Pianificazione urbanistica e progettazione delle opere pubbliche nell’emergenza*

1. La prima questione che il tema della relazione propone è la seguente: c’è davvero differenza nel nostro Paese tra situazioni ordinarie e situazioni d’emergenza, nella realtà delle condizioni dell’operare? In particolar modo mi riferisco all’attività di progettazione, che viene quasi sempre sviluppata in situazioni di eccezionalità, spesso rappresentate dal rischio della perdita di un finanziamento o di dover cogliere qualche finestra di opportunità ammnistrativa per una più facile procedura di approvazione dei progetti.
Oppure, altra circostanza, più banale e frequente, solo perché si è impiegato così tanto tempo per decidere di fare o far fare un progetto che si è consumato anche il tempo per progettare.
Il titolo della relazione può essere anche così declinato: semplificare senza incorrere nel rischio del riduttivismo.
Nel titolo urbanistica ed opere pubbliche sono tenute insieme; non per amore di complessità, ma per rispetto della logica del processo decisionale pubblico.
So bene che facendo questa affermazione rischio di sembrare passatista: oramai è il piano che si conforma all’opera e non il contrario; così come era e così è ancora scritto nella legislazione vigente, semplificazioni più o meno vere a parte: varie leggi provvedimento, tra cui la “legge Merloni” e la “legge obiettivo”, e non esclusa quella per l’espropriazione per pubblica utilità, quasi disegnano una seconda legislazione rispetto a quella della gerarchia piano/progetto dell’opera pubblica.
Il paradosso è rappresentato dal fatto che nella stessa legislazione i due approcci sono compresenti non come procedure diverse – ordinaria, quella del piano che precede il progetto dell’opera; speciale, quella che di fatto subordina il piano al progetto dell’opera -, bensì sostanzialmente come ordinariamente alternative. La legislazione sulla «localizzazione», quasi dimensione autonoma, ha determinato una profonda separatezza ed invertito la gerarchia.
Si è ritenuto che così facendo si semplificasse il processo decisionale.
Ma queste semplificazioni ed altre – anche solo annunciate a volte –, sono il prodotto del riduttivismo.
Come noto la riduzione (scientifica) è attività molto molto difficile: occorre scienza e tanta sapienza.
Tenere insieme urbanistica ed opere pubbliche significa rivendicare la logica generale e la logica puntuale della decisione, in modo che non vengano compresse o esaltate. Anche nelle decisioni relative alle opere puntuali c’è necessità di visione generale. Che è ancora maggiore in quelle che si definiscono di tipo “lineare” e/o a “rete”.

2. Si può fare ciò? La mia esperienza di ricerca, professionale e di gestione di organismi pubblici mi porta a dire che si può, ma anche che si deve volere, avendone la capacità ed essendoci le condizioni.
Voglio ricordare tre casi di decisione su progetti di opere nei quali ho potuto constatare ciò, ed una esperienza di gestione di un ente pubblico.

1° caso: La decisione sulla strada del porto di Spezia (1987/88)
Si trattava di decidere, avendo avuto tre mesi a disposizione, tra tracciati alternativi e tipologie di strada – raso campagna, sopraelevata, mista, con percorso interno alla città -, per servire il porto della Spezia, in particolare il molo Fornelli, creando un collegamento dedicato con l’autostrada A12.
Ricordo che il rischio di perdere i finanziamenti mi fu alleato: giocai a “stressare” il processo decisionale, fintanto che non calai il «jolly»: una soluzione ancora non compresa nel «set» delle alternative in discussione. Quella al di sotto della banchina portuale, con riduzione della stessa e ad un tempo anticipatrice del suo ampliamento, così come l’aveva disegnato il Piano Regolatore Portuale allora vigente.
Mi ispirò la visione generale di ordine urbanistico: la salvaguardia di due piccoli quartieri e il mantenimento di attività di maricoltura e portualità turistica che si svolgevano nello specchio d’acqua che sarebbe stato interessato dal tunnel sottostante la banchina portuale sulla quale correvano i binari ferroviari a servizio del porto.
Le condizioni erano eccezionali: la paura di perdere i finanziamenti, la necessità di riaccreditare le pubbliche amministrazioni locali che si erano contrapposte nelle soluzioni ed avevano perso di credibilità.
La Provincia della Spezia sponsorizzava una soluzione basata su un tunnel subalveo. Il Comune, sia una soluzione a raso campagna che in sopraelevata, a più livelli. Il Ministro dei lavori pubblici e delle marina mercantile che molto si era speso a favore della soluzione subalvea, ritenuta ottima nella situazione di contrapposizione sociopolitica che si era determinata, ma assolutamente inappropriata nel caso (poco efficiente, abbastanza più costosa delle altre). Il piano urbanistico della città e del porto concordavano per una soluzione a raso, assolutamente avversata dai comitati di cittadini e da una parte di operatori economici (commercianti, pescatori e operatori del turismo nautico).
Occorreva armonizzare problematiche funzionali, ferroviarie, portuali, demaniali e sociali, nonché urbanistiche.
Come definire il caso? Un esempio di partecipazione ed integrazione. L’esercizio decisionale fu molto partecipato, soprattutto a livello di “pubblico”: comitati di cittadini, rappresentanti delle porzioni di città più direttamente interessate ed operatori economici, marittimi, pescatori, commercianti, con visioni assolutamente contrapposte.

