Levino Petrosemolo, Pierluigi Ciocca, Francesco Karrer, Filippo Satta, Discorso a quattro sugli investimenti pubblici

Il tema degli investimenti pubblici sta vivendo una stagione di grande popolarità, e non solo tra gli addetti ai lavori, a causa, purtroppo, di più di un evento tragico culminato con la catastrofe di Genova del 14 agosto 2018.
Cosa significa però affrontare e discutere del tema degli investimenti pubblici? Significa entrare in un complesso di considerazioni non sempre intuitive che richiedono competenza e consapevolezza delle componenti economiche e del bilancio dello Stato, oltrechè, ovviamente, di una propria radicata opinione delle prospettive di crescita di un paese.
Il tema degli investimenti pubblici può essere affrontato secondo tre diverse prospettive che possono confluire in un unico stream di discussione: la prima è il punto di vista dettato dall’emergenza, la seconda è quella della crescita di medio lungo termine, la terza è quella puramente ideologica, se per ideologia si intendono alcune visioni che si rifanno a concetti di mercato, ancorchè profondamente diverse tra loro, quale quella di Keynes e quella di Von Hayeck.
Per fare ciò, un architetto più avvezzo a districarsi tra leggi e piani di investimento, che non con piante, sezioni e prospettive, si è preso la briga di raccogliere attorno a un tavolo e di intervistare sul tema un grande economista che ha rivestito importanti responsabilità pubbliche in qualità di vicedirettore generale di Banca d’Italia, Pierluigi Ciocca, ed un illustre esperto di urbanistica e territorio, già Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il Prof. Arch. Franco Karrer. A conclusione della discussione, per aggiungere un alto contributo di natura giuridica al complesso dello scenario che si è delineato, è intervenuto il Prof. Filippo Satta, insigne giurista, che presenziava l’incontro insieme agli altri componenti di Apertacontrada.
Il risultato è riassumibile nel dialogo che segue.

PETROSEMOLO
Piero, nei nostri settimanali incontri presso Apertacontrada, vuoi per questioni contingenti e di emergenza, vuoi per una propensione naturale del nostro Gruppo ad affrontare i temi della crescita e dello sviluppo del nostro Paese, il tema degli investimenti pubblici torna con puntuale ricorrenza. In particolare tu ti fai sempre carico di ricordarci che è quasi inspiegabile come, in un Paese caratterizzato da una crescita economica asfittica, da un cronico gap infrastrutturale rispetto ai paesi nostri competitors e, come se non bastasse, da una gravissima situazione generalizzata di dissesto del territorio, aggravata dagli ormai palesi cambiamenti climatici, il tema degli investimenti pubblici non sia stato e non venga tuttora affrontato da uno qualunque dei governi che si sono succeduti da anni a questa parte in modo strategico e sistemico. Io più di una volta ti ho fatto presente che se, nel complesso del bilancio dello Stato, c’è stata una ipertrofica crescita della spesa corrente, non poteva che risentirne la spesa in conto capitale di cui fa parte la spesa per investimenti pubblici “produttivi”. In altre parole se tiri la coperta, senza aumentarla di dimensioni, inevitabilmente i piedi restano scoperti.

CIOCCA
Per affrontare il tema degli investimenti pubblici e tentare di dare dei suggerimenti si deve partire da una analisi della spesa pubblica, lato sensu, e della allocazione dei proventi dello Stato e della PA in generale. Il nodo è vedere dove va la spesa. Prendiamo a tale scopo i dati di Banca d’Italia sul Bilancio della P.A. del 2017, quindi aggiornati.
Su 839,60 miliardi di Euro di spesa totale, che costituiscono il 48,9 del PIL, il 92,2% è rappresentato dalla spesa corrente, e cioè 773, 92 miliardi di Euro. La spesa in conto capitale rappresenta solo il 17,8% della spesa totale, 65,67 miliardi di Euro. La spesa in conto capitale non è composta solo dalla spesa per investimenti produttivi, ma ben 32 miliardi (quindi quasi la metà) sono destinati all’acquisto di titoli o a contributi per gli investimenti, cioè trasferimenti alle imprese. Insomma, per gli investimenti fissi lordi (infrastrutture, messa in sicurezza del territorio, attrezzature pubbliche, ecc.) lo Stato destina 33, 70 miliardi di Euro, il 4% della spesa totale, l’1,9% del PIL. Mentre la spesa totale è cresciuta da 819, 33 miliardi del 2012 agli attuali  839,60, la corrispondente voce degli investimenti fissi lordi è scesa da 38,55 miliardi del 2012 agli attuali 33,70 miliardi richiamati.

PETROSEMOLO
C’è qualcosa che non va, insomma.

CIOCCA
C’è molto che non va. Accantoniamo per un momento lo stato pietoso in cui si trovano le infrastrutture italiane esistenti o il deficit di quelle che dovrebbero essere realizzate per stare al passo con gli altri paesi. Al di là del dissesto idrogeologico in cui è abbandonato il territorio italiano e che puntualmente rivela il suo stato ogni qualvolta si presenta un’emergenza, e cioè spessissimo, ciò che non viene compreso dai governi che si sono succeduti è che il destinare risorse finanziarie agli investimenti fissi avrebbe un formidabile effetto diretto e indotto sulla crescita economica del Paese. Stimolerebbe anche gli investimenti privati che, in definitiva, debbono costituire la spina dorsale della economia e incentivando anche l’afflusso di capitali esteri.

