L’orologio a cucù

“In trent’anni sotto i Borgia in Italia si sono avuti assassini, guerre, terrore e massacri, ma hanno anche prodotto Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù.”
Come tutti sanno, questa frase viene pronunciata da Orson Welles nel grande film “il terzo uomo” di Carol Leed.
Difficile trovare qualcosa di meglio per descrivere in modo paradigmatico la vicenda del cosiddetto “processo di valorizzazione e riconversione” del patrimonio immobiliare del demanio militare italiano, se non forse la più banale e popolare frase “la montagna che partorisce il topolino”.
Questa è la percezione che si riceve quando si leggono le narcisistiche e trionfalistiche dichiarazioni dell’Agenzia del Demanio che decanta da circa 4 anni le meraviglie della “valorizzazione” di ben 24 più 17 strutture costiere assegnate o assegnande a organizzazioni private con lo strumento della concessione di valorizzazione per ben 50 anni e con la lauta prospettiva di benefici economici attesi nientedimeno che di 60 milioni di euro, tutti da dimostrare naturalmente.
Si tratta del mitico “Piano Fari”, rientrante nell’ancor più mitico progetto dall’ineffabile slogan “Valore Paese”.
Chi ebbe l’imprudenza di iscriversi alla Facoltà di Architettura alla fine degli anni’60 scoperse che uno dei primissimi esami da affrontare era la cosiddetta “composizione architettonica”, quell’attività, in sostanza, che racchiudeva tutto l’immenso scibile dell’Architetto Demiurgo: la progettazione.
L’esame si ripeteva per 5 anni fino alla laurea. Il tema del primo anno era la dismissione e la riqualificazione delle caserme di viale delle Milizie a Roma, un’enorme spina urbana realizzata alla fine del XIX secolo che divide viale delle Milizie da viale Giulio Cesare e si stende, in pieno centro città, per una lunghezza di ben 740 metri e una larghezza di 150 metri, occupando quindi la rispettabile area di poco più di 10 ettari (quanto basterebbe per accogliere, tanto per restare in zona, l’ingombro di 4 “Palazzacci”).
Perché 49 anni fa si dava agli studenti di primo pelo il tema di sviluppare idee su una diversa utilizzazione del complesso delle caserme? Perché, nonostante si fosse in piena guerra fredda e nonostante la leva obbligatoria fosse viva e vegeta, si era già capito che un complesso immobiliare di quelle dimensioni al centro di Roma, con quelle caratteristiche e funzioni non aveva piú senso.
A quasi 50 anni di distanza abbiamo gli armadi della Facoltà di Architettura pieni di rotoli ingialliti di disegni e di buone intenzioni, la Guerra Fredda finita da 28 anni, la leva obbligatoria abolita da 14 anni, le esigenze dell’esercito moderno e del cosiddetto Defense Estate completamente mutate, i problemi di Roma, con i suoi spazi e i suoi servizi in degrado dilagante, ingigantiti a dismisura, ma le caserme sono ancora lì, belle, imponenti, inutili e inamovibili.
Però abbiamo la soddisfazione di sapere che su tremila chilometri di coste una trentina di piccoli fari (la parte vivibile, non la torretta che porta la luce, che ormai viene comandata elettronicamente e quindi la romantica figura del guardiano del faro non serve più) sono il vanto di una moderna concezione dell’uso del patrimonio immobiliare pubblico, e di un grande sforzo creativo e corale che ha visto impegnati per anni organi vitali dello Stato, combattendo spessissimo contro se stessi, cioè l’ottusità della burocrazia, per ottenere risultati di medio lungo periodo in termini di manutenzione, gestione efficace e ricadute sul territorio che appaiono quantomeno mediocri e andranno tutti verificati da qui ai prossimi 10 anni.
Ma il tema della riconversione del patrimonio immobiliare militare si presenta ad una scala che in realtà va ben oltre Roma e i fari.
Paradossalmente, in alcuni casi, le enormi estensioni di territorio off limits, perché recintate e segnalate da quei cartelli gialli con su scritto “limite invalicabile”, hanno costituito un presidio a difesa, se non dalle invasioni, perlomeno del paesaggio dalla selvaggia aggressione, per esempio delle coste, operata dal dopoguerra in poi dall’abusivismo, legalizzato o no, alla stessa stregua della barriera difensiva che ha costituito, in particolare sulla costa adriatica, quell’unico binario ferroviario che correva su massicciate su cui si frangevano i flutti (e ora che sono stati quasi tutti arretrati tremano le vene dei polsi al pensiero di quello che potrà succedere).
Resta però intatto il problema del demanio militare, ovvero di importanti porzioni di territorio, spesso di solo terreno, altrettanto spesso di complessi di edifici all’esterno ed all’interno di tessuti urbani consolidati, del tutto anacronistici, spuri e anomali rispetto al contesto circostante.
Tanto per cominciare, a meno che non si ripristini la leva obbligatoria (e forse qui qualche riflessione, mettendosi la mano sulla coscienza, bisognerebbe farla sulla funzione del compianto sergente Hartman, viste le condizioni educative, anche in prospettiva, della cosiddetta generazione millennial, ma è un altro discorso), le esigenze immobiliari di un moderno esercito di professionisti sono completamente diverse da quelle che hanno orientato la progettazione e la realizzazione degli accasermamenti dall’Unità in poi. Oggi i militari, per esempio, si spostano con le famiglie che hanno necessità abitative, logistiche e di servizi che un sistema di caserme tradizionali non può più soddisfare[1]. Le stesse dimensioni di un esercito professionale basato sull’evoluzione tecnologica sono molto cambiate: l’elemento umano è sempre fondamentale, ma con numeri estremamente più ridotti del passato.
Ma, nonostante tutto ciò, la necessità di mettere a sistema la tematica del patrimonio immobiliare militare, che poi è una grande opportunità di lavoro, di riqualificazione del territorio e di creazione di valore, si scontra tuttora con radicati interessi che puntano a mantenere lo status quo. Come da costume nazionale largamente diffuso, anche in questo settore convergono interessi grandi e piccoli, ma sempre personali, che non rispecchiano quelli della collettività, di fronte ai quali si infrangono anni di tentativi di avviare un processo di rinnovamento per riconsegnare questi beni alle necessità della popolazione, riqualificati ed in armonia con il proprio territorio.
Nessuno mette in dubbio che, vista la particolare posizione dell’Italia rispetto a una delle zone più “calde” del Pianeta, si debbano mantenere sotto tutela (e aggiungerei in allerta nei vari gradi che la congiuntura internazionale richiede) molti presidi strategici e/o tattici.
È però non solo innegabile, ma anche sotto gli occhi di tutti, che vi è una congerie di situazioni inspiegabili e inaccettabili dell’uso che si fa del suolo nazionale, anche se la popolazione italiana spesso, contrariamente ad altri popoli che hanno più sviluppato il senso del bene collettivo e della critica democratica (ma ferma) al potere costituito, ha l’abitudine di assumere, di fronte a situazioni che esigono denunce pubbliche e prese di posizione, un atteggiamento acquiescente e fatalista, a meno che non si vadano a toccare direttamente interessi individuali – e lí l’italiano è diventato maestro nello sviluppare l’arte del NIMBY.
Solo a titolo esemplificativo, non esaustivo e forse in qualche caso da aggiornare, cosa difficilissima nel momento in cui si tenta di dipanare la matassa dei passaggi e delle competenze all’interno della PA (e per alcuni gangli della PA, come le Forze Armate, più che una matassa diventa una cortina impenetrabile), di seguito si richiamano alcuni esempi particolarmente significativi sui quali, nel corso di molti anni, ogni tanto si sono effettuati aggiornamenti conoscitivi per verificare le possibili evoluzioni. Più o meno tutte le situazioni sono, oggi, emblematiche della capacità della PA e della politica di sbizzarrirsi in “creatività”, non tanto progettuale in termini di idee di sviluppo, quanto nell’invenzione quotidiana della pratica dell’”annuncio” nelle sue infinite declinazioni.

