Aiutare l’Italia. Legge e semplificazione o semplificazione e legge?

Il tema è, paradossalmente, semplicissimo ed estremamente difficile. Che cosa vuole il legislatore? Dipende da lui? (ci si consenta questa personalizzazione delle Camere e del Governo). Una regola ideale vorrebbe che il legislatore riflettesse sul tema, portato alla sua attenzione, chiedendo anzitutto, a chi gli ha sottoposto il tema, quali ragioni, quali esigenze lo hanno spinto ad agire. A buon diritto il legislatore potrebbe contestare la necessità della legge, apparendo sufficiente un regolamento, sia per materia, sia perché già c’è una legge sul tema.
Il nostro Parlamento sembra poco sensibile a questo tema. Le leggi sono in larga misura costruite per affrontare in dettaglio ciò che, sul piano operativo, dovrebbe ricadere appieno nella competenza del Governo e dell’amministrazione, non del Parlamento. Questo fa sì che gli articoli della legge non dettino più diritto, quale, secondo la Costituzione, è il ruolo del Parlamento. Dettano disposizioni, atti autoritativi, e soprattutto di rango regolamentare in forma di legge. Ormai non di rado sembra che il ruolo regolamentare in veste di legge sia esercitato fino all’estrema misura, vale a dire come una disposizione trasferita dalla competenza dell’am-ministrazione a quella che si potrebbe quasi dire l’incompetenza del Parlamento.
Questo è un problema serissimo. Bastino poche osservazioni. La legge deve essere certa; lo è per definizione. Ma se la legge si spinge fino al dettaglio, come ormai da anni continuamente accade, succede anche, inesorabilmente, che la sua certezza si evolva in rigidità, e quindi in fonte di conflitto. Questa “procedura” giunge infatti così ad una conclusione, che non può trovare alcun giudice. Ciò che succede è presto detto: chi ha avuto la “forza” di essere promotore di una legge ad personam – perché forse sul piano amministrativo non sarebbe stato possibile raggiungere un provvedimento auspicato – innesta uno stato di disordine e di arroganza, che può avere conseguenze imprevedibili.
Merita un esempio in una situazione di ordine generale. Come tutti ben sanno, nel 1990, con la legge del 9 agosto, n. 241, vennero dettate norme in materia di procedimento amministrativo. Si è già detto che erano norme di ordine generale, che le amministrazioni avrebbero dovuto applicare per giungere ad una decisione possibilmente condivisa con i cittadini. L’art. 14 era il primo articolo del capo IV, intitolato Semplificazione dell’attività amministrativa. Nella versione originale della legge, gli articoli non avevano titolo. Questo nulla toglieva al “merito”, per così dire. In effetti, l’art. 14 statuiva:
al primo comma, che se è opportuno effettuare un esame contestuale di più interessi pubblici, l’amministrazione procedente poteva indire una conferenza di servizi;
al secondo comma, che la conferenza può essere indetta dall’amministrazione procedente che debba acquisire intese, concerti, nulla osta, assensi di altre amministrazioni;
al terzo comma disciplinava la “negligenza” amministrativa: l’amministrazione assente si ritiene che aderisca, salvo che essa comunichi il suo dissenso entro un certo termine.
Sono – erano – complessivamente 11 righe.
La l. n. 241 del 1990 ebbe una vita singolare ed in realtà paradossale. Il suo primo testo era semplice, chiaro, sintetico. Era il vero testo che avrebbe meritato un regolamento, in modo da consentire aggiornamenti, senza alterare lo spirito della legge. Non si dimentichi che, per la prima volta, la legge disciplinava i procedimenti amministrativi, non una qualsiasi forma di merito.
