Crisi della politica e processo economico. Il caso Italia

Sommario: 1. Progettazione politica e realtà economica…- 2. Segue:… il decadimento della politica nell’UE. – 3. La specificità del «caso Italia».

1. Un clima di ‘mancanza di verità’ ha contraddistinto la recente campagna elettorale italiana, fatta di promesse che, a tacer d’altro, sono state formulate senza un’adeguata conoscenza della realtà economica destinataria dei cambiamenti che – da più parti ed in modalità diverse – venivano preannunciati in una logica di captanda benevolentia, poi rivelatasi vincente.
La proposizione di programmi politici diversi – che tradizionalmente connota il gioco delle parti nel confronto che alimenta la competizione tra differenti posizioni ideologiche – si è trasformata in una «gara al rialzo», come è stato sottolineato dalla stampa specializzata. Sono stati evocati, infatti, programmi di sviluppo economico, fondati sull’introduzione di rimedi che dovrebbero garantire il superamento di alcuni endemici mali del nostro Paese, dalla disoccupazione (in ispecie quella giovanile) alle profonde disuguaglianze che, soprattutto nei tempi recenti, determinano disagio sociale ed inaccettabili condizioni di vita per larghi strati della popolazione ai margini della povertà.
Va da sé che dette promesse hanno acquisito un generale, facile consenso da parte di un elettorato che ha scambiato il wishful thinking enunciato in vista delle elezioni con una realistica prospettiva di concrete realizzazioni. Peraltro, politica ed economia una volta conclusa la fase elettorale devono – com’è noto – incontrarsi in una logica di compromesso, necessario al fine di ipotizzare forme di governabilità; si delinea, per tal via, una prospettiva di conciliazione tra opposti interessi, da considerare indispensabile in un contesto istituzionale nel quale appare oltremodo faticoso pervenire ad un’unitarietà d’indirizzo democratico. Si identificano, altresì, gli estremi di un rapporto nel quale il fideismo sotteso alla prima è destinato ad un inevitabile ridimensionamento, a fronte della carente possibilità di conseguire positivi riscontri a livello della seconda. Ancora una volta, il successo della politica rivela una inevitabile dipendenza dalla capacità di realizzare, sul piano delle concretezze, un sapiente intreccio tra «ricchezza, organizzazione e lavoro»; obiettivo cui essa è orientata per offrire un’efficace soluzione alle istanze provenienti dalla compagine sociale e dalle forze del mercato.
Per vero, gli accadimenti recenti – legati agli esiti di una legge elettorale che impedisce una pronta e chiara individuazione dei ‘vincitori’ e dei ‘vinti’ – mostrano  incertezze e difficoltà nella gestione della politica e, in particolare, nella definizione dei disegni programmatici prospettati dalle opposte parti politiche nel corso della campagna elettorale; si avvalora il convincimento che, al presente, i relativi processi versino in una fase critica, in quanto emerge a tutto tondo la possibilità che gli impegni assunti restino ineseguiti o, comunque, subiscano mutilazioni destinate a snaturarne l’originaria formulazione.
La promessa di cambiamento – che ha interagito in modo significativo sulle scelte degli italiani – potrebbe, inoltre, infrangersi sul muro dell’incomprensione e della mancata disponibilità ad un «compromesso sociale» in grado di soddisfare le aspettative di quanti, in buona fede, hanno creduto in trasformazioni idonee a correggere le distorsioni causate da un progressivo decadimento della politica. Si avverte un generalizzato senso di incapacità di quest’ultima a superare il limite di un formalismo che ne ha causato il distacco dal Paese reale; si intravedono i prodromi del suo tramonto, che sostituisce il «vuoto» ed una irrazionale «inconsistenza» alla sua tradizione adesione alla verità assoluta.
I recenti risultati elettorali hanno segnato un importante avanzamento di un soggetto politico di tipo nuovo, il Movimento Cinque Stelle, il quale si propone di sostituire alcuni consolidati congegni della democrazia rappresentativa, incluso il principio del divieto di mandato imperativo, con pratiche di partecipazione “dal basso”, fondate fra l’altro sul controllo degli eletti attraverso gli strumenti offerti dalla rete. Peraltro, gli incerti equilibri parlamentari scaturiti dal voto del 4 marzo – con la conseguente difficoltà nella formazione di una maggioranza di governo – pongono tale soggetto dinanzi ad un difficile dilemma: accettare il ricorso al metodo della sintesi mediatrice – fulcro del parlamentarismo rappresentativo – oppure escludere qualsiasi forma di collaborazione organica e paritaria con i partiti tradizionali, e in particolare con quelli più sensibili alla tenuta degli equilibri di finanza pubblica e al rispetto dei vincoli europei.
Nel primo caso, il riconoscimento del rango di interlocutore con le altre forze politiche potrebbe innescare un graduale processo di omologazione del Movimento Cinque Stelle rispetto ai partiti; nella seconda ipotesi, tale soggetto politico finirebbe per rinunciare in partenza alla possibilità di realizzare il proprio progetto di trasformazione della società italiana, lasciando deluse soprattutto le aspettative dell’elettorato del centro-sud. Il recente (e condivisibile) richiamo alla centralità del Parlamento nel discorso di insediamento del neo Presidente della Camera dei deputati – il quale al pari degli altri esponenti del Movimento Cinque Stelle aveva sempre espresso la propria fiducia verso forme di democrazia diretta alternative ai tradizionali canali rappresentativi – sembrerebbe confermare questa contraddizione di fondo.