2° caso: La giornata mondiale della gioventù del 2000 a Roma
Il ritardo accumulato nella preparazione dell’evento era tanto: la giornata mondiale della Gioventù del 2000 si avvicinava, e non era stato ancora definito il quadro delle opere, numerose e variegate che avrebbero reso più funzionale e sicuro lo svolgimento della giornata. Si stimava che 2 milioni di persone, avrebbero partecipato all’evento.
Fui chiamato a disegnare la strategia. Proposi di operare come se si trattasse di un unico programma, riportando le diverse opere, comprese quelle a-spaziali – di ordine sostanzialmente organizzativo/gestionale – a coerenza esterna con le altre pianificazioni, in essere, in itinere e programmate, a coerenza interna, cioè fra le opere previste per l’evento.
I progetti delle opere furono rapidamente rimodulati perché fossero coerenti e, come tali, inscrivibili in un programma (integrato). Come tale da sottoporre a valutazione ambientale strategica anche se la procedure di VAS non era ancora stata recepita nell’ordinamento italiano.
Se ne anticipò l’applicazione, anche tramite avviso sulla stampa e la raccolta di osservazioni. Questa attività la svolse il competente assessorato della Regione Lazio. L’idea fu quella di una “pseudo –VAS”, integrativa di separati percorsi di valutazione su singole opere.

* Intervento al convegno “Opere pubbliche ed emergenze: celerità e legalità”, organizzato dall’ “Associazione Amministrare Giustizia”, Genova, 30 novembre – 01 dicembre 2018.

In questo caso si può parlare di complessificazione ed anticipazione nell’applicazione delle procedure approvative. Più correttamente, di espressione di pareri, nel caso di compatibilità ambientale.
Dopo l’approvazione dell’intero programma, i singoli progetti di opere sono stati tecnicamente sviluppati ed oggetto di appalto separatamente.
A tenerli uniti nella fase di attuazione fu la struttura organizzativa ad hoc che avrebbe gestito l’evento, di grande complessità, in accordo con il Vaticano, soprattutto per quanto riguardava la sicurezza dei partecipanti, in primis quella del Papa, ovviamente.
Con riferimento alle riflessioni che si stanno sviluppando fra gli operatori del settore ed amministrativisti sulla natura e il ruolo, marginale, che i servizi ed i relativi appalti hanno anche nel vigente Codice dei Contratti, questa esperienza dimostra l’esigenza di un nuovo approccio in materia di appalti, superando quanto fissano le direttive comunitarie relativamente agli appalti misti.
La qualificazione dell’appalto –  se di lavori, di forniture o di servizi –, come noto dipende dal peso economico degli stessi: il caso si sarebbe potuto gestire più efficacemente come un appalto di servizi implicante lavori e forniture, anche se il peso economico del servizio era molto inferiore a quello dei lavori e delle forniture.
Le opere, una volta realizzate, sono entrate nella fisiologia del settore urbano (Tor Vergata e dintorni), che ha ospitato l’evento, perdendo la originaria specificità: questo era uno degli obiettivi della valutazione del programma unitario. La radicabilità nel territorio delle opere e la loro integrazione.

