Aiutare l’Italia. La concorrenza, profili economici

  1. L’obiettivo principale di questa breve nota è di riassumere le recenti evidenze disponibili relative agli effetti della concorrenza sull’efficienza produttiva e sulla crescita dell’economia italiana. Nei successivi due paragrafi si premettono alcune considerazioni propedeutiche di taglio generale sui profili essenziali della concorrenza, in particolare con riferimento al suo nesso con crescita economica.
  2. Non vi è convergenza fra gli economisti su quale sia la nozione di concorrenza rilevante [1]. Il primo teorema fondamentale dell’economia del benessere (un equilibrio concorrenziale è efficiente nel senso di Pareto) è potente ma fragile perché fondato su ipotesi molto restrittive (prodotto omogeneo, informazione perfetta, imprese price taker, assenza di barriere all’entrata e all’uscita, piena sostituibilità dei fattori della produzione…) al punto che autorevoli economisti  si chiedono sempre più frequentemente se non sia il caso di iniziare gli studenti allo studio della microeconomia con i modelli di concorrenza oligopolistica piuttosto che con quelli di concorrenza perfetta. Evadendo da quest’ambito rigido e irrealistico di assunzioni come dobbiamo intendere la concorrenza ? La domanda è assai rilevante anche per le politiche volte a tutelare e a promuovere la concorrenza (regolamentazione, anti trust): non esiste una sola nozione di concorrenza che possa guidare le politiche in tutti i casi  concreti. [2]
  3. Possiamo menzionare almeno tre visioni della concorrenza [3]. La prima rimanda agli incentivi che essa esercita sull’organizzazione interna delle imprese attive sul mercato accrescendo riducendo la x-inefficienza nel senso di Leibenstein. La seconda guarda al processo di selezione delle imprese migliori a scapito delle altre, aumentando il grado di efficienza nell’insieme dell’economia. La terza si incentra sul ruolo dell’innovazione come motore dei guadagni di efficienza in un contesto dinamico. Mentre infatti vi è consenso generale sul fatto che la  concorrenza  accresca il benessere del consumatore in un ambito statico, vi è discordanza  sugli effetti della concorrenza nel tempo. Prevale l’effetto delle rendite fruibili ex-post grazie all’introduzione di un’innovazione, nel qual caso un certo grado di monopolio costituisce l’incentivo necessario per spingere l’imprenditore a innovare [4] o invece è più rilevante l’esistenza di mercati contendibili che inducano l’imprenditore a innovare per parare la minaccia di potenziali, più efficienti, entranti [5] ? A questi tre approcci se ne deve aggiungere uno ulteriore che trascende una concezione puramente economica del benessere e che, nonostante la sua crescente rilevanza, qui menziono soltanto: ciò che rileva maggiormente nell’analisi del ruolo della concorrenza è il benessere delle persone in primo luogo in termini di godimento di valori fondamentali, quali i diritti e la libertà.[6]
  4. L’evidenza empirica per i paesi dell’OCSE evidenzia la nocività di un eccesso di regolamentazione, in primo luogo  perché comprime la crescita della produttività totale dei fattori, in particolare nei paesi e nei settori più lontani dalla frontiera tecnologica.  (Bassanini, Scarpetta e Visco, 2000; OECD, 2003a; Nicoletti e Scarpetta, 2003 e 2005). Ciò può riflettere anche una relazione negativa tra grado di regolamentazione e investimenti: per il complesso dei paesi dell’OCSE, Alesina et al. (2005) mostrano che nei settori dei servizi tradizionalmente molto regolamentati, quali i servizi di pubblica utilità, trasporti e comunicazioni, il processo di liberalizzazionee la riduzione delle barriere all’entrata hanno stimolato l’accumulazione di capitale. Faini et al. (2006) riscontrano che le distorsioni alla concorrenza, alterando il prezzo e la qualità dei beni o servizi forniti, riducono gli afflussi di capitali e di investimenti diretti esteri.
  5. L’eccesso di regolamentazione può avere effetti indiretti sui settori che si collocano a valle nelle catene del valore. Sulla base di dati relativi a 15 settori industriali in 17 paesi dell’OCSE per il periodo 1996-2002, Barone e Cingano (2008) mostrano per non pochi essenziali servizi alle imprese (fornitura di energia e attività professionali soprattutto, ma anche trasporti  e comunicazioni)  l’esistenza di forti vincoli alla concorrenza produca effetti negativi sulla crescita del valore aggiunto, della produttività del lavoro e delle esportazioni del settore manifatturiero che quei servizi utilizzano. Le simulazioni di un modello di equilibrio economico generale dinamico dell’area dell’euro (Gerali et al, 2015) segnalano che, in presenza di prezzi flettenti e di vincoli alla riduzione dei tassi di interesse nominali, riforme che aumentino il grado di concorrenza in un solo paese dell’area potrebbero avere un impatto limitato sull’attività economica nei primi due anni. Gli effetti positivi derivanti dall’attesa di un maggior livello di produzione nel lungo termine verrebbero controbilanciati  dall’aumento dei tassi di interesse reali scaturito dalla discesa dei prezzi.  Riforme attuate simultaneamente dai paesi dell’area possono invece avere effetti più pronunciati sull’attività economica anche nel breve periodo.
  6. Le valutazioni di natura storica sono complessivamente convergenti nel sottolineare la complessiva gracilità della concorrenza nell’economia  italiana.  Nonostante i recentissimi progressi essa rimane debole, in particolare in alcuni settori e mercati. La tesi non è certo nuova e trova i suoi primi fautori negli economisti liberisti di fine Ottocento, per i quali la lotta per il libero scambio rivestiva un significato non solo economico, ma anche politico e culturale [7].  Diversi lavori hanno tracciato in anni più vicini a noi  l’evoluzione del grado di concorrenza.  Ne menzionerò qui solo alcuni, relativi agli ultimi venti anni.[8]