2. Il fenomeno del decadimento della politica, sia pure in modalità diverse, interessa ampia parte degli Stati dell’area occidentale. In letteratura esso viene, per solito, ricondotto alle tensioni determinate dalla globalizzazione e, più in generale, alla incapacità di governare eventi ed istanze che a quest’ultima fanno capo[1]. In altri termini, a fronte dei mutamenti riscontrabili in ambito economico, la relazione tra politica e tecnica avrebbe visto un progressivo indebolimento della prima a vantaggio della seconda, cui sarebbe stata ceduta, sul piano delle concretezze, la gestione della società. Ciò avrebbe determinato forme di prevaricazione da parte delle forze del mercato, le quali – nell’emarginare l’azione politica – avrebbero svolto un ruolo primario nell’assumere decisioni volte a favorire l’utilizzo delle proprie potenzialità, ovviamente a danno di coloro che non hanno possibilità di accedere ai meccanismi da esse praticati.
Si è in presenza di tesi che – per quanto fondate su elementi di veridicità – hanno riguardo ad una concezione della politica non rispondente alla configurazione, ad essa tradizionalmente ascritta, di cornice nella quale trova collocazione l’attività che lo Stato svolge per il governo dei suoi cittadini.[2]
Al riguardo, va tenuto presente che storicamente, nella riflessione giuridico filosofica, la politica è stata ricondotta all’ente cui fa capo la manifestazione massima del potere, individuandosene l’essenza nell’assolutezza della sovranità.[3] Da qui il riconoscimento alla stessa di una latitudine che non ha confini se non quelli che essa si impone,[4] nonché della particolare caratteristica di essere espressione di una potestà che non ha limiti, essendo libera nella determinazione dei fini (identificati in vista della sicurezza e della capacità produttiva del corpo sociale).

