Incrementalismo e connessione nella programmazione delle opere pubbliche: il nuovo rapporto con la pianificazione territoriale ed urbanistica

  1. Premessa
    Quando si affronta il tema del rapporto opere, “grandi” o “piccole” e territorio, è inevitabile che l’attenzione divenuta oramai prevalente sia quella rivolta all’impatto ambientale, sociale ed economico dell’opera sul territorio e, più in generale, sull’ambiente[1].
    Raramente ci si interroga sulla relazione contraria, cioè dell’impatto del territorio sull’opera. Se il rapporto non è fisiologico il territorio e la sua pianificazione possono “giocare” contro l’opera: il caso, ad esempio, è quello del mancato radicamento spesso delle opere costruite in occasione di «grandi eventi».
    Nella interrogazione su questo rapporto ci si dimentica anche dei principi giuridici, amministrativi ed organizzativi che lo regolamentano, nei due sensi.
    Ci si dimentica che il territorio non è solo una dimensione fisica che supporta più o meno bene un impatto, che ci si impegna anche a ridurlo o, nei casi in cui è impossibile farlo, a «compensarlo».
    Ci si dimentica che è il territorio, vasto o locale che genera la “domanda” che l’opera, qualunque opera, deve soddisfare.
  1. Opera e territorio nell’assetto giuridico ed organizzativo
    Tutte le opere, grandi e piccole – tornerò sulla questione delle dimensioni delle opere-, nel nostro ordinamento dovrebbero nascere da piani territoriali di area vasta o locali.
    Fino al 1977 si può dire che è stato così e non solo di regola. Non che prima non ci siano state deroghe a questo principio. Ma fu certamente il DPR n. 616/1977 – che allora definivamo la “seconda Costituzione” italiana -, a rendere fisiologica la deroga a questo principio. Oggi neanche lo ricordiamo che da questo assetto giuridico veniamo.
    Un esempio: ancora nel 1987-88, in occasione della progettazione dell’autostrada Aosta – Monte Bianco, un giudice, in un procedimento formale – si badi -, si interrogava del perché i piani particolareggiati attuativi dei piani regolatori dei comuni attraversati dalla nuova autostrada non avessero previsto e quindi “disegnato” il tracciato della nuova tratta autostradale! I comuni interessati erano pressoché tutti del tipo “comuni polvere” per di più!
    Il problema giuridico sollevato era quello delle varianti urbanistiche, approvate senza una formale procedura di variazione dello strumento urbanistico generale.
    La cosiddetta seconda Costituzione ruppe questa forse eccessiva rigidità[2], con la conseguenza però di delegittimare la pianificazione organica del territorio ed esaltare quasi compensativamente quella “di settore” – peraltro già forte del fatto che questa è accompagnata da una propria finanza -, quando non addirittura quella del “caso per caso”.
    Poi è nata la questione della localizzazione delle opere, quasi una dimensione a sé: la “legge Merloni”, la “Legge obiettivo”, la legislazione sugli espropri, ed altre leggi speciali.
    A nulla sono valse le coerenze interne ed esterne, i quadri programmatici, ecc., “per riportare” l’opera al territorio e il territorio alle opere, imposti da procedure di approvazione e di finanziamento delle opere.
    La dipendenza dell’opera dal piano è venuta meno, al punto che oramai è il piano che si conforma all’opera e non più l’opera che deve essere conforme al piano.
    Lasciamo questa questione che può sembrare eccessivamente giuridicistica, se non addirittura astratta, comunque non più all’ordine del giorno, per venire ad altre due questioni:

    • la prima, la nozione di grande opera;
    • la seconda, quella di rete di opere, lineari o puntuali;