3° caso: L’agibilità provvisoria dei capannoni colpiti dal terremoto dell’Emilia – Romagna nel 2012
In quel periodo presiedevo il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Era pressante la richiesta di una norma che consentisse di rilasciare, nel rispetto della sicurezza, la agibilità provvisoria per i capannoni industriali danneggiati dal terremoto una volta ricostruiti totalmente o parzialmente.
Il problema non sarebbe stato facilmente risolvibile se non fosse stata in cantiere la progettazione delle nuove norme tecniche sulle costruzioni (NTC): quelle del 2008 non avevano ancora innovato in materia di edilizia prefabbricata, che è quella che riguarda soprattutto i capannoni industriali. Il lavoro che era in corso per le nuove NTC, iniziato nel 2010, comprendeva anche questo tipo di costruzioni (processi e prodotti).
In pratica la norma sulla agibilità provvisoria anticipava l’emanazione delle NTC che sono state approvate nel 2018 -; se ne anticipò l’emanazione di un capitolo, quello appunto dedicato alle strutture prefabbricate.
Se non fosse stato in corso questo lavoro non si sarebbe potuto rispondere con efficacia nel merito e tempestivamente. Certo vi era grande consenso nell’anticipare l’applicazione parziale delle NTC e quindi non ci furono difficoltà ad approvare le norme anticipatrici della futura norma organica.

4° caso: L’esperienza gestionale è quella di commissario straordinario al porto di Napoli (2014-2015)
Anche in questo caso si trattava di accelerare la progettazione di opere per 150 milioni di Euro, sotto la preoccupazione della perdita di finanziamenti europei.
All’epoca vigeva ancora la regola che gli appalti potevano essere fatti nella forma dell’appalto integrato: la stazione appaltante forma, in house o previo affidamento esterno, il progetto definitivo, lo approva e l’impresa aggiudicataria lo sviluppa sino all’esecutivo e quindi lo realizza.
Tutti mi chiedevano di accelerare l’approvazione interna, benché di progetti definitivi degni di tali nome all’atto del mio insediamento non ce ne fossero ancora; addirittura mi si voleva fare indire le gare d’appalto ancora prima della certezza dell’impegno di spesa! Il meccanismo del finanziamento è il seguente: l’UE approva, l’attuatore – nel caso la Regione Campania – trasferisce ai singoli enti esecutori che, una volta definita una apposita convenzione con la Regione, finalmente possono indire le gare sulle opere progettate ed ovviamente approvate.
I progetti definitivi, nella incomprensione di molti, dovevano essere approvati secondo le procedure ordinarie. Infatti, nel caso, la definizione di “commissario straordinario” veniva fraintesa. Gli si attribuivano poteri di approvazione ed autorizzazione che non aveva: non solo le opere dovevano essere a norma, ma anche approvate secondo le procedure ordinarie di legge.
Da ciò la fondamentale diversità – per quanto riguarda i poteri di approvazione – con il Commissario per la ricostruzione del ponte Morandi a Genova, il quale può approvare direttamente i progetti di opere, oltre che le diverse procedure inerenti l’ambiente, i beni culturali, ecc..