1. Bologna
Nel 2001 fu dato incarico ad una nota Società di consulting di studiare lo stato dell’arte di una iniziativa di possibile dismissione e riqualificazione dell’area STAVECO: 9 ettari nel centro della città, in una zona di grande pregio e alle pendici della collina, ex deposito di mezzi militari, una marea tra edifici bassi, giardini, vialetti, ecc., tutto ormai in stato di abbandono. L’area era stata oggetto: a) di una valutazione da parte di CONSAP (non fu dato di sapere non tanto il valore, quanto il metodo di valutazione, per valutarne la congruità) e, b) di un “protocollo d’intesa” tra Comune di Bologna e Ministero della Difesa. Come sanno tutti quelli che a vario titolo si occupano di programmi con la PA, il protocollo d’intesa è lo strumento tipico per comunicare l’intenzione di non fare nulla, ma di far credere alla gente, con quella parola magica, che ormai è tutto pronto per svoltare pagina e dare avvio ad attività di grande efficacia e concertazione tra i vari organi della PA. Capita l’antifona, la Società si ritirò in buon ordine ed evitò di stare a perdere tempo.
In occasione di questo articolo, e volendo effettuare un aggiornamento sullo stato dell’iniziativa, si scopre che la idilliaca e silenziosa enclave dentro Bologna è, a 17 anni di distanza, ancora lì, intatta, a disposizione delle comunità di gatti che si riproducono felici. Però emerge anche che nel 2014 il Sindaco di Bologna, evidentemente entrato in possesso dell’area grazie ad alcuni recenti provvedimenti legislativi, ha stipulato un altro “protocollo di intesa” con l’Università che permetterà la realizzazione di un “insediamento ad alta vocazione internazionale, attrattivo, innovativo e ad alta sostenibilità ambientale”. Perbacco! No, alt, un momento, nel 2017, sempre lo stesso Sindaco “immagina” di realizzarvi un parco, edifici direzionali (ma per dirigere cosa?) e magari fare un accordo (altro protocollo di intesa?) con il Ministero di Grazia e Giustizia per metterci uffici giudiziari, ovvero, altre superfici precluse al godimento della collettività, al centro della città, in una delle sue zone più belle. Forse è il caso di confidare a questo punto sull’inerzia della PA e sperare che il progetto non venga realizzato e perlomeno l’area resti oasi di verde e silenzio, anche se interdetta alla popolazione, se non quella felina.