    Credo che molto spesso si confonda tra grande opera e grande cantiere: la politica, la legislazione, la comunicazione e il dibattito pubblico hanno molto contribuito a ciò.
    Ma una grande opera è, ad esempio, anche quella per lo studio delle condizioni del sottosuolo del Colosseo, tanta è la difficoltà tecnica, o l’impiego di mezzi anche molto sofisticati.
    È indubbio che una ferrovia, un’autostrada, un aeroporto, un ospedale, ad esempio, comportino l’installazione di un grande cantiere.
    Ma non tutti i grandi cantieri sono grandi opere, nel senso di opere che risolvono grandi problemi e/o che implicano una grande complessità tecnica, l’impiego di tecnologie speciali, ecc.
    Il crollo del Ponte Morandi a Genova ha fatto comprendere a tutti la sua importanza ben oltre la sua dimensione fisica: si trattava di una delle opere d’arte che componevano l’”Autostrada A10”.
    Ma la stessa cosa è accaduta nel caso della rottura del tombino posto in un fosso tra Crignes e Mortisa, frazioni di Cortina D’Ampezzo, avvenuta pochi giorni prima del crollo del “Morandi”, che ha fatto crollare un piccolo ponte.
    Nel caso dell’A10, si tratta di un collegamento di rilievo non solo nazionale, ma addirittura internazionale; nel caso di Cortina D’Ampezzo, di un collegamento tra frazioni e con il capoluogo del Comune.
    È così che scopriamo – purtroppo quando accade un evento calamitoso – che non c’è connessione nella rete ferroviaria o stradale, che le reti primarie sono sovraccariche di traffico, ecc.
    Ed è per questo che si è costruita la retorica delle grandi opere, sia da parte di chi le propone che da parte di chi le contesta[3].
    Senza un esplicito disegno dell’assetto voluto del territorio è aleatoria ogni valutazione dell’importanza delle opere e quindi, ad esempio, la scelta della priorità.
    Solo in base ad un disegno esplicito e condiviso dell’assetto futuro del territorio si potranno fare scelte non giustificabili nella stretta logica dell’ABC e di ogni altra tecnica di aiuto alla decisione, in specie di quelle, appunto come l’ABC, di tipo unicriterio. E sì che oggi si vorrebbe un risultato certo dalla sua applicazione anche con i cantieri aperti e non solo sui progetti di opere: il caso è quello della TAV in Valsusa o del Terzo Valico a Genova.
    In tutte e due i casi di crolli sopra ricordati la criticità che si è creata è relativamente grande!

