Un nuovo appello alla responsabilità: il rapporto speciale dell’IPCC sul riscaldamento globale

Il nostro pianeta si sta riscaldando: dagli inizi del 20mo secolo la temperatura globale è aumentata di quasi 1°. I segni del riscaldamento globale sono già evidenti: i ghiacci si stanno sciogliendo, specialmente ai poli; il livello del mare sta crescendo più rapidamente di quanto ci si attendeva; le precipitazioni sono aumentate di intensità e così gli episodi di siccità; varie specie animali, come i pinguini nell’Antartide, si stanno riducendo in modo preoccupante. Gli effetti negativi del riscaldamento globale sulle popolazioni umane, specialmente su quelle che vivono nei paesi più poveri, stanno diventando sempre più evidenti.
Questa ormai drammatica situazione è il risultato della crescita, che sembra inarrestabile, delle emissioni di gas serra (il principale dei quali è l’anidride carbonica) ad opera dell’attività produttiva dell’uomo a partire dalla Rivoluzione Industriale. Queste crescenti emissioni hanno portato a una concentrazione di gas serra nell’atmosfera che, se continua al ritmo attuale, rischia di portare ad aumenti di temperatura fino a 4° al di sopra dei livelli pre-industriali. Con questi aumenti nel riscaldamento globale, che il nostro pianeta non ha sperimentato da milioni di anni (ricordiamo che l’homo sapiens è apparso sulla terra circa 250 mila anni fa), gli sconvolgimenti climatici sarebbero tali da mettere l’umanità in serio pericolo di sopravvivenza.
Dopo il fallimento sostanziale del Protocollo di Kyoto nel portare ad una adeguata riduzione delle emissioni globali, la Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Uniti sul Cambiamento Climatico, che si è tenuta a Parigi nel dicembre del 2015, si era conclusa con un accordo tra 195 paesi su una strategia più credibile che in passato per affrontare il problema del cambiamento climatico; l’accordo aveva fatto rinascere le speranze e l’ottimismo sulla capacità dei governi di impegnarsi e coordinarsi in modo tale da invertire la tendenza prevalsa negli anni precedenti.
L’accordo di Parigi conteneva l’impegno di promuovere una riduzione del riscaldamento globale ancora maggiore di quella alla quale le precedenti conferenze sul clima si erano impegnate sulla base delle indicazioni di quel vasto gruppo interdisciplinare di studiosi provenienti da vari paesi, denominato Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), fatto nascere nel 1988 dalle Nazioni Unite e l’Organizzazione Metereologica Mondiale (WHO) con lo scopo di analizzare gli aspetti scientifici del cambiamento climatico e di fornire ai decisori politici le valutazioni sulle implicazioni e i rischi futuri di tale cambiamento, nonché  suggerimenti sulle strategie di mitigazione e di adattamento più appropriate.
L’IPCC (uno dei gruppi di lavoro del quale, quello sulla mitigazione del cambiamento climatico, ha come vice-presidente l’economista italiano Carlo Carraro) aveva determinato nell’obiettivo di 2° C di riscaldamento globale rispetto ai livelli pre-industriali, quello necessario per stabilizzare la concentrazione del principale dei gas serra, l’anidride carbonica (CO2), nell’atmosfera a un livello che permetterebbe di evitare effetti negativi drammatici del cambiamento climatico. Le varie Conferenze delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico che si erano succedute prima di quella di Parigi avevano sempre accettato questo obiettivo.
L’accordo conclusivo della Conferenza di Parigi ha ridotto l’obiettivo di riscaldamento globale a 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali: un ulteriore segnale del rafforzamento dell’impegno nell’impegno contro il cambiamento climatico. L’IPCC si è dedicato alle ricerche necessarie per esaminare le implicazioni di questo nuovo obiettivo, con particolare riguardo a quelle sullo sviluppo sostenibile e sulla riduzione della povertà; e agli inizi di ottobre ha pubblicato un lungo e articolato rapporto speciale dal titolo “Global Warming of 1.5°”, che riguarda gli impatti del nuovo obiettivo e i sentieri richiesti in termini di emissioni globali di gas serra necessari per raggiungerlo.
Il rapporto dimostra in modo dettagliato e scientificamente giustificato ciò che già si può intuire, e cioè che gli effetti di una riduzione del riscaldamento globale da 2° a 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali sono positivi sui rischi di eccessive siccità e precipitazioni, sull’innalzamento del livello del mare, sulla biodiversità e la qualità degli ecosistemi sia terrestri che marini, nonché sugli aspetti che coinvolgono in modo più diretto gli esseri umani, quali la qualità dell’aria e dell’acqua, la sicurezza alimentare, la morbidità e la mortalità, le opportunità di una crescita economica più sostenibile e la riduzione della povertà.