2. Piacenza
Nel 2004 fu istituito un tavolo di lavoro a cui era presente il compianto prof. Giacomo Vaciago. Il tema era la riqualificazione e la restituzione alla città di Piacenza, di cui Vaciago stesso era stato Sindaco, degli immobili del Demanio Militare. Ora forse non tutti sanno che, per la sua particolare posizione, strategica durante le epoche napoleoniche ed ancor più durante il Risorgimento e poi nella Prima Guerra Mondiale, Piacenza era uno snodo logistico fondamentale per i movimenti di truppe, ma soprattutto per l’immagazzinamento di materiale bellico, esplosivi in primis, diretti verso le zone di guerra e per accogliere i feriti provenienti dalle stesse zone, per non parlare degli acquartieramenti del genio. Questo portò che dal XIX secolo fino agli anni ’20, con un processo che in realtà era cominciato già al tempo dei Romani, quasi un terzo del territorio del Comune fu occupato da caserme, foresterie, sante barbara, ospedali militari, magazzini di mezzi. Sull’onda della frenesia di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico dei primi anni del terzo millennio (causa urgenza di liquidità), culminata con la creazione della Patrimonio dello Stato SpA e con le cartolarizzazioni, si cominciò a valutare il misterioso mondo del demanio militare, cominciando proprio dalla città emblema di quel patrimonio: Piacenza. Oggi, andando a rivedere dopo 14 anni lo stato dell’arte e l’evoluzione del meritevole progetto, si scopre che: a) nel 2010 buona parte del patrimonio immobiliare militare entra a pieno titolo in quella sezione del patrimonio immobiliare pubblico classificata come “disponibile” cioè assoggettabile ad operazioni ricadenti nel codice civile e ad attività di dismissione, b) nel 2011 il Ministero della Difesa ha “ribadito” l’importanza della valorizzazione del patrimonio immobiliare dismesso, c) nel 2016 l’Agenzia del Demanio, tramite il suo braccio operativo INVIMIT, noto per la sua estrema capacità interventista ed operativa alla vasta scala, stipula con il Comune di Piacenza un “accordo istituzionale”, che si teme sia parente stretto in quanto ad efficacia e competenze operative del “protocollo d’intesa”. L’oggetto di questo mirabile accordo era la valorizzazione e razionalizzazione degli immobili pubblici presenti nel territorio di Piacenza, d) 2018… non pervenuto: cerca che ti ricerca, su internet, dove riesci a sapere a due minuti dall’accaduto che il principino erede al trono di Fantasilandia si è soffiato il naso, del destino degli edifici militari di Piacenza non c’è più traccia.

