CONTRIBUTO AL DIBATTITO SU “IL DIRITTO PUBBLICO TRA ORDINE E CAOS” DI GIANCARLO MONTEDORO

Il lavoro di Giancarlo Montedoro si interroga sull’ ”avventura” del giurista tra ordine e caos, sulla funzione del diritto e delle istituzioni nella società; riflette soprattutto sulla capacità “ordinatoria” delle regole e, di conseguenza, sui compiti e sulla responsabilità del giudice, in un contesto che sempre di più “espone” quest’ultimo alle aspettative di giustizia e di tutela dei diritti: “l’età della responsabilità”.
Il lavoro non trascende mai nella filosofia e rimane saldamente ancorato all’esperienza concreta, con esempi, richiami puntuali a istituti, disposizioni, sentenze. Ed è questo uno dei pregi più importanti dello scritto.
L’Autore affronta con coraggio le questioni più gravi dell’ordinamento, del diritto, della giustizia, senza temere soluzioni “intermedie” o “di buon senso”, che si rivelano quasi sempre convincenti; rifugge dai luoghi comuni, dalle soluzioni “alla moda” o provocatorie, rimanendo aderente alla realtà e alle concrete esperienze dell’operatore del diritto.
Si apprezza perciò l’attenta ricostruzione dei dibattiti e la proposizione di soluzioni ragionevoli, quasi sempre originali e coraggiose.
Quali sono dunque le aspettative dei cittadini nei confronti del giudice ? Quali le responsabilità? Quali le conseguenze della maggiore esposizione ai desiderata della società ?
Mettere il giudice in condizione di iperresponsabilità è la questione fondamentale del libro; come spiega Montedoro, ciò determina ulteriori incertezze, caos, mancanza di punti di riferimento. Ad ogni processo corrisponde, potenzialmente, un altro processo (“il processo sul processo”).
Quali risposte può dare l’ordinamento in una situazione apparentemente caotica come quella attuale ?
Certo è che se non ci fosse il caos questo libro non ci sarebbe. Ordine e caos sono l’uno causa e conseguenza dell’altro, elementi simmetrici, in continua tensione che si presuppongono e si determinano a vicenda.
Il campo è conteso tra due spinte contrapposte e convergenti allo stesso tempo, la frenetica e conflittuale condizione del vivere sociale, da una parte, e la naturale e necessaria tensione verso la certezza del diritto, la stabilità delle relazioni e dei rapporti giuridici, dall’altra.
L’Autore non si ferma però alla parte destruens; analizza il caos e la decostruzione, per poi ribaltare la scena e procedere alla ricostruzione, o quanto meno a porre il tema e il metodo della stessa.
Qui il lettore è spiazzato; probabilmente è il libro di un ottimista, di chi vive l’esperienza del giudice e del giurista come un’affascinante avventura quotidiana, umana e culturale allo stesso tempo.
La crisi del diritto. Il tema è affrontato con grande lucidità, la certezza del diritto è obiettivo quasi irraggiungibile, in una società dove regna l’incertezza e campeggia il rischio.
Tutti vorrebbero certezza e anelano ad una tutela efficace e giusta; ognuno però smonta qualche pezzo, attacca, decostruisce.
Si tratta del pluralismo estremo di una società sempre più organizzata per gruppi; con interessi (economici e non) molto forti che organizzano per confrontarsi con i poteri pubblici, che risultano, a loro volta, ora fortissimi ora debolissimi.
Molto forti sono soprattutto gli interessi collegati al territorio che si esprimono anche attraverso le autonomie locali e determinano conflitti quasi permanenti tra diversi livelli di governo.
Siamo in una società in cui il pluralismo accentuato mette in crisi l’ordinamento giuridico, il principio di legalità e la certezza del diritto.
Basti richiamare la lucida ricostruzione ante litteram di Santi Romano, sulla crisi dello Stato moderno dove sono già individuati gli aspetti che oggi appaiono di massima evidenza.
L’applicazione della legge passa per un fitto tessuto di interessi, normative secondarie e subsecondarie (anch’esse espressione di pluralismo e autonomia) che non di rado ne mettono in discussione contenuto e valore. Altrettanto spesso, come dicevamo, il dato legislativo non contiene la definitiva soluzione dei conflitti di interesse che sono rimandati alla relativa applicazione amministrativa e giudiziale.
La stessa legge nazionale, si confronta (e talvolta si scontra) con l’ordinamento costituzionale, sovranazionale o globale, con esiti sempre più spesso imprevedibili.
L’ordinamento deve mettere in campo tutti i fattori istituzionali a sua disposizione, compreso il giudice, che si trova al centro di un complesso sistema senza esserne il protagonista assoluto.
Sulla crisi delle fonti l’incertezza aumenta. Quale può essere il ruolo del giudice in questo contesto così problematico e conflittuale ?
