Sulla Nuova Via della Seta nell’ultimo Rapporto CER

L’ultimo Rapporto CER contiene una parte interamente dedicata alla Nuova Via della Seta, ormai nota a livello internazionale con il nome di “Belt” and Road. Il termine “Belt” riguarda la cintura che collega un insieme di corridoi terrestri che connettono la Cina all’Asia Centrale, all’Europa e al Mediterraneo; il termine “Road” si riferisce al corridoio marittimo che lega la Cina al Mediterraneo e all’Africa attraverso l’Oceano Indiano.

Il rapporto CER presenta indici di preferenza commerciale tra due paesi per 71 paesi coinvolti nella Belt and Road. I paesi sono raggruppati in 5 regioni: Asia Orientale e Pacifico, Europa e Asia Centrale, Asia Meridionale, Medio Oriente e Africa Settentrionale, Africa sub-sahariana.

Da notare che tra i paesi nella regione dell’Europa e dell’Asia Centrale ci sono quelli che fanno parte dell’accordo con la Cina noto come 16+1 (11 paesi dell’Unione Europea e cioè Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Romania, Slovenia più 5 paesi dell’area dei Balcani e cioè Albania, Bosnia-Herzegovina, Montenegro, Macedonia, Serbia). A questi si è aggiunta la Grecia; ora anche Portogallo e Italia hanno aderito alla Belt and Road.

Il rapporto affronta poi il problema se l’aumento della dotazione infrastrutturale che caratterizza i 5 corridoi terrestri e in quello marittimo della Belt and Road può aumentare le opportunità di scambio commerciale.. I risultati dell’analisi segnalano come soprattutto la qualità delle infrastrutture porti a una maggiore opportunità di sfruttamento del potenziale commerciale tra paesi.

Questi risultati sono certamente un contributo importante, e i metodi usati nel Rapporto sono assolutamente originali. Ma bisogna essere consapevoli, come lo è del resto il rapporto stesso, che la Belt and Road va considerata come un progetto che va al di là di una semplice espansione infrastrutturale. Anche nella vicinanza delle infrastrutture (stazioni ferroviarie, porti) i Cinesi infatti progettano sempre parchi e zone industriali, e lo sviluppo della città, come basi di un processo di crescita economica.

Il Rapporto mette in evidenza tra obiettivi delle autorità cinesi con la Belt and Road: 1) l’approvvigionamento energetico e di materie prime (Asia Centrale, ma anche Africa); 2) le esigenze di riequilibrio economico interno tra zone costiere dell’est e quelle interne dell’Ovest (Xinjiang); 3) lo smaltimento di eccessi interni di capacità produttiva (acciaio).

A questi obiettivi aggiungerei: 1) la naturale esigenza di una economia che ha raggiunto i livelli e la qualità di crescita economica della Cina di cercare mercati esteri anche per i prodotti sofisticati che caratterizzano questo mutamento qualitativo (Digital Silk Road, prodotti da fonti energetiche rinnovabili); 2) la comprensibile spinta della Cina a importare sempre di più beni che non sarà profittevole produrre al suo interno; 3) la consapevolezza che la Cina, controllando il ritmo e la struttura dei suoi investimenti all’estero, in particolare nei paesi in via di sviluppo, potrà facilitare la transizione interna a un sistema economico caratterizzato da un settore industriale e a un settore dei servizi con produzioni a più elevato valore aggiunto, e sempre meno dipendente dai paesi occidentali; 4) la naturale spinta di una economia delle dimensioni e delle caratteristiche della Cina a un crescente ruolo internazionale del RMB come risultato delle crescenti transazioni commerciali e finanziarie in quella valuta; 5) la motivazione politica, sulla quale insiste il Presidente Xi Jinping, del “sogno di ringiovanimento” cinese come risultato del superamento dell’ “era dell’umiliazione dagli anni 1840 al trionfo della rivoluzione maoista.