PETROSEMOLO
Ora però il tema è, data la inarrestabile contrazione della voce spesa in conto capitale che si è consumata nel giro degli ultimi anni per fare posto alla ipertrofia della spesa corrente, dove troviamo i soldi per incrementare gli investimenti fissi?

CIOCCA
Questa è la madre di tutte le domande. Per tentare di dare una risposta è necessario da un lato entrare nella composizione della spesa corrente e dall’altro valutare l’effetto sull’economia che può esercitare in particolare la spesa per investimenti.
La spesa corrente si articola in spesa per gli stipendi dell’apparato pubblico, spesa per gli acquisti per fare funzionare la macchina, pensioni, contributi alla produzione e agli investimenti, sanità, “altre spese correnti”, interessi. Stipendi, pensioni, interessi passivi e sanità da soli impegnano quasi l’80% della spesa corrente: una cifra enorme e incomprimibile allo stato attuale. Andare in particolare ad erodere sanità e pensioni significherebbe il venir meno del collante sociale. Restano purtuttavia 250 miliardi (15% del PIL) passibili di economie e razionalizzazioni in grado di consentire il raddoppio delle risorse attuali per gli investimenti fissi.
Ad esempio, se oltre a contenere i trasferimenti si applicasse nei confronti dei fornitori una politica dei prezzi più accorta e severa, al limite da stato monopsonista, si potrebbero conseguire importanti limature alle spese per acquisti. Non è necessario operare tagli reali, ma ridurre l’onerosità se la PA, con un po’ di coraggio e di polso nei confronti dei fornitori, imponesse sconti sui prezzi esosi. Se a queste risorse si aggiungesse il recupero di perlomeno una parte dei 150 miliardi di evasione fiscale (quasi il 9% del PIL), grazie ai mezzi di indagine e di contrasto che oggi la tecnologia consente, il Paese avrebbe di che cominciare a sorridere. In altre parole, se alla componente aggredibile della spesa, attraverso una rigorosa spending review, si aggiunge la componente dell’evasione si arriva a 400 miliardi, quasi un quarto del PIL. Da tale ammontare si potrebbero ottenere almeno 30-40 miliardi da destinare agli investimenti fissi.

PETROSEMOLO
Sarebbe sufficiente una cifra di quel genere a fornire un deciso impulso alla ripresa di sviluppo del Paese che non debba misurarsi sui decimi di punto?

CIOCCA
Qui entra in gioco il potenziale moltiplicativo dell’investimento pubblico, in quanto volano per ulteriori investimenti e consumi privati, diretti e indotti. Il calo degli investimenti pubblici di oltre un terzo dal 2009 al 2017 è gravissimo: ne hanno risentito sia la domanda globale sia la produttività. Basterebbe questo riscontro negativo per fare capire a chi si assume le responsabilità del futuro del Paese che gli investimenti pubblici sono un fattore critico per lo sviluppo. Il moltiplicatore della domanda globale indotto da un incremento degli investimenti pubblici è consistente: circa 1,2-1,5 (di cui ben 1,8 al Sud). Un incremento di investimenti pubblici pari all’1% in due anni attiverebbe un incremento di domanda globale pari all’1,5% del PIL, e cioè di 25 miliardi, considerando il PIL 2017 pari a 1700 miliardi.

PETROSEMOLO
Potresti delineare una linea d’azione che sintetizzi lo scenario di fattori che hai descritto e gli obiettivi di sistema che si otterrebbero attivandogli investimenti?

CIOCCA
Un calcolo di prima approssimazione potrebbe essere il seguente. L’indebitamento netto attuale della PA è circa il 2% del PIL (il disavanzo strutturale, al netto del ciclo, è inferiore). L’azione combinata del contenimento delle spese correnti e dell’aumento delle entrate grazie al contrasto all’evasione potrebbe incidere per 2 punti di PIL sul disavanzo, in prima approssimazione azzerandolo. Ma poiché il demoltiplicatore di queste voci di bilancio è 0,7, questa riduzione del disavanzo di per sé provocherebbe una flessione del PIL di quasi 1,5 punti. Di conseguenza riemergerebbe un disavanzo stimabile in 0,6 punti di PIL. Se però contemporaneamente aumentano gli investimenti pubblici, diciamo nella misura dell’1,5% del PIL, il disavanzo risalirà in prima approssimazione di altrettanto, (riducendosi solo di mezzo punto), ma, dato il moltiplicatore degli investimenti vi sarà un effetto positivo, più che compensativo, pari al 2,3% del PIL. Quindi il PIL migliorerà nell’ordine dell’1% e così il disavanzo. L’azzeramento del disavanzo deriverà dal calo del premio al rischio dei titoli pubblici e della spesa per interessi, cosicchè il debito pubblico smetterà di crescere

PETROSEMOLO
Insomma, un cambio di passo vero e proprio, un segnale forte e chiaro anche per le giovani generazioni, che rischiano di ritrovarsi un’eredità pesante: un paese indebitato fino al collo, un territorio che, letteralmente, fa acqua da tutte le parti, un sistema infrastrutturale obsoleto e che ogni giorno ci manda segnali più o meno forti, a volte tragici, del suo degrado e della sua inadeguatezza. Parallelamente sarà indispensabile avere un apparato pubblico all’altezza della gestione di questo “new deal”, se non altro dal punto di vista delle competenze per esercitare la sua primaria funzione di controllo, come probabilmente dopo ci dirà l’amico Karrer. Non scordiamoci inoltre, come spesso ci ricorda il nostro prof. Filippo Satta, che sarà fondamentale snellire l’apparato legislativo che governa l’andamento dell’economia.

