Il Gerone di Senofonte e la vocazione di Simonide

Il piccolo capolavoro di Senofonte, chiamato Gerone, è stato oggetto di numerose interpretazioni e merita di essere letto e riletto nel tempo presente.
Il dialogo, affascinante, come nota Alexandre Kojève, “contrappone ad un tiranno disincantato, che si dichiara scontento della propria condizione di tiranno, un saggio venuto da lontano per dargli consigli sul modo migliore di governare lo Stato”[1].
Si tratta di un dialogo sul rapporto fra sapere e potere, ma anche sul rapporto fra tirannide e bene comune, fra politica e limiti od (autolimiti) di essa.
Sulla impossibilità di tale rapporto, sulla radicale incomponibilità di queste due dimensioni della vita, sull’attrazione reciproca, potrebbe dirsi fatale che si crea fra loro, con il tiranno che vorrebbe governare saggiamente ed essere amato e con il poeta-filosofo, il saggio, che vorrebbe, per una volta, uscire dai suoi libri per cambiare il mondo.
Simonide, il saggio, dà consigli al tiranno Gerone in modo spontaneo e, per quanto possibile, disinteressato, Gerone lo ascolta e non dice nulla.
Kojève suggerisce che il silenzio della tirannide comporta solo una conclusione: il tiranno non si avvarrà dei consigli del saggio pur sapendo che sono giusti.
Il punto è che se il tiranno si conducesse con saggezza smetterebbe di essere tiranno (e metterebbe a rischio il suo potere che è l’unica cosa che egli non può fare).
D’altra parte, se il potere fosse in mano ai saggi, questi ultimi sarebbero costretti ad atteggiarsi tirannicamente e quindi smetterebbero di essere saggi (“E’ proprio questa la più grande disgrazia della tirannide – dice Gerone – non ce ne si può disfare”).
Il sapere ed il potere si attraggono reciprocamente senza incontrarsi mai. La loro per Senofonte è la storia di un amore impossibile.
Per conquistare il potere e, talvolta, per mantenerlo, l’uomo di azione mette in atto misure impopolari, così dice Gerone, che vuole essere amato (a dispetto del suo comportamento che gli attira odio).
Simonide, consapevole di ciò, suggerisce che sia possibile mantenere il potere rinunciando alla violenza adottando cioè misure popolari (e sogna, probabilmente, di trasformarsi da poeta in celebrato consigliere del principe, sogno che spesso finisce in disillusione).
Tutti e due sono populisti, si direbbe oggi, vogliono essere riconosciuti ed amati, l’uno vuole che il popolo gli tributi l’amore, il consenso che si lega al buon governo di cui la tirannide, per la dura necessità della storia, non è capace; l’altro ama l’idea di addomesticare il potere, di renderlo più umano.
Simonide, nota Kojève, si comporta da tipico intellettuale che critica il mondo a partire da un ideale presentato in forma utopica (non rivoluzionaria; per questo – forse – disponibile alla cortigianeria).
Leo Strauss, altro storico commentatore del testo,[2] dice che Simonide non è un filosofo ma in realtà è un poeta, quindi uomo preda di idee astratte.
Gerone si comporta da vero liberale, avverte la giustezza della posizione di Simonide, ma ne sente anche l’impraticabilità reale, quindi non dice nulla, non decide nulla, lascia che il poeta-filosofo parli e se ne vada in pace.
Il mondo non muta, non può mutare; l’amore, l’attrazione reciproca di sapere e potere si chiudono con un nulla di fatto.
Una radicale impotenza caratterizza tutto il dialogo, che assume l’aspetto di un apologo negativo.
La radicale non addomesticabilità della tirannide è però un altro insegnamento del dialogo. Kojève ritiene fosse questo il pensiero ultimo di Senofonte e di Strauss.