Tutto questo implica un collegamento tra politica di espansione della dotazione infrastrutturale nei paesi della Belt and Road con una politica di influenza economica (e in vari casi anche politica) più generale su questi paesi. Questo è oggi evidente soprattutto nei confronti dei paesi asiatici, con problemi conseguenti all’indebitamento di questi paesi (anche se il Rapporto giustamente specifica che questi problemi spesso non dipendono dalla Belt and Road ed erano ad essa preesistenti).

Il Rapporto mette in evidenza le preoccupazioni commerciali che in occidente derivano da questa strategia, ma fa chiaramente capire come ad essa non si possa solo reagire con una risposta difensiva, ma con un impegno in positivo soprattutto sul piano della qualità e della tecnologia delle produzioni.

Questo è richiesto dall’ormai incontestabile fatto che, come mostra il rapporto fin dall’inizio, l’asse geo-economico del mondo si sta spostando da ovest a est con evidenti implicazioni geopolitiche.

In un recente articolo apparso sul Financial Times il 28/3/2019 dal titolo “The Asian Century about to begin” si legge che mentre nel 2000 l’Asia contava per il 35% del PIL mondiale, nel 2023 conterà per il 53%. Secondo il Fondo Monetario Internazionale già ora la Cina conta per il 18% PIL mondiale in termini di parità dei poteri d’acquisto, mentre gli USA contano per il 15%. Analisi di più lungo periodo come quelle dell’OCSE e della PriceWaterhouseCooper dicono che alla metà del secolo (sempre in termini di parità dei poteri d’acquisto) la Cina salirà al 22%, del PIL mondiale, mentre gli USA scenderanno al 12%, la UE al 9%, l’OCSE al 42%.

Gli Stati Uniti sono da tempo consapevoli di questo cambiamento; ma la loro risposta all’ascesa dell’Asia e in particolare della Cina è cambiata dalla presidenza Obama a quella Trump. Obama manteneva un atteggiamento di maggiore impegno, ma aperto alla collaborazione; Trump ha scelto la contrapposizione, ma sembra comportarsi più come un giocatore strategico che come un nemico esplicito.

L’Europa appare incerta di fronte alla nuova sfida geo-economica e geo-politica. L’Europa appare chiusa in sé stessa e divisa su troppe questioni, sostanzialmente statica contro un’Asia sempre più dinamica e impegnata in progetti di connettività, anche se con non poche tensioni tra i paesi coinvolti.

Sintomo di questa situazione di disagio europeo è l’atteggiamento di timore della UE sulla Belt and Road prevalso recentemente rispetto a quello, sempre incerto, ma aperto in una prospettiva positiva nel rapporto con la Cina che sembrava prevalente negli anni passati.

In linea di principio c’è in Europa la consapevolezza che non si può affrontare un rapporto con la Cina se non in chiave europea. Ma come mai così tanti paesi hanno in pratica deciso di intraprendere rapporti separati con la Cina?

Ci sono due motivi. Il primo deriva dalla diversità nella situazione economica all’interno della UE che ha spinto i paesi più deboli a cercare di sfruttare i possibili vantaggi e in vari casi a cercare aiuto e sostegno nella Cina. Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto mostra come vi siano ampie opportunità di aumentare scambi commerciali reciprocamente profittevoli con la Cina.

Ma più importante è il secondo motivo: una struttura istituzionale dell’Unione Europea che obiettivamente è tale per cui il rapporto tra i singoli paesi e Cina prevale nei fatti su quello tra UE e Cina. La Cina approfitta di questa situazione.

Quale dovrebbe essere allora l’atteggiamento corretto della UE nei confronti della Cina e della Belt and Road? Nel recente passato, pur tra tensioni, tra UE e Cina è prevalsa una logica di collaborazione nella convinzione di poter attirare la Cina nel modello europeo.

Prendiamo il caso delle reti mobili 5G. Sul sito della Commissione Europea dedicato al Digital Single Market in data 8 marzo 2019 si ricorda l’accordo del 2015 con impegno a reciprocità e apertura sulle reti 5G; accordo da sviluppare con la collaborazione tra “5G Infrastructure Public Private Partnership” (iniziativa congiunta di Commissione Europea e operatori europei nelle telecomunicazioni) e IMT-2020 5G Promotion Group (tra MIIT, MOST, NDRC).