[1] Cfr. Brandolini e Ciapanna (2017) per una utile sintesi del dibattito.

[2] L’obiettivo delle politiche è il contrasto delle posizioni di rendita (monopolio o altro privilegio) perché queste impongono un costo sociale, sono improduttive, hanno finalità meramente redistributive, “sprecano” investimenti, non spingono la crescita.  Il problema è che in presenza di fallimenti di mercato (beni pubblici, esternalità, informazione asimmetrica…) non è agevole distinguere le rendite “buone” da quelle “cattive”. Quale è la dose appropriata di regolamentazione ?    Cfr. Bianco (2016).

[3] Cfr. Vickers (1995).

[4] Nel filone che risale a Schumpeter la presenza di rendite ed extraprofitti è condizione necessaria per la promozione dell’innovazione e dell’efficienza economica (Cfr. Dosi, Nelson e Winter, 2000).

[5] In questo caso l’ingresso o la minaccia d’ingresso di nuove imprese forniscono gli incentivi privati all’attività di innovazione e quindi generano effetti positivi sulla produttività (Griffiths, Harrison e Simpson, 2006; Aghion et al., 2005). Questi ultimi elaborano un modello generale che comprende le due ipotesi di cui nel testo come casi particolari. Per i settori che operano sulla frontiera tecnologica un elevato grado di concorrenza innalza la produttività ; per quelli arretrati,  un’eccessiva concorrenza può invece ridurre gli incentivi a investire in ricerca e innovazione. Si genera così nello spazio concorrenza/innovazione una relazione a forma di U rovesciata.

[6] Cfr. Sen (1993).

[7] La battaglia contro la tariffa faceva parte della lotta contro lo statalismo, i “succhioni”, i “trivellatori del bilancio dello Stato”. Pareto sviluppò una  “critica lucida, serrata, appassionata a protezionismo, colonialismo, spese militari, fisco esoso, iniquità distributiva, iperattivismo statale” Cfr. Ciocca (2007), p. 119.

[8] Si veda per una sintesi dei lavori fino al 2008,  qui largamente ripresa, Brandolini e Bugamelli (2009), in particolare cap. 8.

