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L’orologio a cucù

di - 14 Maggio 2018
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Sta di fatto che nel 2017 l’allora Direttore Generale Arte e Architettura Contemporanea e periferie Urbane del MIBACT (se le sigle e gli acronimi che la PA italiana è capace di sfornare con ciclicità trimestrale fossero materiale da costruzione si potrebbe erigere una nuova Grande Muraglia) “annuncia” trionfalmente, nell’ennesimo convegno di cui si sentiva terribilmente la mancanza, che il CERIMANT non solo diventerà un polo culturale, ma che sarà dedicato alla “creatività contemporanea”. Ora, forse qualcuno avrà notato che nella contemporaneità, rispetto ad altre epoche della patria storia, e non voglio evocare il Rinascimento, ma basta ricordare più recentemente i Vico Magistretti, i Giò Ponti, le Gae Aulenti, che hanno già fior di spazi a loro dedicati, perlomeno in Italia, di creatività ce ne è ben poca. Non è escluso che grattando un po’ qualcosa non si trovi, ma da qui a riempire 35 ettari, cioè quasi quanto Policlinico e Sapienza messi insieme, beh, il lavoro non mancherà certo ai responsabili, se mai naturalmente tutto ciò non resterà a livello di “annuncio”. Infine si legge che la benedizione finale alla geniale idea viene impartita dal ministro Franceschini, che sostiene l’idea che il nostro secolo presente dovrà essere dedicato alle periferie. Forse, a parte il fatto che bisognerà vedere cosa ne penserà il prossimo ministro dei beni culturali (ammesso che la cultura sia considerata degna di un ministero dal prossimo governo), sarà un po’ difficile pensare di rigenerare le periferie con “centri per la cultura” di queste dimensioni, specie in una città come Roma che già pullula, per sua stessa natura, di punti di riferimento della cultura e che stentano a sopravvivere per mancanza di interesse e soprattutto di fondi per sostentarsi.