Il rapporto mette anche in evidenza come l’obiettivo di un risaldamento globale di 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali sia in armonia con molti degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals) adottati dalle Nazioni Unite: la riduzione della povertà e della fame; il miglioramento della salute; il miglioramento della disponibilità e della qualità dell’acqua; una energia pulita; una vita migliore nelle città e delle comunità; un consumo e di una produzione più responsabili.
Il rapporto conferma che una riduzione del riscaldamento globale e del cambiamento climatico inciderà di più sui paesi più poveri, contribuendo in modo sostanziale alla riduzione della disuguaglianza a livello mondiale.
Il rapporto dimostra anche che le misure di adattamento al cambiamento climatico sarebbero meno impegnative e anche meno costose in presenza di una riduzione del riscaldamento globale da 2° a 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali.
Il rapporto esamina quali dovrebbero essere le implicazioni della riduzione del riscaldamento globale sulle emissioni nette di CO2. Le emissioni nette sono il risultato della sottrazione dalle emissioni lorde della capacità di assorbimento di queste da parte dei sistemi naturali (ad esempio le foreste) anche a seguito di appropriati interventi umani.
Rispetto ai livelli del 2010, queste emissioni dovrebbero ridursi del 45% nel 2030 fino ad annullarsi nel 2050; un impegno molto più forte di quello richiesto dall’obiettivo di innalzamento di 2° rispetto ai livelli pre-industriali, che consiste nella riduzione del 20% delle emissioni nette nel 2030 rispetto al 2010, e nel loro annullamento solo nel 2075.
E’ evidente come un simile rafforzamento nell’impegno per la mitigazione del riscaldamento globale e del cambiamento climatico richieda trasformazioni molto più consistenti nella direzione della costruzione di sistemi economici a basso contenuto di carbonio. Il rapporto quantifica in dettaglio queste trasformazioni che vanno dal campo energetico (le energie rinnovabili dovrebbero fornire tra il 70 e l’85% dell’elettricità nel 2050), a quello delle infrastrutture e dei mezzi di trasporto, a quello della residenzialità e delle infrastrutture urbane, all’organizzazione dei sistemi industriali. Il rapporto dimostra che queste trasformazioni sono già oggi tecnologicamente possibili; il vero limite alla loro realizzazione, afferma con molta chiarezza il rapporto, deriva dalle esigenze economiche, istituzionali e di capacità umana.
Valga come esempio che gli investimenti necessari per le trasformazioni nel campo energetico per raggiungere l’obiettivo di un riscaldamento globale di 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali sono stimati tra il 2015 e il 2050 in 900 miliardi di dollari, con un incremento medio del 12% rispetto a quelli, già molto consistenti, richiesti dall’obiettivo di innalzamento di 2°.

Dalla lettura del rapporto viene la conferma che gli interventi richiesti per raggiungere l’obiettivo di un riscaldamento globale di 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali e per fare in modo che questi interventi si traducano in una maggiore sostenibilità dello sviluppo e nella riduzione della povertà a livello mondiale implicano l’adozione nei vari paesi di politiche adeguate. che favoriscano le appropriate innovazioni tecnologiche e i necessari cambiamenti nei comportamenti.
Il rapporto mette in evidenza che una simile linea di azione potrà essere molto aiutata dall’accettazione pubblica, che peraltro dipende in ultima analisi dalle valutazioni individuali. Tutto questo sarà facilitato da interventi nell’educazione, nell’istruzione, nell’informazione, valorizzando anche le conoscenze indigene e locali.
Come sottolineato dall’accordo di Parigi, per realizzare gli obiettivi di riduzione del riscaldamento globale e del cambiamento climatico si deve partire dalle scelte strategiche delle singole nazioni, le Intended Nationally Determined Contributions (INDCs). Ma il rapporto insiste che la cooperazione internazionale, con un impegno soprattutto da parte dei paesi con economie più avanzate, è essenziale soprattutto perché i paesi in via di sviluppo e più vulnerabili agli impatti negativi del riscaldamento globale e del cambiamento climatico adottino le strategie più appropriate.