CIOCCA
Indubbiamente. La crescita di trend dell’economia italiana potrebbe tornare sul sentiero del 2,5 per cento l’anno se questa politica di bilancio orientata contemporaneamente ad abbattere il debito e sostenere l’attività economica sarà integrata da altre misure. Mi riferisco in particolare a: riscrivere l’apparato giuridico prendendo atto dei profondi mutamenti che hanno subito la società e il mondo intero negli ultimi anni, in virtù del balzo tecnologico e della globalizzazione (bisogna rivedere il diritto societario, quello fallimentare, quello commerciale e quello fallimentare civile, per non parlare di quello amministrativo che regola i rapporti tra PA e privato), stimolare un vero regime concorrenziale, impegnarsi in una strategia per il Sud, offrire nuove opportunità ai giovani e a chi percepisce redditi bassi.

PETROSEMOLO
Magari fosse caro Piero, tenendo conto che il nostro apparato giuridico si basa sul civil law, cioè sui codici, ed è estremamente difficile modificarlo senza appesantirlo ulteriormente, vedi le psicotiche vicende del Codice degli Appalti, mentre nei paesi anglosassoni il common law, sostanzialmente basato sulla giurisprudenza, si adegua da sé, sentenza dopo sentenza. Ma tutto ciò come si combina con il contesto europeo, tema attualissimo e fonte infinita di dibattiti e polemiche?

CIOCCA
Sul piano europeo il problema non è l’Euro, che ha favorito la stabilità dei prezzi e il calo dei tassi di interesse. Il problema vero è un coordinamento organico della politica della domanda globale tra i paesi membri che rafforzi anche in Europa la spesa per investimenti (nazionali ed internazionali) sia pure ammettendo la sua parziale copertura con titoli pubblici (golden rule).
In particolare, la Germania è chiamata a riassorbire il suo enorme disavanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente (attualmente pari all’8% del PIL!). Se la Germania assumesse questo nuovo orientamento ne trarrebbe beneficio e sostegno la domanda globale dell’intera area Euro.

PETROSEMOLO
Grazie Piero, non posso negare che ascoltando le tue riflessioni mi sembrava tutto così ovvio da non riuscire obiettivamente a capire perché la portata del tema degli investimenti pubblici sia stata così colpevolmente trascurata dal sistema politico negli ultimi decenni. Una risposta per la verità ce l’avrei e riguarda l’ansia della politica di inseguire e mantenere un consenso elettorale a cicli brevissimi, mentre gli investimenti pubblici, si sa, mettono in moto un volano lento.
Però sono convinto che anche questo non sia del tutto vero. Certo, un’opera infrastrutturale prima di entrare a regime necessita di essere approvata, progettata e realizzata, e possono passare anni perché cominci ad avere ricadute benefiche sul territorio. Però è anche vero che già in fase di concepimento e di realizzazione si mettono in moto risorse ingenti sia umane che finanziarie, dal punto di vista diretto come da quello indotto. La storia del nostro Paese ce lo ha sempre dimostrato. E poi, last but not least, c’è un tema che rischia veramente di produrre conseguenze disastrose e a cui occorre mettere mano e risorse con estrema urgenza: il dissesto idrogeologico del Paese. A differenza del rischio sismico infatti, dove l’aleatorietà del punto in cui l’evento colpirà e quando è ancora elevata allo stato delle conoscenze scientifiche, il dissesto idrogeologico è non solo perfettamente monitorabile, prevenibile e “mappato”, ma, soprattutto, è spessissimo causato dalla mano dell’uomo, sia sotto forma di incuria sia sotto forma di opere sbagliate.

PETROSEMOLO
Franco, a tale proposito Piero ci ha illustrato in un modo che non poteva essere più chiaro in che modo gli investimenti pubblici potrebbero fare decollare l’economia di questo Paese e dove potrebbero essere trovati i soldi, ma poi bisogna impegnarli e spenderli.

