Aiutare l’Italia. Per la stabilità delle norme processuali

1.- Il Governo attuale ha subito messo in cantiere modifiche delle leggi che regolano il processo civile e quello penale. Per il rito civile sono state diffusi dal Ministero della giustizia schemi di disposizioni legislative “per l’efficienza del processo civile”. Per il rito penale la legge 9 gennaio 2019 n.3 ha differito al 1 gennaio 2020 l’entrata in vigore delle innovazioni da essa stessa apportate alla disciplina della prescrizione del reato, nell’intento – espressamente dichiarato da componenti del Governo e della maggioranza – di modificare il codice di procedura penale in modo da abbreviare i tempi del processo penale, nella consapevolezza che le nuove norme sulla prescrizione ignorano l’interesse alla durata ragionevole del processo, interesse tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo in capo sia alla collettività che alle parti processuali.
Dum anima est, spes est (finché c’è vita c’è speranza), diceva Cicerone. Ma l’aspettativa di un miglioramento nel funzionamento dei nostri processi civile e penale non può ignorare le tante leggi di modifica intervenute negli anni recenti sui relativi codici e gli effetti di instabilità ed incertezza da esse prodotti, anche quando le modifiche hanno conseguito risultati positivi (ma ciò non è avvenuto in tutti i casi, tanto che, alcune volte, si è tornati indietro). Si ha l’impressione che la frequente e non sempre meditata modifica delle regole processuali sia, ormai, una concausa dell’insoddisfacente funzionamento dei processi da esse disciplinati.
Una verifica di questa ipotesi, difficilmente ottenibile in via generale, può ravvisarsi nel giudizio civile di cassazione. La normativa codicistica relativa a questo giudizio ha subito, nel secolo attuale, ben cinque significative modifiche (negli anni 2001, 2006, 2009, 2012, 2016), oltre alla introduzione, nella legge 12 novembre 2011 n.185 (art.26), della istanza di prelievo dei ricorsi (poco dopo soppressa dal legislatore, ma idonea a rallentare sensibilmente, per un certo periodo, i giudizi), senza rilevanti miglioramenti né dei tempi del processo di cassazione (di poco inferiori ai tre anni, considerandosi anche l’attività meno lunga della sesta sezione), e quindi ben al di là dell’anno considerato ex lege durata ragionevole, né della qualità del giudizio, in ordine al quale si ritiene tuttora “ineludibile la necessità di intervenire legislativamente sulla Cassazione civile” (PROTO PISANI, in Foro it., 2018, V, c.264; l’opinione dell’A. non è isolata nella dottrina e nel foro).
Il fatto è che il processo ha bisogno di regole certe e stabili, onde la modifica delle regole processuali, anche quando ha un contenuto positivo, presenta sempre il “costo” di incidere negativamente su tale certezza e stabilità, perché in via immediata pone problemi di interpretazione delle nuove disposizioni (tanto più frequenti quanto più è imperfetta la tecnica legislativa) e, quando le norme richiedono modifiche di ordine organizzativo, di loro applicazione. Occorre, quindi, che l’effetto finale della modifica processuale sia così utile da sopravanzare le immediate difficoltà della innovazione.
Per il politico che vuole dare prova del suo attivismo è molto facile e conveniente elaborare proposte di modifica delle regole processuali. La formulazione di proposte legislative è quanto mai agevole, poiché è sufficiente scrivere testi normativi che recepiscano alcune delle tante critiche suscitate dal cattivo funzionamento dei processi civile e penali (ma senza che, di regola, vengano considerati gli aspetti negativi della modifica proposta). L’innovazione, inoltre, è, per lo più, idonea a creare speranze in un futuro miglioramento e quindi a contrastare, in qualche misura, lo scoramento che negli operatori deriva dal lavorare e vivere un processo in crisi. L’elaborazione di dette proposte può anche considerarsi un comodo “alibi” per non affrontare i più complessi problemi organizzativi, le cui soluzioni producono effetti che non sono immediatamente percepibili e presentano, perciò, una minore attrattiva politica.