Si tratta di un rafforzamento di quanto sarebbe già richiesto per il raggiungimento dell’obiettivo di un riscaldamento globale di 2° rispetto ai livelli pre-industriali, obiettivo già di per sé così difficile da raggiungere che una istituzione importante come l’International Energy Agency si era preoccupata di formulare uno scenario ponte tale da garantire che anche il raggiungimento di quell’obiettivo non risultasse compromesso,
D’altra parte la prospettiva di un accordo globale, a livello almeno sostanziale se non proprio formale, per un aumento degli investimenti volto a favorire le innovazioni tecnologiche, le infrastrutture, le trasformazioni produttive al fine di costruire economie a sempre minore contenuto di carbonio, sembrerebbe essere una via quanto mai opportuna non solo per far uscire l’umanità dalla trappola nella quale si sta così spensieratamente infilando, ma anche per un rilancio stabile della crescita economica a livello globale che sia sostenibile e più equa sia a livello inter che intra generazionale.
L’accordo di Parigi era stato firmato anche dalla amministrazione Obama; ma il nuovo presidente degli Stati Uniti Trump ha imposto il ritiro degli Stati Uniti dell’accordo stesso, un cambiamento di rotta che ha gettato il mondo in un nuovo pessimismo, assestando un duro colpo alla consapevolezza del necessario radicale cambiamento di visione strategica contenuto nell’accordo di Parigi.
La stragrande maggioranza degli altri paesi firmatari dell’accordo hanno reagito con disappunto alla decisione di Trump, dichiarando un rafforzamento nel loro impegno nell’attuazione dell’accordo stesso; ma la decisione americana non facilita certo gli sforzi coordinati a livello internazionale necessari per affrontare un problema la cui drammaticità non accenna a diminuire.
Le ragioni espresse da Trump per motivare il ritiro sono sostanzialmente le stesse che il suo predecessore Bush utilizzò per bocciare l’adesione degli Stati Uniti al Protocollo di Kyoto ormai quasi vent’anni orsono: la sfiducia che, in base all’accordo di Parigi, i più importanti paesi emergenti, in particolare Cina e India, dai quali tendono a venire le emissioni di gas serra nel prossimi anni, siano indotti a fare qualcosa per invertire questa tendenza. In realtà almeno alcuni paesi emergenti, e proprio Cina India in particolare, si stanno impegnando nella strategia necessaria per la riduzione delle emissioni.
La Cina si è impegnata a ridurre le emissioni dopo un massimo che verrà raggiunto nel 2030 e ha piani per aumentare l’infrastruttura energetica basata sulle energie rinnovabili più consistenti di ogni altro paese al mondo. Paradossalmente è la Cina ad essere diventata uno dei paesi leader nella lotta mondiale contro il cambiamento climatico. L’India ha adottato una strategia basata sulla crescente adozione di energie non basate su combustibili fossili che è in armonia con la riduzione del riscaldamento di globale di 2° rispetto ai livelli pre-industriali, e si è messa nella linea di seguire le indicazioni di Parigi.
L’Unione Europea ha rafforzato il suo impegno sugli obiettivi di Parigi (compresa la riduzione del riscaldamento globale da 2° a 1,5° rispetto ai livelli preindustriali) nella deliberazione del Consiglio Europeo del febbraio di quest’anno. Non c’è però in questo documento alcuna menzione della preoccupazione suscitata dal ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi; c’è solo un riferimento indiretto nel passaggio nel quale si afferma che l’Europa guarda con molte speranze all’incontro della Azione Multilaterale sul Clima che dovrebbe essere convocato a Bruxelles tra Unione Europea Canada e Cina (quindi senza gli Stati Uniti). Questo nonostante ci siano state dichiarazioni da parte di Emanuel Macron e Angela Merkel che ogni futuro accordo commerciale importante con gli Stati Uniti dovrebbe essere subordinato a un re-impegno di questi ultimi nella direzione dell’accordo di Parigi. D’altra parte, anche sul tema del cambiamento climatico succede che, nei fatti, non tutti i paesi membri seguano le dichiarazioni dell’Unione Europea: recentemente solo 15 sui 28 ministri dell’ambiente dell’Unione Europea si sono impegnati sulla riduzione del riscaldamento globale a 1,5°.
In una situazione nella quale i segnali positivi ci sono, ma si accompagnano a evidenti contraddizioni, c’è da sperare che il rapporto dell’IPCC e il recente premio Nobel per l’economia assegnato a William Nordhaus, lo studioso che ha avuto il grande merito di aprire la strada ad uno studio serio e sistematico delle implicazioni economiche di una strategia di riduzione del cambiamento climatico, aiutino i decisori politici delle nazioni a comprendere, come conclude il rapporto dell’IPCC, che “gli sforzi collettivi a tutti i livelli, secondo modalità che riflettano le diverse circostanze e capacità, nel perseguire la limitazione del riscaldamento globale a 1,5°, tenendo conto dell’equità come dell’efficacia, possono facilitare il rafforzamento della risposta globale al cambiamento climatico, conseguendo al tempo stesso uno sviluppo sostenibile e lo sradicamento della povertà”.