  1. Una prima evidenza riguarda l’indice di Lerner[9] fra il 1996 e il 2016 (Fig.1) nei settori manifatturieri. Negli ultimi dieci anni la pressione competitiva è aumentata significativamente, in particolare nei settori tradizionali più esposti alle pressioni concorrenziali dei prodotti dei paesi emergenti. Ne sono conseguite rilevanti riduzioni dei margini di profitto (e di conseguenza dell’indice), in particolare nei settori tipici del made in Italy.[10] Nel settore metalmeccanico, che nel 2001 occupava oltre il 20 per cento degli addetti delle maggiori imprese, il margine di profitto è diminuito costantemente fino al 2002, recuperando lievemente nel periodo successivo. Anche nel settore chimico l’indice di Lerner subisce una forte riduzione. Gli indici di regolamentazione dell’OCSE[11] mostrano che rispetto agli altri paesi la posizione complessiva dell’Italia è in miglioramento, ancorché in misura meno intensa negli anni più recenti (Fig.2). Nei servizi, i livelli dell’indice sono ancora relativamente alti per il nostro paese, i progressi più stenti (Fig. 3).
  2. Assai numerosi sono gli studi empirici sugli effetti della concorrenza sull’efficienza delle imprese manifatturiere. Allegra et al (2004) mostrano che i settori dell’economia italiana che utilizzano più intensamente input di beni e servizi prodotti in comparti con bassi gradi di concorrenza  sono caratterizzati da una crescita inferiore del prodotto e delle esportazioni. Secondo Bugamelli e Rosolia (2006) l’aumento delle quote di mercato mondiale dei paesi meno avanzati (utilizzato come proxy dell’accresciuta concorrenza) ha determinato nel periodo 1982-2002  un incremento della produttività media del lavoro nell’industria manifatturiera italiana grazie a un processo di selezione che ha elevato  produttività totale dei fattori e la soglia minima efficiente per restare sul mercato. Nella stessa vena, Altomonte, Barattieri e Rungi (2008) rilevano un impulso positivo del grado di penetrazione delle importazioni sulla produttività, più rilevante quando la pressione concorrenziale investe il settore a monte dell’attività principale dell’impresa. Con riferimento al periodo 1990-2004, Bugamelli, Fabiani e Sette (2008) utilizzano la quota di importazioni italiane provenienti dalla Cina per esaminare l’effetto della pressione concorrenziale sui prezzi e sui profitti. Concludono che l’aumento della quota ha contenuto la crescita dei prezzi alla produzione praticati dalle imprese manifatturiere italiane e presumibilmente ridotto i margini di profitto soprattuttonei settori tradizionali, dove  qualità e  differenziazione dei prodotti hanno meno rilievo.
    L’introduzione dell’euro, facendo venir meno la possibilità di svalutare le monete nazionali, ha favorito, come mostrano Bugamelli, Schivardi e Zizza (2008), una riorganizzazione del settore manifatturiero; sostenendo la dinamica della produttività del lavoro nei paesi dell’area più propensi in passato alle svalutazioni competitive e  nei settori caratterizzati da tecnologie più mature. Per l’Italia ciò implica che nei settori tradizionali di vantaggio comparato il tasso di crescita della produttività del lavoro sarebbe stato senza moneta unica ancora più basso di quello osservato. Nell’ambito dei servizi, traendo spunto dalla rimozione dei vincoli all’entrata nel settore della distribuzione commerciale attuata in Italia nel 1998 e delegata per l’implementazione alle singole regioni, Viviano (2008) mostra come nelle aree in cui i vincoli sono stati effettivamente allentati, la quota di occupati nel settore sul totale della popolazione è aumentata significativamente, con un aumento dell’occupazione nelle grandi imprese e una stabilità in quelle piccole.
  3. In anni più recenti, il governo presieduto da Mario Monti ha avviato con il decreto “cresci Italia” liberalizzazioni nel settore dei trasporti, dei servizi pubblici locali, del gas, e dei servizi professionali. Secondo il Piano Nazionale di Riforma del 2012 l’aumento del PIL  a seguite delle riforme sarebbe stato stimabile nell’1,9 per cento PIL in 9 anni. Negli anni successivi le riforme a favore della concorrenza sono state attenuate.  L’applicazione delle direttiva  europea volta a favorire la libera circolazione dei servizi e l’abbattimento delle barriere tra i Paesi (cosiddetta direttiva Bolkenstein) è stata rinviata con riferimento all’obbligo di gara per le concessioni sull’occupazione si suolo pubblico,  vincoli più stringenti sono stati introdotti  nel comparto della distribuzione dei carburanti. È stato limitato il principio della libera determinazione del compenso nei servizi professionali sancito dal governo Monti. Dopo il 2013 le restrizioni regolamentari alla concorrenza sono aumentate. Un lavoro recentissimo di Mocetti, Rizzica, Roma (2019) mostra – fra l’altro – che la riduzione delle barriere all’entrata nelle professioni ordinistiche e l’allentamento dei vincoli sulla determinazione delle tariffe hanno accresciuto l’occupazione e contenuto i salari. Il governo attualmente in carica ha ulteriormente rallentato il processo di apertura alla concorrenza rinviando la fine del mercato tutelato per gas e elettricità, prorogando il termine per l’avvio delle  gare del servizio ferroviario regionale e le concessioni del demanio marittimo, escludendo il commercio ambulante dall’applicazione della direttiva Bolkenstein.
  4. Nel loro insieme, le evidenze disponibili per il caso italiano confermano dunque che l’apertura alla concorrenza ha esercitato effetti benefici sulla crescita dell’economia. Muovendo da questo dato, Gigliobianco e Toniolo (2017) affrontano l’apparente paradosso della sincronia, a partire dagli anni Novanta, di una lunga  stagnazione della economia italiana  e dell’avvio di un rilevante programma di riforme strutturali volte ad accrescere il grado di concorrenza nell’economia italiana. Per scioglierlo scartano l’ipotesi che la concorrenza non sia in realtà complessivamente aumentata, come sostiene invece Ciocca (2007) argomentando soprattutto sul piano macroeconomico; suggeriscono piuttosto  che a fronte del rapido mutamento tecnologico e competitivo globale, i progressi in Italia siano stati insufficienti ad evitare la stasi della crescita (too late too little).

 

[9] L’indice costituisce una misura del mark up delle imprese.

[10] La tendenza è confermata anche dall’andamento del rapporto di concentrazione  di Herfindhal-Hirschmann nel settore calzaturiero dove  la concentrazione delle quote di mercato si è fortemente ridotta.

[11] Gli indici associano una scala numerica ai gradi di stringenza delle norme che disciplinano la concorrenza sui vari mercati. Valori decrescenti dell’indice indicano un aumento del grado di concorrenza.

Fig.1
Fig.2
Fig.3

Riferimenti bibliografici

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