3.Roma Prenestina
Nel 1996 la Beretta (sì, proprio quella delle pistole, che forse non tutti sanno che è l’azienda industriale più antica del mondo, essendo stata fondata nel 1526, la seconda è la Mitsubishi) avviò un piano di riconversione e valorizzazione di un suo bellissimo stabilimento a Roma, su via Prenestina, dentro il GRA. Ora, proprio di fronte allo stabilimento, guarda caso, dall’altra parte della strada c’è da tempo immemore (cioè da quando la progettò PL Nervi) un’area militare che forse è grande quanto l’intera Piacenza: il mitico CERIMANT di Tor Sapienza. Nel corso dei vari sopralluoghi alla Beretta, i tecnici incaricati della valorizzazione si incuriosirono di questa grande area militare in abbandono (ma ferreamente recintata e costellata di minacciosi cartelli), affetti da quella sindrome inguaribile quanto sterile e dannosa che porta molti progettisti ad immaginare la riqualificazione della Roma degradata e in inarrestabile declino. In breve, a tempo perso, indagarono. Un po’ di numeri: sostanzialmente il CERIMANT è grosso modo un quadrilatero di quasi 600 metri di lato, che occupa più o meno 35 ettari. Tanto per dare una idea di che vuol dire: l’intero Policlinico Umberto I occupa non più di 15 ettari, l’intera città universitaria della Sapienza raggiunge a stento i 20 ettari e l’intera Stazione Termini, fino alla fine delle pensiline, dove il fascio dei binari comincia a restringersi, occupa sì e no 12 ettari. Il CERIMANT si trova “dentro” il Raccordo Anulare, e più precisamente in una vasta area dove il “colore” prevalente che domina quel foglio di pertinenza del PRG è indicato in legenda come la cosiddetta “città da ristrutturare”, cioè, in due parole, la città che aspira a trovare una sua strutturazione logica, ricucendo brandelli di attività produttive spesso abbandonate, abusivismo, ecc. Però il nostro CERIMANT in questo tessuto fragile, ma potenzialmente interessantissimo, è come un brontosauro blu, ovvero, a tutt’oggi, con destinazione a “servizi pubblici”.
Spulciando nel web si trova che nel 2013, 17 anni dopo la riconversione dello stabilimento Beretta, l’Associazione Roma Città Nostra denuncia lo stato di abbandono vergognoso dell’area CERIMANT e delle decine di mezzi militari al suo interno arrugginiti ed inservibili. Nel 2016, altri tre anni dopo, emerge che il CIPE ha stanziato ben 40 milioni di euro per fare rivivere il complesso, cioè praticamente nulla rispetto alle dimensioni ed alle necessità reali per valorizzare con efficacia il complesso. Non c’è uno straccio di progetto, solo un’idea mutuata da un precedente parigino (sai quanti ne trovi di precedenti da altre parti se è per questo, il problema è metterli in pratica). In sostanza l’idea è di farne un centro culturale… nientedimeno! Hai voglia a cultura su 35 ettari! È una piacevole novità che i romani siano così affamati di sapere, soprattutto dopo il ridicolo risultato “culturale” delle caserme di via Guido Reni.