A prima vista la sua posizione pare rafforzarsi, la condizione caotica della normativa, accresce il ruolo del giudice; anche se, al contempo lo pone in posizione di rilevante esposizione.
Perciò la crisi delle fonti, il caos o la decostruzione, non giovano alle istituzioni: la maggiore esposizione del giudice determina la sua maggiore responsabilità.
Quali sono i contraccolpi dell’incertezza? Il superamento della cosa giudicata, ad esempio, viene spiegato benissimo in questo lavoro; non è facile chiarire il rapporto tra il diritto CEDU e le sentenze nazionali; difficile è altresì spiegare (ad esempio ad uno studente) la cosa giudicata in un quadro così complesso, plurale e inevitabilmente contraddittorio.
Il processo interno si sposta o continua oltre confine; se il giudice nazionale non soddisfa pienamente gli interessati, la lite punta più in alto; le certezze interne (il giudicato), si rimettono in discussione nel diritto sovranazionale, tendenzialmente prevalente.
Tutto ciò è a mio avviso inevitabile se la società si amplia, se i confini si estendono e gli ordinamenti si integrano, i soggetti istituzionali aumentano, e le situazioni giuridiche soggettive si relativizzano ancor di più.
Viene fuori una bella descrizione dell’ordinamento giuridico, il nuovo e il vecchio – dice l’Autore – si collegano a vicenda.
Sollevo un dubbio: siamo sicuri che l’incertezza possa cessare ? Siamo sicuri che ci siano stati momenti di maggiore certezza o forse l’esperienza sociale, umana vive nella condizione di mutevolezza e incertezza permanente ?
Condizione in cui l’ordinamento cura l’esigenza di certezza del diritto e prova a soddisfare il desiderio di giustizia.
Non è forse questa – io dico – l’avventura del giurista che tiene ancora il timone in mano anche se la bufera impazza.
In questo senso la visione di Montedoro è meno ottimista: segnala la tendenza diffusa alla decostruzione, ognuno smonta pezzi del sistema, i cittadini, le stesse istituzioni, il giudice, gli avvocati, l’amministrazione. L’edificio (l’ordinamento e la società civile) resiste ?
In questa situazione si determina la crisi e il declino del diritto amministrativo e si pongono le domande fondamentali: riesce ancora l’ordinamento giuridico a regolare la vita sociale di livello amministrativo ? Si riesce a governare una complessità così alta?
A me pare che, nello stato pluriclasse, il diritto amministrativo non sia mai riuscito a dominare la complessità, e adesso meno di prima; certamente è in crisi il diritto, cioè la capacità di dare certezza ai rapporti giuridici nella regolazione degli interessi; è in crisi l’attitudine a risolvere conflitti di interesse nella misura in cui la complessità sociale supera la capacità dell’ordinamento di farvi fronte.
Le conseguenze si registrano non soltanto in termini di decostruzione ma anche di spostamento di potere dall’ambito nazionale a quello europeo o internazionale, dalla giurisdizione interna a quella sovranazionale. E ancora, di rilevante potere delle autonomie locali e dei relativi interessi. L’ordinamento nazionale è al centro di un sistema complesso e confuso.

La seconda parte del lavoro affronta il tema dell’istruttoria; questione particolarmente interessante soprattutto se affrontata da un giudice.
Cosa è l’istruttoria secondo Montedoro ? Il rapporto tra processo e realtà, la capacità del primo di arrivare alla verità. Cosa ci si aspetta dal giudizio ? La giustizia, ossia la verità, o qualcosa che abbia la verità come presupposto.
Montedoro registra il divorzio tra verità e certezza: qui si radica la crisi del giudice che dall’esterno forse non si può immaginare, ma che certamente dipende dal rischio che il processo giunga ad esiti più o meno distanti dalla verità.
Montedoro dice che il processo è una macchina di accertamento, un sistema veritativo e allo stesso tempo falsificante, una “tranche de vie”.
In questo senso, i principi e le dinamiche processuali suppliscono alla difficoltà di raggiungere la verità: la non contestazione, la discussione critica, la vicinanza alla prova ecc.
Anche il contradditorio avvicina alla verità ma non la garantisce.
Montedoro – d’altra parte – rifiuta il pensiero debole. Non si rassegna all’idea che la verità processuale non si colleghi, anche indirettamente, a quella sostanziale. In questa necessaria tensione verso la verità oggettiva l’A. rinviene infatti il fondamento della decisione autoritativa.
In altre parole, solo la tendenziale aderenza (o tendenza) verso la verità può giustificare il carattere autoritativo della sentenza. Ciò significa che la decisione autoritativa si può accettare solo se ha prima acquisito adeguati elementi fondanti che la collegano più o meno direttamente alla realtà.
Realisticamente, l’A. insiste moltissimo sul rilievo del contesto, del metodo, del meccanismo di ingresso dei fatti nel processo; si arriva comunque ad un risultato approssimativo.