KARRER
Prima di rispondere compiutamente, voglio fare qualche considerazione su quanto è emerso fin qui.
Condivido la tesi di Piero, anche se so che tra gli economisti il giudizio sugli effetti degli investimenti pubblici non è unanime. Il fatto che la politica economica degli ultimi governi non abbia privilegiato gli investimenti pubblici, in generale e nello specifico comparto delle infrastrutture, lo conferma. Oltre la questione della disponibilità di risorse, si è trattato di una scelta di politica economica ben precisa.
Ne ho trovato conferma nell’articolo di Alessio Terzi su «il foglio» di giovedì 23 agosto dal titolo “Ecco perché gli investimenti pubblici sono una fissa italiana ma non sono una panacea”.
Sia Piero che Terzi – e questo è l’aspetto che dal mio punto di vista è centrale – concordano sulla necessità che in ogni caso solo investimenti pubblici “buoni” hanno effetti positivi, non solo per quello che riguarda la soddisfazione della “domanda pubblica”, ma anche sul piano macroeconomico.
Quando un investimento pubblico si può definire “buono”? Questo è il problema.
L’esperienza mi porta a dire che due sono i requisiti. La rispondenza alla domanda pubblica e la qualità del ciclo programmazione-progettazione-costruzione- collaudazione – gestione, esercizio delle opere.
Quindi, alla base c’è la qualità della domanda pubblica: come si forma, come si decide, come si finanzia.
Più della quantità delle risorse, contano infatti le modalità di erogazione: certezza, regolarità negli avanzamenti dei lavori, ecc.
Una stazione appaltante – è ovvio – negozia meglio se dispone di risorse adeguate soprattutto nella fase iniziale del processo di realizzazione. La sua capacità contrattuale è maggiore in quanto è più affidabile.
Nell’aggiudicazione di un appalto l’affidabilità della committenza è, di fatto, divenuta quasi più importante di quella degli offerenti.
Ovviamente non mi riferisco solo all’oggetto della qualificazione delle stazioni appaltanti tanto esaltata – e tanto irrealizzata – dal Codice dei Contratti.
Mi riferisco alla sua affidabilità economico-finanziaria!
Il problema non riguarda solo chi opera con finanza derivata.
Anche chi dispone di finanza propria deve dimostrare affidabilità, cioè, la capacità di mantenere li impegni nel tempo.
Ad iniziare dalla “continuità amministrativa” che non sembra più essere considerata una virtù della pubblica amministrazione!
Nella formazione della domanda pubblica – l’ABC ed altre tecniche di aiuto alla decisione uni e multicriteri che siano, si devono considerare anche obiettivi di lungo periodo, cioè il futuro che si vuole, e non solo la «domanda pregressa» e la criticità. E neanche il solo rendimento degli investimenti. Se così si rischia di investire solo nelle parti ricche del paese. In larga parte è quello che abbiamo fatto negli ultimi anni.
Vengo alla questione della capacità di spesa.
Questione che se il processo di programmazione-realizzazione fosse fisiologico, non dovrebbe porsi.
Purtroppo, in specie nel caso della finanza derivata, e malgrado tutta l’enfasi posta alla programmazione, con la oramai ridondante, famiglia di strumenti – DUP, DPP, Programma biennale dei servizi e triennale dei lavori, ecc.- la coerenza tra disponibilità delle risorse e dimensione reale dell’appalto, si realizza molto raramente.
Spesso è necessario «rimodulare» il progetto. Oppure ricorrere a sotterfugi, quale, ad esempio, il “plasmare” i prezzi di lavorazioni e materiali. Giocando sullo scarso aggiornamento degli elenchi prezzi o nella loro fisiologica incertezza.
Ciò può comportare la mancanza di progetti o, al contrario, il loro “invecchiamento” (sia riguardo alla domanda che coprono che alla loro dimensione tecnica), da qui la inattuazione dei progetti.
Nella capacità di spesa rientra anche la efficienza degli apparati tecnici delle stazioni appaltanti. Ma anche la capacità di assumersi la responsabilità di governare il processo.
Penso a quali effetti potrà avere sulla ulteriore “fuga dalla firma” il crollo del «ponte Morandi» a Genova!
Come ridurre la paura e la responsabilità di chi ha l’onere di approvare piani, programmi e soprattutto progetti?
Il problema è noto, le soluzioni efficaci lontane. Anzi, sempre più lontane, per via in buona parte delle leggi sui contratti pubblici, ad iniziare dalla prima «legge Merloni».
Sul “Corriere della Sera” di venerdì 14 settembre 2018, Luciano Violante ha ricordato questa realtà anche in rapporto alla problematica del partenariato pubblico – privato.

PETROSEMOLO
ma, insomma, cosa è successo dal 1994 in poi?
Fino a quel momento c’era un Codice generale degli appalti pubblici che bene o male funzionava e in 150 anni di vita aveva visto solo 3 modifiche sostanziali, tra cui l’introduzione dei Provveditorati. E lo stesso dicasi per il Regolamento Attuativo che vide la luce 10 anni dopo il primo Codice ottocentesco.
Poi nel giro di 24 anni ci sono state perlomeno 12 modifiche di base alla Merloni  1, senza parlare della miriade di piccoli aggiustamenti, e non abbiamo finito, anzi, la nuova bozza di contratto sulle concessioni (perno della diatriba susseguente ai tragici fatti di Genova), presentata il 18 luglio dalla Ragioneria Generale dello Stato dopo un faticoso lavoro di tre anni del Gruppo interistituzionale di lavoro, rischia di essere già obsoleta a causa delle ormai certe modifiche al Codice 50/16.

