezzogiorno, opporsi alla miopia neomercantilista della Germania.
Lo sconcerto di Ciampi, al Quirinale e in seguito, nasceva in particolare dall’inadeguata risposta delle imprese italiane nel quadro di luci e ombre appena richiamato. Ricordo la sua delusione, di fronte allo scemare dell’accumulazione del capitale e del progresso tecnico, fino al loro azzerarsi nel volgere degli anni Duemila.
Ma la sua fede europeista non venne meno. Oltre la moneta, oltre l’economia, Egli vedeva l’Unione d’Europa: il sogno di chi, giovanissimo, aveva dovuto combattere sul fronte albanese l’ennesimo conflitto fra i popoli europei, il più sanguinoso.

Note

1. A. Fazio, L’euro e l’Italia. Gli effetti e i problemi di oggi e di ieri, in “le SFIDE, N° 1, Novembre 2017, pp. 18-33, da cui sono tratte le citazioni che seguono.