È indubbio che questa legge sia stata sentita appassionatamente dai legislatori succedutisi dal 1990 fino ai nostri giorni o quasi. Ci sono state circa dieci leggi, che hanno “aggiornato” via via quasi tutti gli articoli originari della legge n. 241/1990, arricchendoli di bis, ter, quater, ed oltre. Ma questa “passione” per la legge sul procedimento a tutto ha mirato, tranne che ad una sua evoluzione verso una struttura organica, aperta al contratto ed all’agilità amministrativa, attraverso, appunto, un procedimento vieppiù elastico e costruito per ottenere decisioni rapide e condivise. Gli “aggiornamenti” della l. n. 241/1990 hanno, quasi tutti, la stessa caratteristica, che diventa di volta in volta sempre più intensa, sempre più puntuale, ovvero analitica. Non si dettano più regole che devono essere osservate nella vita, quindi per un verso tendenzialmente generali ed astratte, necessariamente studiate ed applicate. In poco meno di trent’anni si è via via “smontata”, se così si può dire, la struttura portante della l. n. 241/1990, sostituita da un sistema legislativo molto complicato. Si è cercato di prevedere tutto ciò che può accadere, tagliando decisamente le competenze decisorie. Esse non sono più le amministrazioni, titolari della competenza e quindi della decisione, che devono sentire altre amministrazioni in funzione istruttoria, non decisoria. È emerso un sistema in cui tutti gli organi amministrativi, che hanno una quota di competenza, di fatto hanno un potere di veto. È evidente che questa sterminata e caotica organizzazione amministrativa rallenta, se non paralizza, qualsiasi iniziativa.
Merita avere un saggio di questa legislazione che si è voluta sovrapporre alla l. n. 241/1990. Come si è detto poc’anzi, il breve e lineare art. 14 del testo originale era assolutamente semplice. Postulava compiute e responsabili competenze amministrative. Dopo una decina di interventi sul testo originale della legge, nel 2017 vennero dettati gli artt. 14, 14 bis, 14 ter, 14 quater, 14 quinquies. Riguardano solo la conferenza di servizi.
Non ha senso esporre qui le lunghissime pagine dei cinque artt. 14. È palese un punto: la legge non attribuisce competenze o detta regole di merito. Disegna tutto quello che potrà accadere nell’ambito della conferenza dei servizi. È pressoché impossibile tracciare un sunto di queste norme di legge. È previsto che accada di tutto. Pagine e pagine prevedono che cosa possa fare l’uno o l’altro dei partecipanti.
La conclusione è univoca. Se si vuole migliorare la qualità della vita pubblica (e privata) bisogna cominciare a costruire la legge secondo criteri di semplicità.

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Il tema, di cui si è scritto nelle brevi pagine che precedono, ha una caratteristica singolare, che non dipende dall’autore: nasconde qualche cosa, prima facie apparentemente mostrando tutto ciò che, per così dire, si dovrebbe vedere. L’apparenza è fortissima. La legge vuole sempre regolare, organizzare, disciplinare, forse anche creare qualche cosa. Il legislatore sembra avventarsi sul tema. Questo “attacco” parrebbe creativo. Detta minuziosamente che cosa si deve fare, come, dove, quando. Tutto appare già definito.
Lo è? La risposta non può che essere empirica. Così comincia un paragrafo qualsiasi di un articolo di legge, parimenti qualsiasi: “Scaduto il termine di cui al comma 2, lettera c) l’ammini-strazione procedente adotta, entro cinque giorni lavorativi, la determinazione motivata di conclusione positiva della conferenza con gli effetti dell’art. 14 quater qualora abbia acquisito esclusivamente atti di assenso non condizionato, anche implicito …”
Ma chi è, che cosa è, questa “amministrazione procedente”? Chi – quale amministrazione – procede verso che cosa? come, perché? È o non è l’amministrazione decidente, che per decidere deve ovviamente procedere?