3. I casi di cui in precedenza dimostrano che semplificare ed essere efficienti e rispettosi dello spirito ed anche della lettera delle leggi si può, ma occorre avere una linea maestra da seguire, sia normativa generale che particolare.
Non certo, come abbiamo fatto in occasione di ogni evento calamitoso, “inventando” ogni volta una procedura ad hoc.
Certo, i terremoti, ad esempio, sono sempre diversi tra loro; per l’intensità sismica, per l’estensione delle zone colpite, per la specificità architettonica, edilizia, urbanistica, sociale ed economica delle stesse.
Ma le procedure d’azione, come ci spiegano gli organismi internazionali, possono essere le stesse, ad iniziare dal chi deve ricostruire: se cioè l’azione di ricostruzione deve essere tutta pubblica o, al contrario, tutta privata. Le soluzioni intermedie, possibili, sono quelle però ritenute più difficili da applicare. Occorre tempo perché il meccanismo sia rodato. A volte troppo, rispetto alla gravità o la particolarità delle situazioni. Da ciò la preferenza per scelte radicali
Ma bisogna avere chiarezza: si pensi solo, per comprendere la questione, come abbiamo trattato il rapporto del piano di ricostruzione specifico con quello urbanistico generale dei comuni colpiti da eventi calamitosi. Ad ogni evento, una gerarchia diversa.
Il caso dei terremoti è stato eclatante. E sí che avevamo già una buona legge sulla ricostruzione. Quella degli inizi degli anni ’50, che si fondava su un decreto luogotenenziale della fine degli anni ’40.
Con la legge generale sulla ricostruzione il piano particolareggiato o attuativo, assumeva la stessa valenza del piano urbanistico generale: la contemperazione degli   interessi conflittuali – tipica funzione del piano generale –. Nel prioritario interesse della ricostruzione anche questa funzione veniva svolta dal piano particolareggiato; oltre quella sua propria di disegnare una porzione di città e, quando necessario, consentire l’esproprio delle aree destinate alle opere pubbliche.
Come noto molte città, ancora molti anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale hanno avuto come unico strumento urbanistico il piano di ricostruzione al quale, oggi, che tanta attenzione
culturale – meno alla operazionabilità – poniamo alla cosiddetta rigenerazione urbana, potremmo ispirarci, per appunto rendere concrete tante affermazioni favorevoli a questa nuova dimensione dell’agire urbanistico.

E’ necessario però che il processo di pianificazione sia fortemente semplificato, in base a piani “elementari”.
Per redigerli è necessario valorizzare al massimo le conoscenze di base sui luoghi interessati dagli eventi calamitosi: i sistemi informativi territoriali debbono essere diffusi nella copertura territoriale dell’informazione, aggiornati e soprattutto «completi» nelle informazioni che contengono, nonché capaci di far accedere ad altre banche dati.
Dal terremoto che ha interessato la Valle del Belice, a quello del Friuli, quindi a quelli dell’Irpinia I e II (Napoli, compresa), poi quello dell’Umbria, di nuovo l’Umbria e le Marche, fino al più recente dell’Appennino centrale, in cinquanta anni è stato un continuo modificare la gerarchia del piano generale rispetto a quello attuativo. Forse, con la soluzione dei comparti e del condominio stazione appaltante, è stato trovato un punto di equilibrio. Si è iniziato con quello dell’Umbria della fine degli anni ’80
Tale algoritmo dovrebbe essere però meglio codificato. A L’Aquila la sua messa a punto ha richiesto molto tempo; nel caso dell’Umbria fu più facile associare le proprietà al piano di comparto. Dimensioni fisiche e valori economici in gioco hanno evidentemente determinato nel caso dell’Aquila una risposta diversa. Da qui anche la necessità di irrobustire l’approccio, nella malaugurata ipotesi che ci si dovrà di nuovo misurare con il problema.
Ancora più paradossale è stato l’equivoco creato tra indennizzi e contributi. Con conseguenze molto gravi, ovviamente, sulla ricostruzione. Nel caso dell’Aquila si dovette correggere addirittura la legge, specificando che si trattava di contributi con conseguente obbligo di impiegarli nella ricostruzione.
Il tema degli indennizzi rispetto ai contributi merita un più convincente trattamento. In sé e nelle considerazioni di lungo periodo: tra l’altro – oltre l’entità di quanto e come si eroga- vi è il problema dell’equità intergenerazionale: non si può essere colpiti dalla sfortuna di subire un terremoto ed a questa vedere aggiungersi quella delle condizioni economiche del momento nel quale si è colpiti, con riguardo allo stato della fiscalità pubblica generale soprattutto.
E’ di perenne attualità la questione dell’assicurazione obbligatoria delle opere edilizie pubbliche e private: una questione aperta alla quale l’Italia non riesce a dare ancora soluzione soddisfacente.
Ed ancora, cosa non abbiamo fatto per risarcire i conduttori di abitazioni illegali colpite da calamità: non potendoli risarcire perché non aventi titolo, in qualche caso si è inventato il risarcimento dei danni subiti dalle sole suppellettili presenti nelle abitazioni da loro condotte!
Anche in questi casi, – terremoti, alluvioni ed altri eventi calamitosi -, se c’è necessità e si ha chiarezza di intenti, un piano si può fare, ma bisogna farlo come si fa nel caso delle pre- urbanizzazioni secondo l’approccio tipico dell’«improvement» progressivo, come ci hanno insegnato le esperienze migliori della  urbanizzazione  operate da parte di paesi colonialisti , quali l’Inghilterra e la Francia ad esempio, vere maestri in questa materia. Forse la faccia migliore del colonialismo, se si può dire.