4. Cavallerizza Reale, Torino
Negli anni a cavallo tra il 2003 ed il 2005 alcuni dirigenti del Comune di Torino, molto preparati e seri, oltre che sinceramente attaccati alla loro città, si misero a studiare tipologicamente, urbanisticamente e, soprattutto, amministrativamente, come recuperare alcuni edifici storicamente importanti della città: uno era il palazzo del Lavoro di PL Nervi, di cui non si parlerà in questo articolo, ma che potrà rientrare a pieno titolo in un prossimo, dedicato più in generale al patrimonio pubblico, e l’altro era la Cavallerizza Reale.
Al centro di Torino, nelle vicinanze dei Giardini Reali, del Teatro Regio e della Mole, c’è, poco vistoso e poco noto, questo straordinario compendio che passa sotto il nome di Cavallerizza Reale, niente altro cioè, che le scuderie di casa Savoia, non solo, ma anche scuola e residenza degli allievi cavalieri della Real Casa. Questo edificio, dalle funzioni apparentemente umili, è realtà grandioso e sviluppa circa 12.000 mq di superficie ed è tipologicamente molto interessante. Le vicende della Cavallerizza, inutile dirlo, sono tormentatissime. Quando quei funzionari cominciarono a lavorarci, l’edificio era stato appena acquisito dal Comune dall’Agenzia del Demanio ed era occupato in una piccolissima porzione da alcuni inquilini che ritenevano diritto naturale il fatto di starci a canoni irrisori (attenzione, pratica molto diffusa su tutto il patrimonio del demanio Militare e causa non marginale della difficoltà di entrarne in reale possesso e di valorizzarlo), e non avevano nessuna intenzione di andarsene, e in parte dalla Procura Militare, che invece, in cambio di una destinazione più moderna e razionale, avrebbe cambiato sede senza troppi problemi. La Cavallerizza inoltre ospitava il Teatro Stabile, che dovette abbandonare la prestigiosa sede per mancanza, guarda un po’, di fondi. Per colmo di sventura, nel 2014 alcune ali dell’edificio furono devastate da un incendio. Sempre nel 2014 l’immobile fu occupato da un comitato di cittadini (che non manca mai in queste occasioni) che si opposero al progetto del Comune di valorizzare il compendio con lo strumento della cartolarizzazione. Nel 2017, nonostante l’avvento della nuova amministrazione abbia, pare, portato un clima migliore nel dialogo con i cittadini occupanti, di fatto non è ancora stato affrontato “strutturalmente” il tema della reale valorizzazione dell’edificio, sia che si intenda “monetizzarlo”, sia che si intenda conferirlo al pubblico (nel qual caso occorre poi capire con quali soldi viene restaurato, rifunzionalizzato e mantenuto). Come al solito la disinformazione, anche in questo caso, l’ha fatta da padrona e quindi, come spessissimo accade nel nostro Paese, è ora difficilissimo dipanare il rebus delle responsabilità: da un lato c’è una pubblica amministrazione che, come minimo, va accusata di distrazione e superficialità, e non si parla solo del Comune, che anzi si era speso nei primi anni del 2000 per ridare senso e dignità al bene, ma anche dello Stato che lascia nel dimenticatoio il proprio patrimonio, invece di coccolarlo come possibile sorgente di reddito, lavoro e incremento di valore, a meno che non sia oggetto e fonte di interessi particolari, e allora sì che c’è un gran fermento. Dall’altro c’è una casta di mandarini del “vincolo a tutti costi”, trucemente ed anacronisticamente legati ad ideologie giurassiche, che ha orrore al solo sentire nominare la parola “valorizzazione”, abbinandola immancabilmente all’altro ripugnante aggettivo sostantivato: “privato”. Tale casta, espressione del più bieco conservatorismo, che si maschera dietro slogan progressisti, soffia sul fuoco dell’ira della gente, alimentando, attraverso ai propri mezzi di disinformazione, concetti sbagliati sul patrimonio pubblico, se non altro perché fa di tutte le erbe un fascio. L’unico risultato che si ottiene dal combinato disposto dei due atteggiamenti, dietro i quali, come al solito, non c’è altro che il mantenimento e rafforzamento dei piccoli o grandi centri di potere e interessi privati, è, inevitabilmente, l’inarrestabile decadimento del patrimonio che, se potesse parlare, alzerebbe una voce tonante accusando le parti in causa di giocare sulla sua pelle e sullo sfacelo che troveranno in eredità le generazioni future, in nome di misere diatribe personali e di guerre straccione.

Si è solo portato qualche esempio, tra quelli più vistosi e di lunga data del tema del Patrimonio Immobiliare Militare, e se ne potrebbero citare altri, ma sarebbe solo la punta minuscola di un iceberg di cui si possono solo intuire l’entità e gli interessi che vi gravitano. Ecco il motivo per cui non si può fare a meno di sorridere quando si sente glorificare l’”operazione Fari” come se fosse una rivoluzione copernicana nell’approccio al tema della riqualificazione del patrimonio pubblico, militare o no.
Degli immobili citati, alcuni fanno ancora capo al Demanio Militare, altri sono passati di mano, anche se provengono da lì, ma il risultato non è cambiato ed è la riprova della totale incapacità della PA di farsi portatrice di una strategia efficace, che, partendo da una vision, sia in grado non solo di avviare, ma neanche di programmare un percorso di medio lungo termine che abbia in fondo ad esso un obiettivo chiaro, definito, quantificato: si va avanti a tentoni, sulla scorta dell’input di questo o di quell’altro referente politico (ministro o altro) cui si adeguano i direttori delle varie strutture, sapendo benissimo (l’uno e gli altri) che il successore potrebbe con un colpo di spugna smentire tutte le direttive impartite dal predecessore e indicare una nuova rotta, a seconda delle proprie convenienze. E quindi cosa resta? Resta luminoso ed abbagliante, anche se per pochi istanti, l’”annuncio”.

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