Chi osservi la struttura delle leggi, approvate dal Parlamento più o meno nell’ultima decina di anni, deve prendere atto di un autentico mutamento strutturale della legislazione. Non è una legislazione che, come un tempo si poteva dire – e si diceva -, tendeva ad essere generale ed astratta. La legislazione di questi tempi non lontani doveva essere osservata, studiata, attuata, per controllare le forze e le competenze delle singole amministrazioni. Tutti conoscevano, stimavano ed eventualmente criticavano gli uffici delle amministrazioni. Questi uffici erano in grado di consentire a Ministeri, Regioni, Comuni e altri enti pubblici la realizzazione di qualsiasi iniziativa che avesse uno spazio nella legge. In altri termini: tutti gli enti pubblici avevano uffici in grado di adempiere i compiti loro affidati: ovviamente diversissimi, sia per l’enti-tà dell’amministrazione, sia per i compiti attribuiti. I tecnici, se non potevano progettare e realizzare opere, certamente erano autorizzati a seguirne la costruzione, il restauro, pronto per il collaudo.In sintesi: è fuori di ogni dubbio che il personale delle amministrazioni avesse la preparazione, dal minimo all’alto e altissimo rango, per realizzare ciò che la legge consentiva o prescriveva di fare. Questo aveva un significato preciso. Gli enti pubblici, dalla massima parte delle amministrazioni dello Stato ai minimi comuni, per non parlare delle regioni, delle grandi città, degli enti pubblici in generale, avevano di fatto una precisa funzione politica, che si legava ai partiti politici. Si trattava di strutturare, arricchire città, enti pubblici, campagne, laghi e mari, per non parlare di strade e ferrovie, seguendo le regole dettate dalle leggi.
Le prove di questa affermazione sono nella nostra storia. Abbiamo avuto leggi eccellenti che indicavano percorsi che si sarebbero potuti seguire; abbiamo avuto e ancor abbiamo personale tecnico e amministrativo capace di realizzare opere, assetti, iniziative secondo le capacità, con gli strumenti finanziari e organizzativi. Questo nasceva dalla volontà politica di una costante proiezione del pubblico verso il futuro: naturalmente nel rispetto e con il sostegno morale, si vorrebbe dire, di una legislazione che non c’è più.
Tutto ciò accade perché la legge è tendenzialmente concepita con un’altra struttura, profondamente diversa. Si è sempre detto, ed anche in gran parte mantenuto, che la struttura propria della legge è costituita dall’astrattezza e dalla generalità. Senza che questo abbia sollevato problemi di legittimità costituzionale, il legislatore tende a non valersi più del modello di legge portatrice di norme generali ed astratte, che devono essere rispettate dal soggetto pubblico “nel corso della vita” della legge de qua. Ciò che oggi rileva è l’intero dettaglio operativo di tutto ciò che si deve fare per ottenere un certo risultato predeterminato dalla legge. La ragione è univoca: le leggi generali ed astratte impongono una conoscenza onnicomprensiva del sistema. La legge, non generale ed astratta, ma aperta ad un preciso orientamento, deve necessariamente essere scritta nel modo più chiaro e immodificabile.
In altri termini: per il tema che ne riguarda, fino a 15, forse anche 20 anni or sono, le leggi definivano essenzialmente le procedure di comportamento degli enti pubblici, inserendo gli enti pubblici nel sistema giuridico pubblico, così diverso dal sistema giuridico privato. Erano in gioco le pubbliche amministrazioni in tutte le loro rilevantissime articolazioni. Politici, investiti di ruoli operativi, come sindaci e ministri, per fare un esempio, erano responsabili di quello che si faceva. È superfluo dire che questi “risultati” riguardavano l’intero spettro del fare e del pensare.
Tutto ciò – che era una grande ricchezza culturale e professionale tende a non esistere più. Per ragioni complesse, finanziarie, politiche e formalmente organizzative, di fatto si è voluto che il sistema, secondo cui le amministrazioni procedevano, muovendo in autonomia e in piena responsabilità – salve le prescrizioni perentorie, venisse cancellato. Ma il paradosso è immenso. Le amministrazioni non fanno più ciò che il Governo, i Ministri, il Sindaci, i Consigli comunali potevano decidere di fare, nel rispetto delle loro strutture organizzative disposte dalla legge. Oggi la legge detta ciò che si deve fare, dettando le regole di comportamento, nella misura più stretta. In altri termini, la legge dispone come, secondo quali interminabili regole, ci si deve comportare, sostituendosi al potere discrezionale ed al suo esercizio.