4. Anche il progetto, o meglio il «ciclo del progetto», può essere semplificato senza perdere la complessità che ogni progetto – anche quello apparentemente più elementare – implica.
Il “ciclo” del progetto dell’opera pubblica -fattibilità, definitivo, esecutivo-, può essere semplificato nelle condizioni di emergenza.
Con l’avvertenza che la complessità della progettazione però non può essere sottovalutata a vantaggio di un approccio semplicistico.
Come si può semplificare? La differenza tra le opere, «puntuali» e «lineari», incide molto. Nel primo caso, soprattutto quando le opere hanno origine nei piani, non si pone la questione decisiva della scelta tra alternative.
Progettare – lo ricordo – non è solo “projeter”, cioè proiettare in avanti. Ma è anche, se non soprattutto, scegliere tra alternative: di luogo, tipologiche, costruttive, gestionali. Ovviamente a parità di tipologia di opera.
Il livello di progettazione definito dal vigente Codice dei Contratti come “progetto di fattibilità tecnico economica” – il primo livello -, non può essere troppo semplificato. In specie per quanto riguarda la conoscenza (indagini di varia natura), soprattutto nel caso di nuove opere e quando queste non sono previste da un piano urbanistico – territoriale che abbia già incamerato conoscenze.
In qualche caso, anche la riparazione di un’opera danneggiata può costituire un’alternativa.
Non sono pochi i ponti stradali e ferroviari che nel mondo sono stati riparati. Per non dire delle opere edilizie.
Ovviamente se le condizioni lo consentono e senza cadere prigionieri dello slogan «qui, così, come era», che non sempre è possibile confermare nelle ricostruzioni.
Ciò vale non solo in senso formale, ma sostanziale. I luoghi possono assolutamente non essere adatti ad ospitare opere edilizie, anche se prima dell’evento calamitoso erano intensamente urbanizzati.
I piani urbanistici, territoriali e paesaggistici oggi sono preceduti da una ricerca di conoscenze molto ampia ed approfondita: costituiscono un buon «incipit» per la progettazione delle opere.
In condizioni di emergenza, tanto più quando le approvazioni e le autorizzazioni si acquisiscono sul progetto di fattibilità, è il progetto definitivo che può essere compresso, sviluppando gli aspetti fondamentali di ordine tecnico e soprattutto economico, rinviando per gli altri al progetto esecutivo, che anch’esso non può essere evitato – così come la sua validazione – in quanto prodromici all’appalto lavori.
Dalla “culla alla bara” si diceva una volta, quando si studiava il ciclo di vita di un opera e quindi il suo impatto, non solo preventivamente, cioè in fase di progetto, ma anche nel corso, appunto, della vita dell’opera.
Oggi pretendiamo di sapere come fare pensando anche all’oltre la vita: questo è il senso dell’economia   circolare applicata alle opere infrastrutturali ed edilizie in genere.
Emerge così un’ulteriore complessità di un progetto: decisioni sul post opera che devono essere prese già nella fase di concezione dell’opera.
Ci dobbiamo chiedere quali sono i «passi» topici del ciclo del progetto, in rapporto all’opera ed alle condizioni nelle quali si realizza, non solo quelle fattuali.
Anche le condizioni amministrative sono coinvolte: è il caso, ad esempio, di quando si deve riprendere e/o rivisitare un progetto che era stato abbandonato.
Non è obbligatorio ripercorrere tutti i passi!
Quelli essenziali sì. Anche il Codice dei Contratti vigente – che si occupa anche di questo – lo consente, sotto la responsabilità della stazione appaltante.