2.- La considerazione fondamentale, quando ci si pone di fronte al cattivo funzionamento del processo, è che esso non è attribuibile, in via principale, alle leggi processuali. Innanzitutto, alle normative dei due codici di rito non è imputabile quello che, a mio avviso, è il più evidente difetto del processo: la sua lunghissima durata, che, nella entità media, è superiore a quella rilevata in quasi tutti gli altri quarantasei Stati facenti parte del Consiglio di Europa.
Anche qui può aversi un riscontro nel giudizio civile di cassazione. Le attività previste per lo svolgimento di tale giudizio sono semplicissime: alla presentazione del ricorso della parte interessata, dopo il decorso necessario del tempo (non lungo) richiesto per la difesa delle altre parti, segue, senza alcun atto istruttorio, la decisione collegiale. I tempi tecnici per la decisione del ricorso sono nettamente inferiori alla durata ragionevole di un anno. Se la durata media è (come si è detto) di circa tre anni, ciò non è dovuto in alcun modo alle attuali regole processuali.
La causa principale della lunga durata del giudizio civile di cassazione, come in generale dell’intero processo civile (e anche di quello penale, che in media rispetta i tempi ragionevoli solo in cassazione), è molto semplice: la sproporzione tra risorse dell’apparato giudiziario (numero dei giudici e del personale ausiliario; mezzi, mobili ed immobili, a loro disposizione) e numero dei processi da trattare e decidere.
Il rimedio passa per la diminuzione di tale sproporzione attraverso l’aumento delle risorse (e, in particolare, del numero dei giudici) e la riduzione del numero dei processi. Il primo tipo di intervento pone evidenti problemi di maggiori spese per le finanze pubbliche. Il secondo tipo di intervento incontra difficoltà nelle caratteristiche della società attuale. Per quanto attiene al processo civile, siamo in presenza di un aumento dei diritti e di un ampliamento delle esigenze di tutela giuridica. Sul numero dei processi penali incide il rapido accrescimento legislativo delle fattispecie penali, unito alla obbligatorietà dell’azione penale (art.112 Cost.). I rimedi possibili consistono: nelle alternative al processo civile, rispettose comunque della garanzia costituzionale dell’art.24 della Costituzione, e nella riduzione delle previsioni normative di reati.
Effetti positivi possono derivare anche, se non soprattutto, da un migliore impiego delle risorse dell’apparato giudiziario, e quindi da interventi ordinamentali ed organizzativi. Non può escludersi che questi interventi richiedano anche qualche limitata modifica delle norme processuali. Non è questa la sede per un approfondimento di questo aspetto del funzionamento del processo. Certo è, però, che il passaggio dalla attuale lunga e patologica durata media del processo a tempi qualificati ragionevoli non può ottenersi con modifiche ampie e frequenti delle normative processuali, destinate ad aumentare le difficoltà degli operatori e quindi a rendere, almeno in via immediata, più lento il processo che si vuole abbreviare.3.- Alla legislazione processuale non è imputabile neanche quello che è, a mio avviso, l’altro principale difetto dell’attuale processo (civile e penale): l’incertezza dell’esito dei giudizi. Il discorso su questo secondo grave difetto del processo è molto più complesso di quello relativo alla lunga durata dei giudizi. Se ne può avere una immediata e facile percezione se si consulta il più recente fascicolo (n.4/2018) della rivista trimestrale (on line) Questione Giustizia (accessibile gratuitamente) dedicato in ampia parte (oltre 200 pagine), e con molti saggi, al tema: Una giustizia (im)prevedibile? (sono presi in considerazione ambedue i tipi di processi).
Nell’epoca attuale diversi fattori incidono negativamente sulla prevedibilità dell’esito dei giudizi. Alcuni sono fisiologici: l’incidenza delle sentenze della Corte costituzionale, non sempre chiare nei loro effetti sull’ordinamento, e, recentemente e in misura progressivamente maggiore, l’applicazione degli ordinamenti europei (Unione europea e Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e le pronunzie delle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo. Altri sono patologici: il rapido mutare della legislazione e la sua scarsa qualità tecnica. Qui se ne sono indicati solo alcuni. La conseguenza di questi e di altri fattori è che si è ampiamente accresciuto lo spazio lasciato alla interpretazione e quindi alla attività decisoria del giudice, la cui soggezione alla legge diventa spesso “discrezionalità” interpretativa, anche sulla spinta degli attuali orientamenti culturali sulla nozione di diritto, il cui antipositivismo è da condividersi nella misura in cui ha determinato il superamento nella prassi giudiziaria di una visione troppo formalistica del diritto.