KARRER
Queste leggi hanno alcuni difetti fondamentali: il primo è quello di volere per legge prevenire la corruzione. Sono intrise di norme sostanzialmente da codice penale più che da disciplina del «public procurement». Ed ora è arrivato anche il DASPO per le imprese; il secondo difetto è la onnicomprensività. In esse si riassumono norme procedurali, norme tecniche sulle costruzioni, norme sulla qualità ambientale dei prodotti. Nonché norme sulla programmazione e la progettazione! Senza ricordare che le direttive comunitarie che il Codice dei contratti recepisce, sono ben tre. Averle recepite in un solo Dlgs (50/2016  e s.m.i.) non significa aver semplificato.
Finché non si comprende che occorre separare le materie, non solo non si ottiene la auspicata semplificazione, ma si «imbalsama» totalmente il sistema impedendo sia l’innovazione di processo che soprattutto quella di prodotto. Il problema non è solo italiano. Ne ho scritto in occasione del tentativo sollecitato dagli architetti francesi di superare la «tirannia» della norma, nell’articolo pubblicato su “il giornale dell’Architettura”, del 9-12 marzo 2018: “Permesso di costruire vs «permesso di innovare»”.
Il collegamento troppo stretto tra norme procedurali, tecniche, ambientali, ecc., rende difficile lo stesso sviluppo della normazione tecnica, in quanto riduce lo spazio della sperimentazione – innovazione.
Ma il nostro difetto fondamentale è quello di dare una funzione quasi salvifica alla norma ed al suo rispetto. Un tempo – è noto – non si qualificava un’opera in quanto rispettosa della norma. Ma in quanto realizzata a “regola d’arte”.
Conosco bene l’importanza della normazione: il mio punto di critica non è sulla normazione. Che probabilmente rispetto a quella di altri paesi è anche molto essenziale, minima, ma sulla commistione tra norme. Ciò è voluto da tutti gli attori, ad iniziare dai progettisti per arrivare ai funzionari preposti all’approvazione dei progetti, ai validatori/verificatori, ai costruttori. Oltre il rispetto della norma occorre un patto esplicito tra progettista, costruttore, proprietario dell’opera ed assicuratore.
Al centro del patto c’è la questione della “vita nominale” d’una costruzione e le modalità per prolungarla.
Lo so, è un concetto complicato ed ostico soprattutto per un paese come l’Italia, che si vanta di avere costruzioni ultra millenarie; spesso ancora in uso e spesso non solo in quanto monumenti.  Anche per il ricostruendo «ponte Morandi» a Genova si è invocata la durata di mille anni! Probabilmente non si ha la consapevolezza di cosa significherebbe una vita nominale di tale durata per quanto riguarda dimensionamento della struttura, qualità dei materiali e quindi costi.
Dimensionamento delle strutture, qualità, anche estetica ed ecologica, ciclo di vita, modalità d’uso, ecc., dipendono da quale durata della vita si vuole che un’opera abbia.
Vitruvio riassumeva il tutto nella “venustas”, nella “utilitas” e nella “firmitas”.
Senza quel patto, la norma è un rifugio, una sorta di parafulmine che, peraltro, di fronte all’eventuale giudice penale poco ripara.
Un’altra questione strettamente connessa è quella del territorio, cioè della pianificazione del suo assetto ed uso.
La pianificazione territoriale e l’urbanistica sono oramai delle “cenerentole” nel processo decisionale.
Con il venir meno, fisiologico e voluto, della espansione urbana sembra che non ci sia   più necessità di pianificare e programmare.
Con la “vincolistica” che riguarda il territorio – difesa del suolo, paesaggio, ecc. – sovraordinata e peraltro inefficace, sembra venuta meno anche l’esigenza di pianificare e programmare l’assetto del territorio.
E’ così che scopriamo – purtroppo quando accade un evento calamitoso – che non c’è connessione della rete ferroviaria o stradale, che le reti primarie sono sovraccariche di traffico, ecc.
Ed è per questo che si è costruita la retorica della grande opera sia da parte di chi la propone che da parte di chi la contesta.
Senza un esplicito disegno dell’assetto voluto del territorio è aleatoria ogni valutazione dell’efficacia dall’investimento e quindi la scelta della priorità.
Solo in base ad un disegno esplicito e condiviso dell’assetto futuro del territorio si potranno fare scelte non giustificabili nella stretta  logica dell’ABC e di ogni altra tecnica di aiuto alla decisione, in specie di quelle, appunto come l’ABC, di tipo unicriterio. E sì che oggi si vorrebbe un risultato certo della sua applicazione anche con i cantieri aperti e non solo sui progetti di opere: il caso è quello della TAV in Valsusa.

PETROSEMOLO
vuoi dire con questo che ci deve essere un superamento della dicotomia tra norme sugli appalti e norme sull’urbanistica?

KARRER
In passato non c’era dicotomia. Né nella logica né nel linguaggio. Il ciclo del progetto dell’opera pubblica – dal preliminare, all’esecutivo -, era lo stesso di quello della pianificazione, via via sempre più dettagliata (esecutiva).
In Francia, per molto tempo, il piano urbanistico generale nella pratica era definito «plan masse».
Solo di recente si è determinata nel diritto, e prima nella pratica, la scissione tra le due discipline: è il caso del conflitto tra opera pubblica e piano e degli accorgimenti per superarlo.
Da quando? Da quando sono state spezzettate le competenze e con esse le responsabilità.
Mi piacerebbe dire che ciò è successo perché la città non è stata più considerata nel suo insieme “opere pubblica” e ben poca fiducia ripongo nel tentativo culturalista odierno di (ri)considerarla tra i cosiddetti “beni comuni”.