La tirannide non può essere buona, amabile, quindi, occorre evitare in tutti i modi che essa si instauri, prima che sia troppo tardi.
Questa è anche la consapevolezza del costituzionalismo moderno, che intende contrastare ogni possibile svuotamento della democrazia e dei diritti umani, già avvenuto con le costituzioni flessibili, mediante la previsione delle istituzioni di garanzia e delle corti costituzionali.
Il costituzionalismo moderno ha un duplice fondamento quindi: un’antropologia positiva e progressiva che ha le sue radici nell’illuminismo ed un’antropologia negativa basata sul principio di minimizzazione dei danni che ha le sue radici nel pensiero politico antico (nelle idee di Polibio e Cicerone sul tempo storico ciclico ed il governo misto).
Kojève – a differenza di Strauss ma anche del pensiero costituzionalistico – ritiene che le tirannidi moderne (ha vissuto il tempo della crisi ed ha incarnato il pensiero della crisi) possano essere amabili (e fa l’esempio – datato – del salazarismo), in ciò mostrando la sua tardo-hegeliana attrazione – comune a molti intellettuali del Novecento – per il totalitarismo e la convinzione (gravida di nefaste conseguenze) che esso sia capace di realizzare il bene comune, quando posto a servizio di utopie rivoluzionarie.
Potrebbe essere ascritto fra i pensatori neo-autoritari del mondo contemporaneo.
Tuttavia il suo pensiero non è banale e merita una meditazione che non si fermi a questa constatazione.
Kojève è capace di una dialettica vertiginosa.
Sua è la notazione per cui il dialogo fra Gerone e Simonide ricorda la tragedia del Signore che domina la dialettica servo padrone della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, con la differenza che in questo caso il dialogo non ha alcuno sbocco e la situazione finisce in un perfetto stallo.
Quella fra il tiranno ed il filosofo è una lotta per il riconoscimento come quella fra servo e padrone in Hegel.
Gerone ad un certo punta nota con amarezza che “l’amore non vuole concedersi al tiranno… come colui che non ha sete non prova piacere a bere, colui che non sa cosa sia l’amore non sa cosa sia la dolce voluttà”.
L’importante non sono i favori che il tiranno può ottenere con facilità ma quelli impossibili da ottenere fra cui l’amore.
Il tiranno di Senofonte, ritenendo di avere meno accesso ai piaceri di un privato, vuole essere amato, quindi la sua è una tragedia dell’amore.
I piaceri più dolci sono – ce lo dice il comune buon senso – quelli che si concedono spontaneamente, inaccessibili al tiranno.
Per Kojève Gerone – uomo del mondo antico – confonde l’amore con l’affetto, anzi, con il bisogno di riconoscimento. Gerone parla di amore, ma tale espressione va letta come bisogno di riconoscimento.
La tirannide, l’azione politica in genere – nota Kojève – non generano amore, né affetto, né felicità, i cittadini possono amare o avere affetto per un politico mediocre e detestare un grande uomo di Stato, che, al più, può sperare di essere ammirato ma non suscita alcun amore; una vita pubblica di successo può coniugarsi ad una vita privata perfettamente infelice. Gerone quindi, ad uno sguardo moderno, faustiano, risulta persino patetico nella sua aspirazione insoddisfatta.
L’amore citato da Senofonte diviene così, nella lettura di Kojève, bisogno di riconoscimento, giuoco di immagini, poco soddisfacente certo, ma ben noto al mondo contemporaneo della società della comunicazione e dello spettacolo.