  1. Le due opere “vivono” nel territorio: nazionale-locale nel primo caso, solo locale nel secondo.
    Ma appartengono ai rispettivi territori, da questi sono vissute, abitate e come tali possedute.
    Non è azzardato definirle, alla loro scala, grandi opere.
    Probabilmente era difficile leggerle come tali – senz’altro nel caso del tombino di Mortisa –, allorché ne è stata decisa la costruzione.
    Oggi che le relazioni sociali ed economiche che queste opere consentivano sono spezzate, se ne comprende l’importanza. Ripeto: alla scala propria delle specifiche relazioni.
    La nozione di grande opera dovrebbe essere utilizzata quando le opere “creano” territori o consentono il loro rinnovo, indipendentemente dalla loro dimensione fisica. Se le opere non hanno questa funzione si dovrebbe parlare esclusivamente di grandi canteri. E ciò non è certo né una sottovalutazione della loro importanza né disprezzo per le grandi opere edili che, appunto, necessitano di grandi cantieri. Fonte spesso di fascino di per sé.
    Grandi opere sono, ovviamente, quelle per migliorare l’assetto idrogeologico del territorio, la prevenzione sismica, la sicurezza degli edifici strategici ed in generale la manutenzione dell’esistente. Sia se sono concentrate in un luogo, su un singolo edificio che diffuse nel territorio.
    Oramai che le dotazioni territoriali – opere lineari e attrezzature e, più in generale, le urbanizzazioni – sono diffuse un po’ in tutto il territorio, è difficile riconoscere quali opere sono “strutturanti” (il territorio) e quelle non che non lo sono.
    Questa era la storica distinzione tra le opere, in ispecie, di quelle infrastrutturali.
    Le strutturanti (di allora) non solo erano le grandi o le strategiche di oggi, ma costruivano il territorio. Al netto del fatto che strategiche sono per definizione quelle per la difesa del paese, le sedi delle istituzioni pubbliche, le attrezzature primarie, ecc.
  1. Incrementalità contro connessione. Lo ieri e l’oggi della pianificazione delle attrezzature e delle infrastrutture
    Tradizionalmente la pianificazione delle attrezzature e delle infrastrutture – così, da tempo diciamo – è di tipo incrementale. Procede per «aggiunte»[4].
    E non solo nella pianificazione di attrezzature e infrastrutture. Anche nella pianificazione urbana è stato così. Una nuova «porzione» di città viene aggiunta alla città esistente. Non a caso il meraviglioso pezzo di città voluto degli estensi a Ferrara si chiama «addizione erculea»!
    Più raramente si sostituisce ed ancora più raramente si rinnova, soprattutto nel senso che si abbatte e si ricostruisce.
    Tendiamo a sfruttare il più possibile i cosiddetti «capitali fissi sociali», come dicevano quando eravamo tutti un po’ marxisti.
    L’incrementalismo è stato più evidente nel campo delle reti. Abbiamo quasi sempre aggiunto «aste»: il sistema è diventato reticolare di fatto. Anche se spesso si è proceduto «a strappi». Le aggiunte sono state pensate come quasi autosufficienti; si è ritenuto che potessero essere autonome, capaci di soddisfare da sole la domanda; ad esempio, di spostamento delle persone, delle merci e delle informazioni.
    Spesso le cosiddette grandi opere hanno coinciso con questi strappi.
    Si è però finalmente compreso che così non era e non poteva essere.
    La rete, è noto, è per definizione gerarchica. Non è mai del tutto isotropa. Alcune aste ed alcuni nodi sono prevalenti. Non a caso la rete stradale è stata piegata per portare il traffico sulle tratte autostradali, in specie quando queste sono a pedaggio. Si è alterata la geografia delle relazioni e quindi lo spazio, ma si è anche risparmiato sull’adeguamento di «tutta» la rete. A scapito spesso della riconoscibilità del territorio.
    Altrettanto è avvenuto con l’alta velocità ferroviaria. Solo dopo alcuni anni si è compreso che la rete non ad alta velocità serve non solo ai pendolari, ma anche ad alimentare le stesse tratte ad alta velocità. Il TGV, dopo una prima fase, è stato comunicato come una «chance» dei territori regionali!
    Da ciò la sostituzione della nozione di incrementalismo con quella di integrazione/o connessione.
    A ben guardare la differenza è solo apparente: non è detto che un incrementalismo intelligentemente applicato non risponda alla logica della integrazione e della connessione.
    È a questo punto del ragionamento che l’integrazione e la connessione di rete – peraltro obiettivo ottimo – non è più sufficiente: l’integrazione e la connessione va realizzata anche con il territorio.
    Non tanto e solo in quanto dimensione fisica, ma soprattutto in quanto «deposito» della domanda. Nel caso delle infrastrutture di trasporto, della domanda di spostamento nelle molteplici forme: per lunghezza; per modalità di effettuazione dello spostamento; per la ragione dello spostamento; per la disponibilità a pagare per lo spostamento, ecc..
    Identico ragionamento è quello che va fatto per il trasporto delle merci e delle informazioni.
  1. Conclusioni (ovviamente) provvisorie
    L’uso dell’avverbio ovviamente non è di maniera. La materia è in continua evoluzione, come sempre quando ci si avvicina a nozioni quali territorio e città. Da ciò le interpretazioni, sempre nuove e sempre vecchie, che se ne fanno.
    Di seguito il tentativo di riassunto degli argomenti trattati:

    • nell’impatto più o meno ridotto e/o compensato, ambientale, sociale ed economico, dell’opera sul territorio, non si esaurisce il rapporto opere/territorio;
    • il rapporto tra opere e territorio è, sotto il profilo dell’assetto giuridico formale degli interessi, di dipendenza. Il territorio “comanda”. O meglio comanderebbe.