PETROSEMOLO
Franco, io sostengo che uno dei nodi da sciogliere per la ripresa degli investimenti in Italia, ma anche per affrontare tutti i temi del territorio sia costituito dalla difficoltà di tirare fuori “buoni progetti”. Mi riferisco in particolare ai progetti in fase di rischio, cioe’ quelli che dovrebbero essere redatti quando ancora non c’è la certezza che poi vengano realizzati. Per esempio le fattibilità, i concept, i preliminari, ecc. Come sappiamo, questi elaborati, se fatti veramente bene, e non per rispondere ad un obbligo di norma, sono molto costosi. Anni fa la CDP aveva lavorato attorno ad un’idea di un “Fondo rotativo per la progettualità” poi fallito non appena messo in pratica.
Intanto, sei d’accordo su questa tesi? (ricordiamoci del misero fallimento dei Project Bond: non ci sono stati i Bond perché non ci sono stati a monte i Project)
Poi, secondo te, c’è un sistema per superare questo nodo?
Una volta era lo Stato stesso, attraverso le sue organizzazioni parastatali tipo IRI e derivati, CASMEZ ecc., che si accollava l’onere di fare grandi e piccoli studi di fattibilità e sviluppo, e le opere bene o male, con tutti i corollari di corruzione, inefficienza ecc, si facevano. Oggi?

KARRER
Ti riferisci alla costruzione del famoso “monte progetti”. Non credo che questa strada sia praticabile se non esiste quel disegno del territorio di cui dicevo prima.
Il che significa capacità di “territorializzare” la domanda pubblica, anche programmaticamente e non solo come risposta a domande pregresse o a domande contingenti.
La contestualità tra pianificazione, programmazione e progettazione è molto difficile.
In specie da quando gli «usi» sono divenuti molto mutevoli; di fatto, prevalendo sugli assetti.
Non tutto quello che un tempo ritenevamo «strutturante», oggi possiamo considerarlo ancora tale. Tanto più non lo sarà in futuro. E’ questo il tema dell’infrastrutturazione spaziale e a-spaziale del territorio. La dimensione fisica rimane, ma la spazialità delle infrastrutture è fortemente modificata.
Non a caso, per un certo periodo, abbiamo parlato – più che realizzato -, di “infostrutture”.

PETROSEMOLO
Franco, un tema caro al nostro Prof. Satta è il nodo della Conferenza dei Servizi. Secondo te si può “redimere” uno strumento che era nato per costituire una specie di “stati generali pubblici decisionali e tombali” di uno specifico progetto/piano/programma, e quindi snellire le procedure, e che ben presto si è rivelato uno dei maggiori responsabili della inefficienza della PA nell’avanzamento di un investimento?

KARRER
Proprio Filippo ha messo in evidenza i limiti strutturali della conferenza dei servizi in un sistema ad atto amministrativo quale è l’Italia. La conferenza, come le intese, gli accordi, ecc., sono strumenti di “governance”. E la “governance” (in specie quando non c’è un forte «governement»), rischia di essere solo una – un’altra –  retorica.
Personalmente ritengo che la “cooperazione gerarchica” sia maggiormente nella fisiologia del sistema decisionale italiano. Ma anche per questa occorre una qualche esplicitazione accettata della famosa “gerarchia degli interessi” e delle conseguenti forme di disciplina.
La gerarchia degli interessi è stata terremotata, un po’ per l’emergere di “nuovi” interessi – l’ambiente, ad esempio-, ma anche a causa della collocazione dei poteri/ responsabilità di questi interessi. Non siano ancora riusciti a trovare il giusto equilibrio.
E non mi riferisco solo ai profili costituzionali ed istituzionali del problema. Mi riferisco, consapevole che da questi di ordine generali tutto dipende, anche a quelli più minuti.
Quelli che chi pianifica, programma o progetta, incontra in ogni momento.
Tanto più, quando – il caso l’Italia lo dimostra-, a monte non c’è, una esplicita politica di settore o, per dirla come l’intendono in Francia ad esempio, uno “schema nazionale dei servizi collettivi”.

PETROSEMOLO
A tuo parere ha pesato il decentramento amministrativo, in particolare con le Regioni, per complicare anziché snellire la macchina pubblica e divorare ingenti risorse pubbliche senza produrre altrettanto?
In effetti nell’ambito della spesa corrente gli enti locali pesano per il 50% per quello che riguarda gli stipendi, mica poco, soprattutto in rapporto a quello che producono, e soprattutto in rapporto alla frizione, o meglio alla zavorra, che provoca la loro presenza rispetto a temi strategici, come la sanità, le opere strategiche nazionali, l’assetto idrogeologico, il recepimento delle direttive europee e la loro traduzione “univoca” in norme sul territorio, ecc.