Ma v’è di più: essere riconosciuti senza paura né amore, ma spontaneamente, è il mistero dell’autorità.
Il tiranno impone la sua autorità, il politico democratico la suscita.
Ma come il politico susciti tale autorità; su cosa la susciti; non sono questioni indifferenti ai moderni (dopo la Shoah e l’istituzione delle corti costituzionali, custodi di un potere perennemente limitato), mentre non erano nell’orizzonte del pensiero antico e nemmeno interessavano a Kojève, che dispensa consigli sia al tiranno (moderno) sia all’intellettuale (moderno); invitando il primo a perseguire il bene comune per raggiungere uno Stato universale ed omogeneo in cui i cittadini non prestino un’obbedienza servile ed il secondo a formulare un discorso non utopistico ma pragmatico.
Qui si incontra il tema della vocazione di Simonide (come di ogni intellettuale).
Kojève ritiene che il filosofo (non il poeta) ben possa fornire consigli realistici, in questo avendo un vantaggio relativo rispetto ad ogni altro uomo ed al politico in particolare: 1) esperienza nell’arte della discussione o dialettica con sottigliezze non paragonabili a quelle di ogni altro uomo che non vi si sia dedicato; 2) attitudine a non avere pregiudizi; 3) attitudine allo studio del reale ed alle lezioni della concretezza.
Ne deduce che Gerone, rimanendo silenzioso, abbia potuto sentire invidia o diffidenza nei confronti di Simonide, pensando che egli avrebbe potuto sostituirlo nell’arte di governare senza usare la forza.
Tale paura del tiranno è secondo Kojève infondata: il filosofo ha – come ogni uomo – un tempo limitato, egli per vocazione cerca la saggezza; la ricerca della saggezza è incompatibile con l’azione, anche con l’azione di governo. Il filosofo rinuncia all’azione politica per non perdere se stesso.
Alla fine l’unica richiesta che il filosofo di norma rivolge al tiranno è di essere lasciato in pace a coltivare i suoi studi nel proprio aristocratico giardino o nella borghese repubblica delle lettere.
Quest’esito per Kojève è deludente: egli conclude le sue considerazioni quindi invitando gli intellettuali a superare la Repubblica delle lettere, a prendere parte alla vita storica, ad incontrare la folla (Canetti avrebbe detto la massa), a rifuggire dalla tentazione di piacere solo ad una piccola minoranza, ad evitare ogni spirito di parrocchia, potremmo dire che invita gli intellettuali ad un instancabile lavoro culturale aperto al miglioramento sociale, del quale si sente ancor oggi (più che mai) il bisogno.
Per Strauss Gerone vorrebbe essere amato dagli umani, Simonide solo da una piccola minoranza, il primo può essere amato solo per i benefici che arreca, il secondo solo per la sua perfezione. Con ciò il divorzio (liberale e conservatore, elitario e antimoderno) fra sapere e potere raggiunge il suo acme.
Kojève ritiene che in fondo tiranno e filosofo vogliano la stessa cosa, essere riconosciuti e riconosciuti per le loro azioni, non per altro. Si viene amati per ciò che si è; si viene riconosciuti per ciò che si fa.
Questo appello ante litteram al lavoro intellettuale nella società non è rimasto inascoltato nella storia costituzionale. Le costituzioni rigide hanno chiamato gli intellettuali (giuristi non filosofi ma i giudici costituzionali hanno doti filosofiche) a porre limiti al potere; ad una funzione pratica quindi, ad una pedagogia filosofico-politica o filosofico-giuridica (nel senso in cui al diritto spetta porre limiti alla politica nello Stato costituzionale).
Il “sogno” dello Stato costituzionale è che il consenso della folla non sia incompatibile con il giudizio di giudici competenti; la Corte costituzionale appare il luogo in cui sapere e potere possono trovare la loro conciliazione.
Anche il Consiglio di Stato, nell’ordinamento pre-costituzionale, era un luogo di conciliazione di tal fatta, di cui difficilmente potrà mai farsi a meno fino a quando esisterà uno Stato – amministrazione.
Il modo “socratico” (indifferente alle opinioni dei più) o hegeliano (attento allo spirito del tempo) di leggere la propria funzione è rimesso a ciascun giudice.
Ma solo il superamento del silenzio del tiranno e l’ascolto degli insegnamenti derivanti dalla pedagogia filosofico-giuridica delle corti ci consegna ad una politica che non sia fatta solo di desiderio illimitato di piacere.
Gerone e Simonide, Faust ed Amleto se si vuole: il loro conflitto ci porta verso la tragedia moderna, la loro composizione richiede un duplice movimento della politica verso la saggezza e della saggezza verso la politica ed apre al progresso storico, ad un movimento aperto, senza soluzione definitiva certo, ma connotato dalla speranza.

Note

1. A. Kojève Il silenzio della Tirannide, Milano 2004.

2. L. Strauss La tirannide. Saggio sul Gerone di Senofonte Milano 1968 .