    Di fatto, oramai, è il territorio, cioè il piano, nelle diverse fattispecie, a conformarsi all’opera:

    • l’opera non è più strutturante il territorio. Questa antica funzione, nei territori “maturi” è oramai divenuta secondaria. Solo quando l’opera è nuova nella natura e nella funzione, può avere ancora questa capacità. È questo il caso dell’innovazione di funzioni ed usi, che anche senza avere un rilievo particolare dal punto di vista della dimensione fisica, innovano territorio e città. Da ciò la prevalenza nelle economie mature degli “usi” del territorio rispetto agli “assetti”, nel senso che alla nozione di assetto davamo ai tempi del DPR 616/1977, la cosiddetta seconda Costituzione italiana;
    • ciò porta a distinguere nettamente tra la dimensione delle opere rispetto alle funzioni che consentono ed agli usi che si fanno del territorio (meglio del suolo) da esse occupato. Termine che ci riporta alla questione, molto complessa e divisiva, di consumo di suolo. Prima nell’ideologia che nella quantità. È la funzione e non la dimensione a poter dire che un’opera è una grande opera e non (semplicemente) un grande cantiere. A volte sarebbe meglio usare la nozione di grande cantiere o grande progetto, piuttosto che quella di grande opera;
    • nella pianificazione delle opere, siano quelle «puntuali» che quelle «lineari», è sempre alla «rete» che si deve traguardare. L’incrementalismo, tipico della pianificazione delle attrezzature ed infrastrutture, deve oggi coincidere con la logica dell’integrazione e/o della connessione. L’addizione, conseguenza del mero incrementalismo, non può essere più l’obiettivo primario della pianificazione di attrezzature e infrastrutture;
    • la sostituzione e più in generale il rinnovo delle dotazioni territoriali, è il nuovo «must» della pianificazione di settore. La integrazione/connessione non riguarda solo la rete di attrezzature e infrastrutture, quindi l’integrazione e la complementarietà per specializzazione, ma anche l’integrazione con il territorio, nella dimensione dell’area vasta e locale, conseguenza della natura ed entità della domanda che attrezzature e infrastrutture debbono soddisfare, «depositata» nel territorio;
    • emerge quindi un ulteriore funzione del territorio nel rapporto con le opere: quella di accompagnamento lungo la loro vita (esercizio e gestione); non solo quindi nella fase di concezione e in quella di costruzione delle opere. O nella sola riduzione/compensazione degli impatti nella fase di concezione. In questa logica va trovata la priorità tra le opere, che non risiede nella grandezza. raccoglie la seguente dichiarazione: «Meno burocrazia e progetti di qualità»[5]. Nel contesto di un ragionamento dal quale emerge la preferenza per le piccole opere;
    • il rapporto armonico tra opera e territorio può essere messo in crisi sia dal lato del territorio che da quello dell’opera. La crisi può avere la faccia della marginalizzazione come quella della sovrautilizzazione delle opere;
    • né piccole né grandi di per sé, ma soprattutto utili ed integrate, per dirla con l’ex ministro Paolo Costa. Comunque nel concepirle mai si deve essere affetti dalla crisi di onnipotenza che ha alimentato spesso “l’over design” nella progettazione, anche legislativa e finanziaria delle opere e non solo in quella costruttiva. Il nuovo imperativo è espresso nella parola inglese «shrinking» che si traduce con sobrietà. E la deriva dell’over design, non deve colpire, ripeto, neanche il legislatore;
    • grandi o piccole, le opere pubbliche dipendono dagli investimenti. Solo quelli “buoni” producono gli effetti di crescita sperati: qualche punto di PIL. Quelli “cattivi” producono addirittura punti negativi, ben superiori a quelli positivi;
    • quando un investimento pubblico si può definire “buono”? Questo è il problema.
      L’esperienza porta a dire che due sono i requisiti: la rispondenza alla domanda pubblica e la qualità del ciclo programmazione-progettazione-costruzione- collaudazione–gestione, esercizio delle opere.
      Quindi, alla base c’è la qualità della domanda pubblica: come si forma, come si decide, come si finanzia.
      Più della quantità delle risorse, contano infatti le modalità di erogazione: certezza, regolarità nel pagamento degli avanzamenti dei lavori, ecc.
      Una stazione appaltante – è ovvio – negozia meglio se dispone di risorse adeguate soprattutto nella fase iniziale del processo di realizzazione. La sua capacità contrattuale è maggiore in quanto è più affidabile. Non è solo più forte perché dispone di più risorse.
      Nell’aggiudicazione di un appalto l’affidabilità della committenza è, di fatto, divenuta almeno importante quanto quella degli offerenti.
      Ovviamente non mi riferisco solo all’oggetto della qualificazione delle stazioni appaltanti tanto esaltata – e tanto irrealizzata – dal Codice dei contratti del 2016.
      Inerisce anche la sua affidabilità economico-finanziaria.
      Il problema non riguarda solo chi opera con finanza derivata.
      Anche chi dispone di finanza propria deve dimostrare affidabilità, cioè la capacità di mantenere gli impegni nel tempo.
      Ad iniziare dalla “continuità amministrativa” che non sembra più essere considerata una virtù della pubblica amministrazione!
      Nella valutazione dei progetti – l’ABC ed altre tecniche di aiuto alla decisione, uni e multicriteri che si utilizzano -, si devono considerare anche gli obiettivi di lungo periodo, cioè il futuro che si vuole, e non solo la «domanda pregressa» o le criticità presenti al momento della sua programmazione. E neanche il solo rendimento degli investimenti. Altrimenti rischiamo di investire solo nelle parti ricche del paese. Che è quello che abbiamo fatto negli ultimi anni.

