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Una economia da rifondare

di - 29 Aprile 2019
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L’economia politica non è affatto la “scienza triste” di cui disse, da profano, Carlyle. Pure, facendo mie le parole di un illustre storico linceo, Gino Luzzatto, l’Italia vive gli “anni più neri” della sua economia. Dal tempo di Cavour non era mai accaduto che lungo due decenni il Paese non progredisse. Pro capite il reddito medio attuale non supera il livello del 1999. Il Pil è quello del 2004. Il peso dell’Italia nella produzione mondiale è scemato all’1,8% (era il doppio prima dello shock petrolifero del 1973, era come quello attuale della Germania). Rispetto ai picchi ciclici già non esaltanti del 2007, attraverso tre recessioni, sono andati cumulativamente perduti mille miliardi di reddito nazionale, il Pil è oggi inferiore del 5%, la produzione industriale del 19%, gli investimenti del 20%, i consumi del 3%, gli occupati di 250mila unità.

Il disastro ha avuto luogo sebbene, grazie a Cina e India, nel mondo il prodotto sia cresciuto quasi del 4% l’anno e il commercio del 5%. Ha avuto luogo sebbene l’euro abbia assicurato all’Europa stabilità dei prezzi, bassi tassi dell’interesse, intensificati scambi di merci, lavoro, capitali. Ha avuto luogo sebbene nella crisi internazionale innescata dal mancato salvataggio di Lehman Brothers nel settembre 2008 – errore sesquipedale! – il sistema bancario italiano abbia mantenuto la sua solidità, dal dopoguerra affidata alla supervisione di una Banca d’Italia autonoma, dalla politica e dal mondo degli affari, e che tale deve restare.

I tre motori della crescita di un’economia di mercato capitalistica si sono contemporaneamente spenti: l’accumulazione in macchinari, impianti, mezzi di trasporto, scesa dell’11% dal 2007; l’innovazione, con la produttività tuttora sui valori del 1995 e l’apporto pressochè nullo della tecnologia ICT e 4.0; la domanda globale, confermata fiacca da un tasso di disoccupazione a due cifre e dopo il 2013 da un avanzo di bilancia dei pagamenti dovuto alla carenza dell’ investimento rispetto al risparmio, non alla competitività.

La condizione desolante dell’economia si ripercuote sulla società civile. Lo scadimento del benessere materiale e l’incertezza sul suo futuro hanno fornito alimento ai rigurgiti di nazionalismo, demagogia, razzismo, alla bassa partecipazione al voto, al distacco dei cittadini dalle istituzioni democratiche.

I dramatis personae sono due: i governi e le imprese.

L’economia italiana va letteralmente rifondata. Chi governa non ha rimosso gli ostacoli alla crescita. Le imprese hanno deluso. Occorre un programma pluriennale, articolato almeno su sette fronti, che promuova l’investimento, la produttività, la domanda globale. Occorre che le imprese riallochino le risorse e innovino.

1) Il debito pubblico. Frena la crescita perché innalza il costo e il rischio dell’investire. Il disavanzo, che alimenta il debito, va azzerato, come prescrive il nuovo 81 della Costituzione. Non siamo lontani. Al netto del ciclo, il disavanzo si situa sul 2% del Pil, circa 35 miliardi. Si possono ridurre le spese per forniture e appalti esosi; i contributi inutili; trasferimenti vari. L’insieme di queste uscite sfiora i 250 miliardi (15% del Pil). L’oscena evasione fiscale, bubbone da incidere, è stimata fino a 130/150 miliardi (altro 9% del Pil). In totale assommano a 400 i miliardi su cui, sussistendo la volontà politica, si può intervenire, col favore della minore spesa per interessi legata al calo del debito che i mercati finanziari attendono da lustri.

2) Gli investimenti pubblici. Sono stati amputati: da 54 miliardi nel 2009 a meno di 40. Ne ha risentito la domanda globale. Se tornassero ad aumentare, anche se finanziati con risparmi di bilancio, il loro effetto moltiplicativo – 1,5, che sale a 1,9 nel Mezzogiorno – sarebbe doppio dell’effetto di segno contrario delle minori spese correnti e della minore evasione. Del loro taglio ha risentito la produttività, che richiede infrastrutture moderne, fisiche e immateriali. Ciò che è più grave, ne ha risentito la messa in sicurezza del fragile territorio del Bel Paese, con i beni e la stessa incolumità dei cittadini esposti ad alluvioni, valanghe, frane, terremoti, crolli di opere pubbliche. E’ inaccettabile la excusatio governativa secondo cui gli investimenti sono inattuabili per carenze di personale tecnico o, peggio, per impedimenti di natura giuridico-amministrativa (Titolo V della Costituzione, rapporti Stato-enti locali, Conferenze di Servizi, Codice degli Appalti, rischi di corruzione).  Era, è, dovere di chi governa rimuovere tali ostacoli. Gli investimenti pubblici vanno al più presto rilanciati. Programmati secondo priorità devono costituire il perno del ritorno alla crescita. Quanto alle risorse, sono essenziali i risparmi di bilancio appena evocati. Inoltre, come Keynes ha chiarito, in ampia misura gli investimenti si autofinanziano, perché generano reddito e gettito fiscale.

3) Il diritto dell’economia. L’inadeguatezza dell’attuale “esperienza giuridica” – nel senso dei lincei Giuseppe Capograssi e Riccardo Orestano – rispetto alle esigenze dell’economia è denunciata dalle imprese nazionali e dagli investitori esteri. La confermano gli organismi internazionali e le analisi econometriche. In un sistema di aziende piccolo-medie il diritto societario è chiamato a valorizzare la funzione imprenditoriale, l’exit più che la voice dei soci, la trasformazione della veste giuridica aziendale, la quotazione in borsa e non l’azienda famigliare. Il diritto della crisi dell’impresa è chiamato a incentivare l’allarme precoce sulle difficoltà aziendali, per prevenire l’insolvenza e i tempi biblici delle procedure concorsuali. Il processo civile è chiamato a dare soluzione rapida e prevedibile alla lite che coinvolga l’impresa. Nel diritto amministrativo, segnatamente in materia di appalti e forniture, è urgente riaccentrare le decisioni e restituire discrezionalità e fiducia ai decisori corretti e competenti. Il diritto della concorrenza, oltre alla competizione statica attraverso il prezzo, può ulteriormente promuovere la competizione dinamica esercitata dalle imprese capaci d’innovazione. Come insegna Schumpeter, gli extra-profitti di quelle imprese, se temporanei, non vanno confusi con le rendite di monopolio.

4) La concorrenza. E’ la forza che costringe le imprese all’efficienza: la “minaccia”, secondo Maffeo Pantaleoni, il “principe” degli economisti italiani di allora, anch’egli linceo. Il profitto “facile”, di fonte esterna, attenua l’impegno produttivo. Al di là delle forme di mercato, che spetta all’antitrust rendere concorrenziali, va evitato che le imprese attendano il profitto da bassi salari, cambio sottovalutato, aiuti statali, lassismo della spesa pubblica e del fisco. Negli ultimi venticinque anni una siffatta attesa ha influito non poco sulla mancata ricerca della produttività.

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