La verità processuale è necessariamente “approssimativa”, in quanto difficilmente potrà coincidere con la verità assoluta che rimane obiettivo ideale.
Ciononostante, il giudice non può non decidere; ed è questo il suo personale dramma. Montedoro ci spiega infatti che, mentre lo storico elabora tesi che potranno successivamente essere smentite o completate, il giudice nel breve tempo del processo, deve dare certezza; quindi la verità processuale non può tradire dubbi o indecisioni; la sentenza per quanto clamorosamente errata viene comunque presentata come verità e come manifestazione di “giustizia”.
Avanzo un ultimo rilievo, in parte critico, con riferimento all’ingresso dei fatti nel processo.
La mia esperienza mi induce a rimarcare un dato che nel libro rimane sullo sfondo e cioè il fatto che la verità processuale è per definizione “controversa”, “contestata”.
Ritengo che non sia adeguatamente svelato il contesto generalmente conflittuale dell’esperienza giuridico- ordinamentale. Il diritto vive infatti nello scontro tra interessi che si contrastano nel processo.
Non possiamo perciò dimenticare come l’ordinamento giuridico abbia una componente importante nella “lite”, nella “controversia” che costituisce l’occasione principale per l’affermazione della regola di diritto nel caso concreto.
Ciò significa che il movimento tra fatto e norma, altalenante, come dice Montedoro, si sviluppa– in misura significativa – in un ambito e contesto contenzioso o quasi contenzioso.
Questo dà un importante chiave di lettura del processo, una via di uscita; il giudice vede due enunciazioni contrapposte e in questo modo si avvicina alla realtà. Fermo restando che qualunque soluzione sarà comunque contestata.
Alla fine Montedoro registra un divorzio tra verità e certezza, non perché egli condivida tale esito, ma perché considera tale condizione praticamente inevitabile.
C’è sempre più richiesta di verità e sempre minore certezza; ognuno di noi ha la responsabilità, ciascuno nel proprio ruolo, di non allontanare tra di loro questi elementi.
Il tema dell’istruttoria pone rilevanti e specifiche questioni anche nella giustizia amministrativa; il punto cruciale è capire se, e in che misura, il processo riesca ad andare oltre il procedimento. C’è un problema nel rapporto tra fatti procedimentali ed extra procedimentali. Su questo crinale si pone il tema della discrezionalità tecnica ovvero quanto l’istruttoria processuale possa rivedere fatti e valutazioni complesse già svolte in sede amministrativa.
Questo è un punto sul quale la giustizia amministrativa cerca da tempo un punto di equilibrio, attraverso un percorso che merita rispetto, ma che non sempre è apprezzato dal foro.
In molti casi, se una questione di fatto rimane fuori dalla narrazione –pur essendo dirompente o decisiva – la causa è comunque persa.
Anche questa è una grossa difficoltà del giudice amministrativo nella fase istruttoria: andare oltre il racconto amministrativo.
Il processo amministrativo rimane, secondo Montedoro, processo di parti, fondato sul principio dispositivo e “accompagnato” dal metodo acquisitivo.
Questa sistematica fonda meccanismi processuali piuttosto consolidati, rimessi alla gestione pretoria (caso per caso) del giudice amministrativo, su cui c’è poco da aggiungere.
Emerge, forse, un’ambiguità di fondo: l’obiettivo del processo amministrativo – dice Montendoro – è la legalità dell’azione amministrativa. E dunque, se il giudice si rende conto che ci sono vizi e illegittimità che le parti non sono riuscite a dimostrare, può attenuare il principio dispositivo e l’onere della prova ? Il giudice amministrativo può essere ancora considerato il “signore della prova”, come diceva Nigro decenni or sono ?
Montedoro sembra ammettere, talvolta, una relativa intraprendenza del giudice amministrativo in vista della legalità sostanziale, anche se rimane ancorato all’idea che la giurisdizione debba essere “tutela” di situazioni giuridiche soggettive, e non “controllo” della pubblica amministrazione, rifiutando esplicitamente il principio inquisitorio. Il metodo acquisitivo, si precisa ancora, non incide e non inverte l’onere della prova.
Ultimo punto; l’ampio ricorso alla documentazione sottolineata nel lavoro, con i suoi possibili rischi.
Il processo amministrativo si caratterizza ancora per essere principalmente basato su documenti. Montedoro conferma che, a differenza di quanto accade nel processo civile, l’ingresso documentale nel processo amministrativo è praticamente illimitato, con enorme quantità di atti prodotti, senza specifiche e particolari condizionamenti processuali.
Il volume offre suggerimenti e spunti critici che difficilmente possono essere sintetizzati e riportati; è una lezione di vita istituzionale e di esperienza giuridica; lezione dialogata e condivisa, nella continua ricerca dell’ordine e della pace.