Note

1.  Intervento alla tavola rotonda tenutasi il 17/10/2018 a Bologna nell’ambito delle giornate Federbeton sul tema de “Il valore del costruire bene” (SAIE, 2018).

2.  L’urbanista francese Anne Durand, ancora si interroga sulla rigidità della pianificazione in Francia: A.Durand, “Mutabilité ou plan. Pour une autre conception des dynamiques urbaines”, «Le Monde», 04.10.2018. Da noi sono oramai molto ampi i margini di flessibilità.

3.  Molto significativi i due volumi seguenti: S. Quadruppani, Le Monde des Grands Projets et ses ennemis, La Découverte, Parigi 2018; Des Plumes dans le Goudron, Résister aux grands projets inutiles et imposés. De Notre – Dame – des Landes à Buren, Textuel, Parigi 2018.

4.  Il ministro dei trasporti francese Elisabeth Borne ha annunciato la fine dell’«addiction aux grands projets». Nell’intervista rilasciata a Le Monde (11/10/2018) ha anticipato questo orientamento al quale si ispirerà la nuova “legge di orientamento della mobilità” (LOM), che sarà presentata dal governo fine ottobre 2018.
Il problema che la preoccupa è soprattutto di ordine finanziario: le grandi opere sono in gran parte in un’«impasse» finanziario e non risponderebbero completamente ai bisogni dei cittadini.

5.  “La Stampa” del 3 ottobre 2018, del consulente del MEF, Pasquale Scandizzo, al quale sembra sia stato affidato il nuovo nucleo di valutazione (tipo il vecchio FIO dell’epoca del Ministro Andreatta).