Sta di fatto che nel 2017 l’allora Direttore Generale Arte e Architettura Contemporanea e periferie Urbane del MIBACT (se le sigle e gli acronimi che la PA italiana è capace di sfornare con ciclicità trimestrale fossero materiale da costruzione si potrebbe erigere una nuova Grande Muraglia) “annuncia” trionfalmente, nell’ennesimo convegno di cui si sentiva terribilmente la mancanza, che il CERIMANT non solo diventerà un polo culturale, ma che sarà dedicato alla “creatività contemporanea”. Ora, forse qualcuno avrà notato che nella contemporaneità, rispetto ad altre epoche della patria storia, e non voglio evocare il Rinascimento, ma basta ricordare più recentemente i Vico Magistretti, i Giò Ponti, le Gae Aulenti, che hanno già fior di spazi a loro dedicati, perlomeno in Italia, di creatività ce ne è ben poca. Non è escluso che grattando un po’ qualcosa non si trovi, ma da qui a riempire 35 ettari, cioè quasi quanto Policlinico e Sapienza messi insieme, beh, il lavoro non mancherà certo ai responsabili, se mai naturalmente tutto ciò non resterà a livello di “annuncio”. Infine si legge che la benedizione finale alla geniale idea viene impartita dal ministro Franceschini, che sostiene l’idea che il nostro secolo presente dovrà essere dedicato alle periferie. Forse, a parte il fatto che bisognerà vedere cosa ne penserà il prossimo ministro dei beni culturali (ammesso che la cultura sia considerata degna di un ministero dal prossimo governo), sarà un po’ difficile pensare di rigenerare le periferie con “centri per la cultura” di queste dimensioni, specie in una città come Roma che già pullula, per sua stessa natura, di punti di riferimento della cultura e che stentano a sopravvivere per mancanza di interesse e soprattutto di fondi per sostentarsi.

4. Cavallerizza Reale, Torino
Negli anni a cavallo tra il 2003 ed il 2005 alcuni dirigenti del Comune di Torino, molto preparati e seri, oltre che sinceramente attaccati alla loro città, si misero a studiare tipologicamente, urbanisticamente e, soprattutto, amministrativamente, come recuperare alcuni edifici storicamente importanti della città: uno era il palazzo del Lavoro di PL Nervi, di cui non si parlerà in questo articolo, ma che potrà rientrare a pieno titolo in un prossimo, dedicato più in generale al patrimonio pubblico, e l’altro era la Cavallerizza Reale.
Al centro di Torino, nelle vicinanze dei Giardini Reali, del Teatro Regio e della Mole, c’è, poco vistoso e poco noto, questo straordinario compendio che passa sotto il nome di Cavallerizza Reale, niente altro cioè, che le scuderie di casa Savoia, non solo, ma anche scuola e residenza degli allievi cavalieri della Real Casa. Questo edificio, dalle funzioni apparentemente umili, è realtà grandioso e sviluppa circa 12.000 mq di superficie ed è tipologicamente molto interessante. Le vicende della Cavallerizza, inutile dirlo, sono tormentatissime. Quando quei funzionari cominciarono a lavorarci, l’edificio era stato appena acquisito dal Comune dall’Agenzia del Demanio ed era occupato in una piccolissima porzione da alcuni inquilini che ritenevano diritto naturale il fatto di starci a canoni irrisori (attenzione, pratica molto diffusa su tutto il patrimonio del demanio Militare e causa non marginale della difficoltà di entrarne in reale possesso e di valorizzarlo), e non avevano nessuna intenzione di andarsene, e in parte dalla Procura Militare, che invece, in cambio di una destinazione più moderna e razionale, avrebbe cambiato sede senza troppi problemi. La Cavallerizza inoltre ospitava il Teatro Stabile, che dovette abbandonare la prestigiosa sede per mancanza, guarda un po’, di fondi. Per colmo di sventura, nel 2014 alcune ali dell’edificio furono devastate da un incendio. Sempre nel 2014 l’immobile fu occupato da un comitato di cittadini (che non manca mai in queste occasioni) che si opposero al progetto del Comune di valorizzare il compendio con lo strumento della cartolarizzazione. Nel 2017, nonostante l’avvento della nuova amministrazione abbia, pare, portato un clima migliore nel dialogo con i cittadini occupanti, di fatto non è ancora stato affrontato “strutturalmente” il tema della reale valorizzazione dell’edificio, sia che si intenda “monetizzarlo”, sia che si intenda conferirlo al pubblico (nel qual caso occorre poi capire con quali soldi viene restaurato, rifunzionalizzato e mantenuto). Come al solito la disinformazione, anche in questo caso, l’ha fatta da padrona e quindi, come spessissimo accade nel nostro Paese, è ora difficilissimo dipanare il rebus delle responsabilità: da un lato c’è una pubblica amministrazione che, come minimo, va accusata di distrazione e superficialità, e non si parla solo del Comune, che anzi si era speso nei primi anni del 2000 per ridare senso e dignità al bene, ma anche dello Stato che lascia nel dimenticatoio il proprio patrimonio, invece di coccolarlo come possibile sorgente di reddito, lavoro e incremento di valore, a meno che non sia oggetto e fonte di interessi particolari, e allora sì che c’è un gran fermento. Dall’altro c’è una casta di mandarini del “vincolo a tutti costi”, trucemente ed anacronisticamente legati ad ideologie giurassiche, che ha orrore al solo sentire nominare la parola “valorizzazione”, abbinandola immancabilmente all’altro ripugnante aggettivo sostantivato: “privato”. Tale casta, espressione del più bieco conservatorismo, che si maschera dietro slogan progressisti, soffia sul fuoco dell’ira della gente, alimentando, attraverso ai propri mezzi di disinformazione, concetti sbagliati sul patrimonio pubblico, se non altro perché fa di tutte le erbe un fascio. L’unico risultato che si ottiene dal combinato disposto dei due atteggiamenti, dietro i quali, come al solito, non c’è altro che il mantenimento e rafforzamento dei piccoli o grandi centri di potere e interessi privati, è, inevitabilmente, l’inarrestabile decadimento del patrimonio che, se potesse parlare, alzerebbe una voce tonante accusando le parti in causa di giocare sulla sua pelle e sullo sfacelo che troveranno in eredità le generazioni future, in nome di misere diatribe personali e di guerre straccione.