Nell’aprile 2017 venne dettata l’ennesima materia in materia di procedimento amministrativo, inserita nella straordinaria legge sul procedimento, la n. 241 del 1990. Come si è detto poc’anzi, l’art. 14 era di poche righe, chiare, da definire con regolamento per l’impiego. Oggi si prescrive semplicemente tutto il pensabile (ed anche di più). Ogni possibilità, ogni situazione, ogni incrocio è scritto, con ogni possibile puntualità. La formula legale è la “conferenza di servizi”. Le 15 righe del 1990 per l’art. 14 sono diventate 7 fitte pagine nell’aprile 2017. In esse si dice in mille modi come “l’amministrazione procedente” deve comportarsi nell’interminabile dialogo che si svolge tra tutti coloro che, per una ragione o un’altra, hanno il diritto di partecipare.
Duole dire che la lettura di queste sette pagine è difficilissima, come difficilissima è una conclusione della “Conferenza di servizi”.

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Quale conclusione? È chiaro che esprimere un’opinione è difficilissimo.
Un punto è certo: le amministrazioni fanno solo quello che la legge dispone. Ma questo vincolo ha un significato molto preciso. La discrezionalità tende a scomparire, sostituita da una legge che detta ciò che si deve fare, disegnando il percorso che fino a pochi anni fa sarebbe stato l’esercizio della discrezionalità con la responsabilità del decisore.
Un altro punto sembra altrettanto certo: non è concepibile che tutti coloro che partecipano alla conferenza dei servizi abbiano, di fatto, un potere decisorio. Certo non tutti i partecipanti hanno questo potere. Ma è certo che se qualcuno, dotato di un certo “peso”, intende bloccare la conferenza, è certo che ci riesce. L’esperienza mostra che l’opinione contraria di un’amministrazione – ovvero di un soggetto pubblico – può paralizzare la conferenza. Sembra indispensabile che in qualche modo si definiscano i soggetti che hanno un vero potere.
Con la legislazione di oggi, tutto ciò è cambiato, probabilmente per due fattori convergenti. Il primo è quello di cui sempre si parla: la finanza. Esclusi gli interventi di grande peso – che richiedono progettazioni e competizioni concorrenziali di ogni specie – si è data vita ad una nuova forma di legislatura, che ha come parametro di riferimento la predefinizione ex lege di ciò che dovrà essere fatto, in qualsiasi ambito: quindi con una spesa predeterminata.
La legislazione di oggi è tendenzialmente non difficile, ma complessa, con una caratteristica molto rilevante: la legge detta regole operative, vale a dire norme che possono essere osservate e attuate – eseguite – da tutte le amministrazioni. Questo non accadeva fino ad una decina di anni or sono. La legge aveva sempre destinatari precisi: erano le amministrazioni dotate di strutture in grado di eseguire ciò che la legge – il Parlamento, per lo Stato – aveva statuito.

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È giunto il momento di terminare. Il fattore forse più complesso e meno facile da decifrare il procedimento decisionale. Buona regola vorrebbe che, per qualsiasi intervento – fonte tipica di spesa – il titolare o i titolari della materia de qua, debbano acquisire valutazioni e opinioni, e quindi decidere. Se qualcuno dissente, gli elettori si esprimeranno a tempo debito.
Un altro punto sembra altrettanto certo, ma inaccettabile: non è concepibile che tutti coloro che partecipano alla conferenza di servizi abbiano potere decisorio. Certo non tutti i partecipanti hanno questo potere. Ma se qualcuno, dotato di un certo “peso”, intende bloccare la conferenza, è certo che ci riesce. L’esperienza mostra che l’opinione contraria di un’ammini-strazione ovvero di un soggetto pubblico – può paralizzare la conferenza. Sembra indispensabile che in qualche modo si definiscano i soggetti che hanno un vero potere.