KARRER
E’ indubbio che l’aumento di soggetti decisori abbia appesantito il processo decisionale, tanto più con un quadro delle competenze non ben definito.
Ritengo che la conflittualità stato-regioni – che c’è stata -, abbia costituito anche un alibi al sistema di presa delle decisioni. Ho letto recentemente che ancora continua malgrado che da tempo manchino “occasioni” significative: che il conflitto interistituzionale sia da considerarsi fisiologico?
Quando si è voluto però, si è saputo superarli i conflitti. Magari con un aumento dei costi. Un problema che ha riguardato anche la questione delle cosiddette compensazioni: è stato necessario stabilirne l’entità max percentualmente in rapporto al costo delle opere!
Malgrado che fosse stato segnalato già ai tempi dell’introduzione della Via – oramai oltre trenta anni -, si è preferita questa strada a quella della “tipologizzazione” delle opere compensative. Si è dimenticato che queste non possono non essere «in link» con le opere. Altrimenti si rischia di snaturare il senso della compensazione.
Del resto, più volte la Corte Costituzionale ha richiamato la necessità insuperabile delle intese. Molte materie non sono divisibili, quindi ripartibili. Solo nella unitarietà, anche dei decisori, possono essere decise.

PETROSEMOLO
secondo te c’è qualcosa che ragionevolmente dovrebbe essere riportato in seno allo Stato, centralizzato?

KARRER
In un assetto regionalistico, quasi federale, allo stato centrale spetta soprattutto di dovere definire le politiche nazionali, i piani, e i programmi. L’onere dell’ultimo anello della catena decisionale ottima – la progettazione – può essere di competenza delle regioni.
Ovvio che bisogna accompagnare la sequenza decisionale con una adeguata previsione/ripartizione delle risorse finanziarie.
Per fare ciò occorre rivisitare la questione dei «costi standard» che deve essere oggetto di studi molto approfonditi. Ed occorre il coinvolgimento dei territori locali nel sostenere la spesa delle opere.
Ma alla base di tutto ciò occorre fare quello che io definisco il «riaccreditamento culturale» dell’opera pubblica.
Che significa soprattutto «fiducia» in chi la propone, che, ovviamente, deve saperla meritare.

PETROSEMOLO
come superare l’impasse provocata dalla mancanza di concertazione tra gli stakeholders, la PA e gli imprenditori, cioè l’opposizione sistematica che si fa ad ogni nuovo progetto infrastrutturale o edilizio?

KARRER
La consultazione e la partecipazione del “pubblico” – spesso in realtà pseudo partecipazione -, è prevista dalle leggi e praticata in concreto.
Nella mia esperienza non ho conosciuto casi di autentica imposizione di decisioni.  Contrariamente a quello che molti pensano e scrivono. Sto leggendo due piccoli libri che hanno come titoli: Le monde des Grands Projets et ses ennemis, di Serge Quadruppani, Le Découverte, Paris 2018; Résister aux grands projets inutiles et imposés – De Notre – Dame – des Landes à zone, Des Plumes dans le goudron, Textuel, Paris. 2018.
Oltre i titoli, i ragionamenti sviluppati sono pacati e utili. Anche se, ovviamente, favorevoli a chi si oppone:
Quasi sempre le opere sono state “negoziate” con il territorio. Anche nei casi dove la conflittualità è stata ed è maggiore!
E’ accaduto spesso però che i negoziatori nel tempo cambiassero e quindi non rappresentassero più il territorio.
Temporalità del processo decisionale e realizzazione, non possono essere troppo sfasate. Hanno bisogno il più possibile di contestualità, sincronicità.
Di recente, tra gli strumenti di consultazione partecipazione si è aggiunto il «dibattito pubblico». Mi auguro che possa essere più efficace di quelli già in essere. Ma non mi faccio illusioni. La sua efficacia dipende dal contesto del sistema di presa delle decisioni.
La speranza che possa essere risolutivo in sé stesso, è del tutto infondata. Su “ApertaContrada”, abbiamo illustrato casi clamorosi di insuccesso del “débat public”. I due libri ricordati raccontano bene queste esperienze.
E’ noto che di recente in Francia si è provveduto ad una profonda correzione di rotta: dall’applicazione sui progetti si è passati alla anticipazione del dibattito pubblico applicato ai piani!

PETROSEMOLO
Ritieni che ci sia un futuro per il capitale privato come elemento complementare nella realizzazione degli investimenti pubblici?
Voglio dire, tutti gli sforzi che dalla Merloni ter (1998) ad oggi si sono fatti per introdurre ed istituzionalizzare in Italia lo strumento del PF o del PPP sono stati abbastanza vani, o perlomeno abbondantemente deludenti rispetto alle alternative.
Voi sapete come la penso sotto questo aspetto, ne abbiamo parlato spesso: occorre stralciare il comparto delle concessioni e delle PPP dal Codice, concentrare l’attenzione sul gestore e sul developer e non sul costruttore, come invece si è fatto fino ad oggi, eliminare il “rischio amministrativo” come maggiore voce nella diffidenza dei grandi investitori privati, anche internazionali, dal venire a fare il loro lavoro in Italia, affrontare in modo deciso, e questo non vale solo per le PPP, il tema del consenso collettivo nei confronti di un’opera.
Franco, tu che hai un’esperienza diretta e un’attenzione continua verso ciò che succede in proposito all’estero ed in particolare in Francia, dove ci hanno preceduto da tempo su queste problematiche, cosa puoi dirci in proposito e come secondo te incidono le norme europee su tutto il comparto e l’orientamento delle concessioni?