Si è solo portato qualche esempio, tra quelli più vistosi e di lunga data del tema del Patrimonio Immobiliare Militare, e se ne potrebbero citare altri, ma sarebbe solo la punta minuscola di un iceberg di cui si possono solo intuire l’entità e gli interessi che vi gravitano. Ecco il motivo per cui non si può fare a meno di sorridere quando si sente glorificare l’”operazione Fari” come se fosse una rivoluzione copernicana nell’approccio al tema della riqualificazione del patrimonio pubblico, militare o no.
Degli immobili citati, alcuni fanno ancora capo al Demanio Militare, altri sono passati di mano, anche se provengono da lì, ma il risultato non è cambiato ed è la riprova della totale incapacità della PA di farsi portatrice di una strategia efficace, che, partendo da una vision, sia in grado non solo di avviare, ma neanche di programmare un percorso di medio lungo termine che abbia in fondo ad esso un obiettivo chiaro, definito, quantificato: si va avanti a tentoni, sulla scorta dell’input di questo o di quell’altro referente politico (ministro o altro) cui si adeguano i direttori delle varie strutture, sapendo benissimo (l’uno e gli altri) che il successore potrebbe con un colpo di spugna smentire tutte le direttive impartite dal predecessore e indicare una nuova rotta, a seconda delle proprie convenienze. E quindi cosa resta? Resta luminoso ed abbagliante, anche se per pochi istanti, l’”annuncio”.

Un severo monito, in questo senso, è arrivato nel 2017, quindi freschissimo, dalla Corte dei Conti, con un rapporto che copre il periodo 1996-2003-2016 e che riguarda giustappunto una indagine “sulla dismissione e la permuta di immobili in uso all’Amministrazione della Difesa”.
Più che severo, il documento è impietoso e ripercorre il poco edificante iter degli interventi legislativi che si sono succeduti dal ’96 in poi sulla materia e, soprattutto, i risultati ottenuti rispetto agli obiettivi prefissati.