Una società ordinata ha bisogno essenziale di prevedibilità della soluzione dei conflitti che in essa insorgono e delle condotte che determineranno l’applicazione di sanzioni alle condotte dei consociati. Non si auspica, ovviamente, una giurisprudenza cristallizzata ed impermeabile alla evoluzione della società. Possono esservi ragioni che impongono, in alcuni casi, il mutamento di un orientamento interpretativo, ma il cambiamento deve essere ordinato e non episodico e quindi deve condurre a nuovi assetti giurisprudenziali stabili. Come ha più volte affermato la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo (v., ex multis, 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo), se è connaturale ad ogni sistema giudiziario l’esistenza di contrasti giurisprudenziali nell’ambito dei giudici di merito, ciò non è ammesso all’interno di una giurisdizione suprema (da noi, la Corte di cassazione), il cui ruolo è quello di risolvere tali contrasti. Se orientamenti divergenti si sviluppano e coesistono all’interno della giurisdizione suprema, ciò viola il principio della sicurezza giuridica e riduce la fiducia del pubblico nell’autorità giudiziaria, i quali – principio e fiducia – rientrano fra le componenti fondamentali dello Stato di diritto e rendono non equo il processo in cui sia assente un meccanismo idoneo ad assicurare, all’interno della Corte suprema, l’uniformità delle decisioni.
Così si tocca il tema del funzionamento della Corte di cassazione, che però non può essere qui affrontato. Ci si limita soltanto a segnalare l’importanza della recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 27 febbraio 2019, che, in tema di misure di prevenzione decise dall’autorità giudiziaria (ritenute dalla Corte non comprese nella materia penale), ha affermato l’illegittimità costituzionale della loro applicabilità ai soggetti “dediti a traffici delittuosi” per l’assenza di precisione di tale previsione normativa, interpretata dalla Cassazione con pronunzie difformi e a contenuto generico (né la Corte cost. ha ritenuto di darne una sua interpretazione), mentre ha giudicato legittima la loro applicabilità ai soggetti “che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, ritenendo che tale previsione, anche essa piuttosto generica, avesse assunto “contorni sufficientemente precisi” a seguito della interpretazione uniforme della Cassazione. Da siffatto orientamento della Corte cost., che ha rinunziato ad emanare una sentenza interpretativa di rigetto della disposizione dichiarata illegittima, limitandosi a constatare gli effetti negativi del contrasto interpretativo interno al giudice di legittimità, deriva una maggiore responsabilità della Cassazione nell’esercitare effettivamente e costantemente la sua funzione di nomofilachia. Il criterio seguito dalla Corte nel valutare la legittimità costituzionale delle norme in tema di misure di prevenzione può essere, infatti, generalizzato ad ogni enunciato legislativo sulla cui interpretazione permanga un contrasto radicale all’interno della Cassazione, che tragga perciò da quell’identico enunciato norme di contenuto diverso o addirittura opposto.
Da quanto si è finora detto deriva che la situazione di ampia imprevedibilità delle decisioni giudiziarie non solo non può trarre giovamento dalle frequenti modifiche delle leggi processuali, ma, al contrario, è destinata ad essere da esse aggravata, perché l’aggiunta di nuove disposizioni sul rito da interpretare (tenuto anche conto della imperfetta tecnica normativa riscontrabile normalmente nelle nuove leggi) accrescerà la detta imprevedibilità, con il rischio di pervenire a definizioni dei giudizi con sentenze di mero contenuto processuale, che potranno comportare ingiustizie sostanziali.

4.- In conclusione, va formulato un invito al Governo ed al legislatore a dedicare la propria attenzione ad accrescere le risorse dell’apparato giudiziario ed a migliorarne l’organizzazione, senza porre mano, per l’ennesima volta, alla c.d. riforma dei codici processuali.
7 marzo 2019

Ernesto Lupo