KARRER
Ancora troppo calda è la polemica sulle concessioni autostradali perché non si dica qualcosa sull’istituto della concessione. A mio avviso, come lo è ogni strumento amministrativo, anche l’istituto della concessione è «neutro». Non lo sono né le modalità del rilascio né, ovviamente, i contenuti.
Quindi, nessuna demonizzazione dello strumento.
La critica alla sua utilizzazione, non può non considerare le condizioni nelle quali questa è avvenuta ed avviene.

PETROSEMOLO
secondo te come dovrebbero essere distribuiti i pesi tra Nord e Sud, nel caso di una ripresa degli investimenti pubblici?
Naturalmente dipenderà molto dall’atteggiamento che in proposito vorrà tenere il nuovo Governo, che non mi sembra molto propenso a pensare ad una politica delle infrastrutture

KARRER
In passato si è perfino vincolata per legge la quota percentuale degli investimenti pubblici destinati al Mezzogiorno.
Inevitabilmente molti furono i «by pass» escogitati per superare questa norma.
Poi si è ipotizzato di poter operare nella logica della «perequazione territoriale» delle dotazioni territoriali: si era consapevoli del diverso rendimento degli investimenti tra le diverse aree del paese.
Pur nella loro diversità entrambi i provvedimenti rispondevano al principio dell’equilibrio/riequilibrio delle dotazioni.
Il superamento degli squilibri territoriali era un «must» delle politiche pubbliche nazionali.
Questa nozione via via la abbiamo sostituita con quella di «integrazione». Più recentemente con quella di “connessione”, nel rispetto del “dogma” della rete.
Ma comunque  è con la unità del territorio che  dobbiamo misurarci.

PETROSEMOLO
Grazie Franco, debbo essere sincero, mentre ti ascoltavo ripassavo mentalmente come in un film accelerato, come si dice oggi in “time laps”,  gli anni che mi dividono dai primi momenti in cui mi affacciavo nel mondo dell’architettura, cioè alla fine degli anni ’60. E mi rendo conto non senza sconcerto della profonda verità insita nelle tue parole, e cioè che si è persa di vista la sintesi tra il generale ed il particolare, tra il territorio e l’edilizia. Improvvisamente mi sono venuti in mente i dibattiti a Palazzo Taverna nei martedì dell’architettura promossi dall’INARCH, con Bruno Zevi ed altri autorevolissimi personaggi a vario titolo coinvolti nel mondo della trasformazione del territorio. E mi rendo anche conto che, al di là delle questioni riguardanti le infrastrutture, i codici, la politica, se in questo Paese non si recupera una dimensione culturale ad ampio spettro, che riguardi tutte le classi sociali, ci sarà poco spazio per una ripresa dello sviluppo, risorse finanziarie o no.
Piero, ringrazio anche te per avere centrato in pieno e sintetizzato in modo esemplare quello che sembra un nodo di Gordio, e cioè l’equazione tra sviluppo di un Paese, investimenti pubblici e risorse disponibili, in un contesto quanto mai complesso composto da un Paese in cerca di rilancio e competitività, un continente intero, l’Europa, alla ricerca di una identità, ed un mondo in continua accelerazione evolutiva la cui comprensione sfugge spesso alla nostra dimensione quotidiana.
Alla conclusione di questo dibattito vorrei chiedere al nostro Prof. Filippo Satta, che pazientemente ci ha ascoltati insieme agli altri amici di Apertacontrada, un suo illustre parere sul tema e sulle argomentazioni che si sono sgranate in questa occasione, conoscendo già in anticipo alcune parti del suo pensiero in merito, che non si stanca mai di richiamare e sottolineare.

SATTA
Vi ho ascoltato con molta attenzione ed interesse. In effetti voi sapete come la penso. Da giurista non posso che rimarcare una volta di più che di buone intenzioni è lastricato l’inferno. Detto fuor di metafora, se non si mette mano in modo organico e strutturale all’organizzazione giuridica del nostro Paese, in tutti i settori, ma con particolare attenzione a quelli che riguardano l’intrecciarsi tra il tema degli investimenti pubblici e quello della crescita economica, qualsiasi componente dello Stato, da quella legislativa a quella esecutiva e financo quella giudiziaria, non riuscirà mai a capire e venire incontro alle esigenze della collettività e del Pese intero.
Il nostro sistema giuridico si è aggrovigliato su sé stesso in una gigantesca matassa di norme spesso contraddittorie e di quasi impossibile interpretazione. Il risultato è la generazione di strumenti, per esempio la conferenza dei servizi, che nelle intenzioni avrebbero dovuto essere il momento di sintesi e di espressione di una volontà univoca della PA di favorire l’attuazione di programmi essenziali per il bene della collettività, e che, alla prova dei fatti, si sono rivelati idre a nove teste, babele di voci  incapaci di intessere un dialogo costruttivo e di prendere un indirizzo definitivo per i tanti tasselli piccoli o grandi che costituiscono le basi per il del futuro del nostro Paese.