In sostanza:

Inutile dire che chi volesse approfondire il rosario delle leggi che si è sgranato dal 1996 ad oggi sul tema si troverebbe di fronte ad un compito tanto ingrato quanto scoraggiante. La Corte dei Conti, sempre nella stessa Relazione del 2017, ci ha meritoriamente provato (nell’Allegato 1 alla stessa) ed ha sentenziato che buona parte del sostanziale fallimento del processo di dismissione/valorizzazione è frutto prevalentemente proprio del garbuglio inestricabile dei provvedimenti legislativi che hanno provocato una confusione indescrivibile tra gli stessi enti delegati a sviluppare il processo di valorizzazione (Ministero della Difesa e Agenzia del Demanio), attribuendo e successivamente revocando e poi di nuovo riattribuendo poteri programmatori ed attuativi e cambiando in continuazione il “pannello degli strumenti” con cui dare attuazione al processo (concessioni, aste, permute, fondi immobiliari, ecc.). Spesso poi tali conflitti di competenze e di scarso coordinamento tra i due enti, abbinati ad una scarsissima conoscenza della materia urbanistica e procedimentale, sono andati in rotta di collisione con i poteri tradizionali attribuiti agli enti locali in tema di governance territoriale ed urbanistica, provocando, giustamente, il rigetto in sede amministrativa dei provvedimenti adottati, e quindi il blocco delle attività.

Solo a titolo enciclopedico (entrare nel merito di ogni singolo provvedimento richiederebbe probabilmente non un articolo, ma un volume intero, quanto inutile), di seguito si fornisce una sintesi cronologica del lavoro di analisi normativa effettuato dalla Corte dei Conti:

Bene, al di là della questione intrinseca relativa al patrimonio immobiliare della Difesa, non si può, scorrendo in rapida successione i titoli dei provvedimenti legislativi richiamati nel meritevole lavoro della Corte dei Conti, non avvertire una “comicità involontaria” nel registrare la frequenza con cui viene utilizzato dal legislatore, riferendosi al risanamento della finanza pubblica ed allo sviluppo economico, l’aggettivo “urgente”. Comicità per non dire scoramento, naturalmente, constatando l’efficacia e gli effetti concreti che tutti questi provvedimenti hanno sortito, se non sullo sviluppo complessivo del Paese, perlomeno sul processo di “valorizzazione” del patrimonio della Difesa nel giro di 22 anni.

Insomma, come tanti e tanti episodi della vita pubblica italiana, anche in questa particolare circostanza cosa emerge che una buona parte della forza lavoro attiva di questo Paese è impegnata a produrre vapore acqueo con cui alimentare ciclicamente la cosa più importante ormai da circa 30 anni a questa parte: “l’apparire”.
Poi c’è un’altra buona parte della forza lavoro impegnata anch’essa nell’immane sforzo di produrre vapore acqueo, la cui finalità è però opposta a quella per cui si adopera la prima parte della forza lavoro: disinformare l’opinione pubblica per contrastare chi è momentaneamente al potere, prendergli il posto e, finalmente in sella, cominciare a sua volta a produrre vapore della prima specie.
Il comandamento supremo, in ogni caso, è adoperarsi con tutte le forze per “non fare”.
E qui non possono non venire in mente con una certa commozione le parole di Goethe nel Faust: “in principio era l’azione”.

Note

1.  Chi ha avuto modo di visitare alla fine degli anni novanta la base di Comiso in Sicilia, quando era stata appena abbandonata dalle truppe USA (cosa che, en passant, provocò il crollo dell’economia della cittadina di Comiso), si trovò di fronte ad una enorme spianata erbosa recintata di 300 ettari, con alcune collinette verdi che nascondevano i camion con le rampe dei cruise, ma ai bordi, sempre nel recinto, c’era un perfetto insediamento urbano americano con le classiche villette col patio e il car-porter, uffici, scuole, licei, teatro, cinema, grandi magazzini, piscine e centri sportivi.