Prevale invece oggi una logica di rivalità dettata dal timore dei grandi passi avanti compiuti dalla Cina. Ma si ignora un fatto importante: che nell’attuale fase della rivoluzione tecnologica e dell’Intelligenza Artificiale, dopo che le innovazioni radicali (“deep learning”) sono state fatte negli USA, in Canada e in Inghilterra, siamo in quella che è stata definita “età dell’implementazione”: e la Cina ha saputo sfruttare con successo questa fase per la capacità dei suoi imprenditori nelle innovazioni incrementali richieste; per i risultati di ricerca negli algoritmi richiesti, risultati che richiedono buona ma non eccezionale capacità; per la opportunità di creare e utilizzare i dati. In Cina ci sono quasi 5 milioni di laureati in materia scientifiche (molti dei quali specializzati negli USA); Huawei ha 80 mila ingegneri e investe $13 miliardi in ricerca all’anno.

In questa situazione richiami a questioni di sicurezza nell’utilizzo dei prodotti cinesi della rivoluzione digitale sono importanti, ma la preoccupazione principale dovrebbe essere puntare a una competizione tra capaci (alla lunga vincente per tutti) garantita da una appropriata regolazione sovranazionale.

Bisognerebbe puntare sulla rimozione delle “unfair practices” più che su una guerra commerciale che comporta sempre il rischio del protezionismo. A questo proposito l’Europa deve chiarirsi sul rapporto tra stato e mercato in settori strategici. E’ vero che la Cina aiuta in modo consistente i settori della rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale; ma in settori dove ci sono così tante esternalità positive l’intervento dello Stato ha un suo ruolo che non può essere disconosciuto.

Un editoriale del Financial Times del 9 aprile giustamente invita l’UE a riflettere sul perché le sue istituzioni economiche e finanziarie sono meno efficaci nel generare i necessari investimenti e progresso tecnologico rispetto alle controparti cinesi, anche tenendo conto dei sussidi statali in Cina.

Secondo quell’articolo: la ricerca in Europa è troppo frammentata; istituzioni come la Banca Europea degli Investimenti e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo sono troppo piccole per competere con i loro equivalenti cinesi; l’UE si è troppo preoccupata di ridurre i deficit, compresi paesi come la Germania che hanno un grande spazio per investire; l’UE deve imparare a distinguere gli elementi che possono costituire una vera minaccia alla sicurezza nazionale da quelli che in realtà rivelano la debolezza dell’UE nel costruire le basi per un moderna economia a crescita elevata.

C’è poi da rispondere a una domanda sotto il profilo geo-politico: l’UE vuole veramente che continui il processo di attrazione verso la Cina di Russia, paesi dei Balcani, Turchia e Iran, come dimostrano le adesioni alla Eurasian Economic Union (fondata nel 2015 da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan e Kirghizistan) e alla Shanghai Cooperation Organization (fondata nel 2001 da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Usbekistan, e alla quale si sono aggiunti come membri Pakistan, e India, come stati osservatori Mongolia, Bielorussia, Afghanistan e Iran, come “partners in dialogo” Azerbaijan, Turchia, Armenia, Sri Lanka, Cambogia e Nepal)

Bisognerebbe poi forse riflettere al fatto che Cina e Europa sono entrambe piene di problemi: per l’Europa, la difficoltà nella crescita e l’esigenza di un maggiore equilibrio tra le sue varie parti; per la Cina, una serie di squilibri economici, sociali e ambientali che vanno urgentemente risolti.

Forse Europa e Cina dovrebbero interagire per risolverli, tenendo anche conto che per i suoi problemi sociali e ambientali la Cina guarda più al modello europeo che a quello degli Stati Uniti; ma per affrontare altri importanti problemi globali (come gli effetti sociali della rivoluzione digitale, e i problemi ambientali globali) anche gli Stati Uniti andrebbero coinvolti.

Le prospettive non sono ottimistiche; la sfida di un rapporto costruttivo con la Cina è obiettivamente molto difficile; ma non c’è dubbio che sia necessario accoglierla se si vogliono evitare mali peggiori a tutta l’umanità.