Certo non si deve semplificare riducendo il primo passo – quello del progetto di fattibilità tecnico economica -, e l’ultimo, quello del progetto esecutivo.
Non si devono mai trascurare né la fasizzazione né la cantierizzazione dei lavori.
Così come, già nella fase del progetto di fattibilità tecnico economica, la costruttibilità e la manutenibilità, e non solo per rispetto della sicurezza delle maestranze.
E non si deve rischiare di complicare, con l’obiettivo di semplificare.
Cosa dire della consultazione di mercato avviata sulla ricostruzione del ponte Morandi senza -, mi pare e spero di aver compreso bene –, aver disegnato o ridisegnato prima l’intero ciclo del progetto che si intende seguire?
Nella consultazione di mercato che è stata avviata per la ricostruzione del ponte Morandi sia la questione delle alternative, da me prima affrontata in astratto, che quella delle informazioni che si forniscono negli «appel d’offre», qualunque sia la forma – concorsi d’architettura, appalti tradizionali, appalti di servizi che implicano lavori e/o forniture -, è centrale.
Soprattutto per quanto riguarda le informazioni: la ricostruzione da che progressiva a che progressiva della strada si estende? Che tipo di suolo o sottosuolo dovrà ospitare le fondazioni del manufatto e quali effetti si avranno sul dimensionamento dello stesso? Si potranno riutilizzare le fondazioni del ponte crollato? Si potrà procedere con varianti fuori opera o è obbligatorio mantenere il sedime già impegnato: l’appalto per l’abbattimento sarà separato da quello della costruzione/ricostruzione del nuovo ponte o no?
Informazioni queste indispensabili per la progettazione anche in fase di offerta, senza le quali la consultazione di mercato non potrà essere sviluppata oltre un preliminare grado di definizione tecnica. Qual è quella minima sufficiente per poter decidere? Non c’è il rischio di aver complessificato il livello iniziale del ciclo del progetto con una sorta di preliminare del progetto di fattibilità tecnico economica?
Nel caso del Ponte Morandi si può dire che essendo stati sequestrati il manufatto e parte dell’area interessata, non si potevano fare indagini ad hoc.
Però una ricostruzione della storia dell’opera, in letteratura molto ricca, ed una valorizzazione delle informazioni alla base del piano urbanistico della città, dovranno essere messe a disposizioni degli offerenti. Tanto più se si vorrà una competizione ampia con la partecipazione anche di «competitors» stranieri. Si tratta di un preliminare di progetto di fattibilità tecnico-economica, o già di una sorta di appalto concorso vecchia maniera, magari orientato maggiormente alla parte della ideazione della futura opera? Vedremo, spero appunto che non si sia introdotto un ulteriore livello di progettazione!

5. In conclusione: ho trattato di semplificazione urbanistica e progettuale, possibile anche con obiettivi di innovazione, nelle condizioni di emergenza. Ed ho fatto cenno alla questione della responsabilità amministrativa e penale, orami da affrontare decisamente, perché l’assetto attuale della legislazione è divenuto davvero disfunzionale per chi deve operare, ad ogni livello del processo decisionale.
L’altro argomento che ho toccato, soprattutto per completezza di ragionamento, è la questione delle condizioni di emergenza e della loro gestione in generale.
Mi spiace di terminare la relazione cadendo nel vecchio vizio dell’“occorentismo programmatorio”, tipico di noi pianificatori e programmatori. Di quando, cioè, i nostri piani erano sempre conclusi dall’ invocazione “occorrerebbe che………”, piuttosto che pianificare quello che si poteva ed alle condizioni date.
Però è così: occorre una nuova legge per la gestione delle emergenze che non può essere più identificata nella legge sulla protezione civile per quanto rinnovata e con tutto il suo armamentario di azione, comunque limitata appunto all’emergenza. Per collegare emergenza e ricostruzione celere e nella legalità, occorre una legge nella quale le due fasi non siano separate: semplificare la pianificazione ma senza abbandonarla, è la via giusta. Il come si rientra nell’ordinario, seppure per via speciale, deve essere esplicitamente disciplinato.