Incrementalismo e connessione nella programmazione delle opere pubbliche: il nuovo rapporto con la pianificazione territoriale ed urbanistica
di Francesco Karrer
- 6 Novembre 2018
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- ciò porta a distinguere nettamente tra la dimensione delle opere rispetto alle funzioni che consentono ed agli usi che si fanno del territorio (meglio del suolo) da esse occupato. Termine che ci riporta alla questione, molto complessa e divisiva, di consumo di suolo. Prima nell’ideologia che nella quantità. È la funzione e non la dimensione a poter dire che un’opera è una grande opera e non (semplicemente) un grande cantiere. A volte sarebbe meglio usare la nozione di grande cantiere o grande progetto, piuttosto che quella di grande opera;
- nella pianificazione delle opere, siano quelle «puntuali» che quelle «lineari», è sempre alla «rete» che si deve traguardare. L’incrementalismo, tipico della pianificazione delle attrezzature ed infrastrutture, deve oggi coincidere con la logica dell’integrazione e/o della connessione. L’addizione, conseguenza del mero incrementalismo, non può essere più l’obiettivo primario della pianificazione di attrezzature e infrastrutture;
- la sostituzione e più in generale il rinnovo delle dotazioni territoriali, è il nuovo «must» della pianificazione di settore. La integrazione/connessione non riguarda solo la rete di attrezzature e infrastrutture, quindi l’integrazione e la complementarietà per specializzazione, ma anche l’integrazione con il territorio, nella dimensione dell’area vasta e locale, conseguenza della natura ed entità della domanda che attrezzature e infrastrutture debbono soddisfare, «depositata» nel territorio;
- emerge quindi un ulteriore funzione del territorio nel rapporto con le opere: quella di accompagnamento lungo la loro vita (esercizio e gestione); non solo quindi nella fase di concezione e in quella di costruzione delle opere. O nella sola riduzione/compensazione degli impatti nella fase di concezione. In questa logica va trovata la priorità tra le opere, che non risiede nella grandezza. raccoglie la seguente dichiarazione: «Meno burocrazia e progetti di qualità»[5]. Nel contesto di un ragionamento dal quale emerge la preferenza per le piccole opere;
- il rapporto armonico tra opera e territorio può essere messo in crisi sia dal lato del territorio che da quello dell’opera. La crisi può avere la faccia della marginalizzazione come quella della sovrautilizzazione delle opere;
- né piccole né grandi di per sé, ma soprattutto utili ed integrate, per dirla con l’ex ministro Paolo Costa. Comunque nel concepirle mai si deve essere affetti dalla crisi di onnipotenza che ha alimentato spesso “l’over design” nella progettazione, anche legislativa e finanziaria delle opere e non solo in quella costruttiva. Il nuovo imperativo è espresso nella parola inglese «shrinking» che si traduce con sobrietà. E la deriva dell’over design, non deve colpire, ripeto, neanche il legislatore;
- grandi o piccole, le opere pubbliche dipendono dagli investimenti. Solo quelli “buoni” producono gli effetti di crescita sperati: qualche punto di PIL. Quelli “cattivi” producono addirittura punti negativi, ben superiori a quelli positivi;
- quando un investimento pubblico si può definire “buono”? Questo è il problema.
L’esperienza porta a dire che due sono i requisiti: la rispondenza alla domanda pubblica e la qualità del ciclo programmazione-progettazione-costruzione- collaudazione–gestione, esercizio delle opere.
Quindi, alla base c’è la qualità della domanda pubblica: come si forma, come si decide, come si finanzia.
Più della quantità delle risorse, contano infatti le modalità di erogazione: certezza, regolarità nel pagamento degli avanzamenti dei lavori, ecc.
Una stazione appaltante – è ovvio – negozia meglio se dispone di risorse adeguate soprattutto nella fase iniziale del processo di realizzazione. La sua capacità contrattuale è maggiore in quanto è più affidabile. Non è solo più forte perché dispone di più risorse.
Nell’aggiudicazione di un appalto l’affidabilità della committenza è, di fatto, divenuta almeno importante quanto quella degli offerenti.
Ovviamente non mi riferisco solo all’oggetto della qualificazione delle stazioni appaltanti tanto esaltata – e tanto irrealizzata – dal Codice dei contratti del 2016.
Inerisce anche la sua affidabilità economico-finanziaria.
Il problema non riguarda solo chi opera con finanza derivata.
Anche chi dispone di finanza propria deve dimostrare affidabilità, cioè la capacità di mantenere gli impegni nel tempo.
Ad iniziare dalla “continuità amministrativa” che non sembra più essere considerata una virtù della pubblica amministrazione!
Nella valutazione dei progetti – l’ABC ed altre tecniche di aiuto alla decisione, uni e multicriteri che si utilizzano -, si devono considerare anche gli obiettivi di lungo periodo, cioè il futuro che si vuole, e non solo la «domanda pregressa» o le criticità presenti al momento della sua programmazione. E neanche il solo rendimento degli investimenti. Altrimenti rischiamo di investire solo nelle parti ricche del paese. Che è quello che abbiamo fatto negli ultimi anni.
Note
5. “La Stampa” del 3 ottobre 2018, del consulente del MEF, Pasquale Scandizzo, al quale sembra sia stato affidato il nuovo nucleo di valutazione (tipo il vecchio FIO dell’epoca del Ministro Andreatta). ↑