Detta caratteristica della politica non esclude, peraltro, la necessità di una giustificazione razionale dell’esercizio di compiti che si estrinsecano in un dominio dell’uomo sull’uomo; donde l’obbligo a carico di coloro che sono a capo di una comunità sociale di strutturare gli interventi posti in essere, finalizzandone i contenuti alle esigenze collettive.[5] Ne consegue che i governanti  devono essere in grado di valutare appieno gli effetti della propria azione (che interferisce nella sfera del privato) e, in particolare, di comprendere se, e in quale misura, i destinatari della medesima possano sopportarne l’incidenza. Diversamente – oltre alla configurabilità di un’ipotesi di arbitrio da parte dello Stato – si assiste all’affermazione di un ‘dominio’ che è contrario ai canoni del «contratto sociale» il quale, com’è noto, è alla base dei moderni modelli di rifondazione della società civile.[6]
In tale premessa – e venendo alle vicende dei nostri giorni – emerge con chiarezza come, in presenza dei processi evolutivi dell’economia che, negli ultimi decenni, hanno assunto una particolare accelerazione (anche a causa della finanziarizzazione dei sistemi) si siano determinati i presupposti per un mutamento della pregressa relazione biunivoca tra la medesima e la politica. L’economia ha acquisito, pertanto, peculiare centralità nella definizione dei modelli organizzativi finalizzati a conferire concretezza fattuale al potere politico; ciò, con ipotizzabili conseguenze anche sulla essenza della democrazia, ritenuta da un’autorevole dottrina propositiva di una costituzione politica che, meglio di ogni altra, consente uno schema organizzativo volto a garantire «la più ampia e più sicura partecipazione della maggior parte dei cittadini … alle decisioni che interessano tutta la collettività».[7]
A ben considerare, la politica non ha saputo interpretare adeguatamente la portata delle modifiche di sistema sopra indicate ed ha mostrato di non saper governare l’innovazione fenomenica indotta dalla globalizzazione. Sicchè essa non è riuscita ad incanalare in idonei meccanismi regolatori il cambiamento della realtà economica, di cui si è detto, e conseguentemente di taluni aspetti degenerativi di quest’ultima, come la crisi che nel decorso decennio ha funestato molti Paesi, sottoponendo le popolazioni a gravi sacrifici. La politica ha assunto, in tal modo, un atteggiamento sostanzialmente abdicativo della propria funzione istituzionale; non è stata in grado di assolvere al suo ruolo primario di progettare lo sviluppo della società civile attraverso la formazione di regole volte ad assicurare la congruità dei processi evolutivi (finalizzandone gli esiti alla crescita degli ordinamenti).
Tale carenza interventistica ha determinato una linea recessiva della politica che si è risolta in una sorta di autolesionismo: le istituzioni UE hanno svolto un’azione inadeguata, circoscritta in via prevalente all’imposizione di un’austerity che ha dimostrato «la profonda debolezza dei meccanismi di solidarietà, coesione sociale e riduzione delle diseguaglianze».[8] Da qui dure contestazioni indicative di una  profonda disillusione della cittadinanza europea verso la possibilità di realizzare il progetto europeo.[9] Si individua un contesto sistemico nel quale si aggiungono nuovi fattori negativi alla pregressa, limitata tendenza dell’esecutivo europeo a promuovere «gli impulsi necessari»  per lo sviluppo (art. 15 TUE ); obiettivo affidato ad un meccanismo comitologico poco efficiente, definito in letteratura «retaggio di un equilibrio istituzionale anacronisticamente sbilanciato in senso intergovernativo».[10]
Già in altre occasioni ho rappresentato, con riguardo alla realtà europea, come detta inadeguatezza operativa dei vertici politici dell’UE abbia dato spazio alla assunzione di un ruolo di supplenza da parte della tecnica.[11] Si è assistito, pertanto, all’adozione, da parte della BCE, di numerose misure (le Operazioni non convenzionali e tra queste, in particolare, il Quantitative easing) le quali – unitamente agli interventi di due meccanismi entrambi a carattere temporaneo (l’EFSM e l’EFSF)[12] – sono riuscite a stabilizzare i mercati, tamponando situazioni di eccezionale gravità; non sono state eliminate, tuttavia, le disfunzioni di un sistema disancorato dalla politica e caratterizzato da diversità.  Sicchè, al presente permangono squilibri di natura economica tra gli Stati membri dell’UE, essendo stata attivata una sorta di ‘trasferimento di poteri’ dal cd. «triangolo istituzionale» – che connota l’assetto organizzativo dell’ordinamento europeo delineato dalla regolazione antecedente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona[13] – a ‘tecnostrutture’ che hanno assunto una funzione di grande rilievo.[14]
Alle difficoltà relazionali all’interno dell’UE sin qui indicate si aggiungono le onerose implicazioni derivanti dalle tendenze prevaricatrici della Germania, dall’exit deliberata dalla Gran Bretagna, dalla linea comportamentale assunta dalla Francia finalizzata al raggiungimento di una posizione di primo piano in tutti i settori (dalla politica all’economia, alla cultura, alla difesa), dal sostanziale immobilismo sociale riscontrabile nell’Italia. Si individuano le ragioni che sono a fondamento di un dilagante populismo diviso tra l’affermazione di posizioni nazional-sovraniste e la proposizione di tesi inneggianti alla democrazia diretta, entrambe orientate a manifestare contrarietà a quella che viene definita l’«Europa dei banchieri», alle immigrazioni, all’euro.
Ciò posto, è evidente come l’Unione sconti i limiti di un contesto sistemico caratterizzato dal prevalere della dimensione burocratico-regolatoria, che tutt’ora si accompagna al tradizionale paradigma intergovernativo. Il possibile avvio di un innovativo percorso costituente dell’UE appare, quindi, legato al superamento degli ostacoli dianzi raffigurati; ovviamente, esso non si colloca in una prospettiva di successo ove rimanga disgiunto da una rivisitazione del rapporto tra politica ed economia. Ed invero, solo restituendo alla prima il suo ruolo decisionale – volto a contemperare i presidi e le garanzie necessarie per lo sviluppo economico con l’essenza valoriale che deve caratterizzarne la funzione – potrà aversi il riavvio di una relazione dialettica con la seconda, orientata all’utilizzo strumentale dei vantaggi che quest’ultima arreca, vale a dire contrastare le disuguaglianze, diffondere il benessere, combattere l’oscurantismo.

3. Ritornando alla specificità del caso italiano, la recente realtà post elettorale sta diffondendo la consapevolezza che le distonie di una politica in crisi difficilmente possono essere superate senza il beneficio di un adeguato senso di responsabilità, non disgiunto dal coraggio di ridimensionare inattuabili programmi, prospettati nel corso della competizione politica elettorale. E’ necessario traslare gli interventi, fino ad oggi posti in essere, dalla mera proposizione di un’aggressiva critica ad una operosità costruttiva, che consenta di realizzare, almeno in parte, le numerose ‘promesse’ che hanno profondamente inciso sugli orientamenti dell’elettorato. Appare, altresì, indispensabile che le parti vincenti addivengano ad un’autocorrezione dei loro programmi, previa rinuncia a talune posizioni estremiste da esse enunciate in precedenza; ci si riferisce, in particolare, all’esigenza di porre fine al rifiuto della accoglienza (la quale, da sempre, si annovera tra le positive prerogative socio culturali del nostro Paese), alle ambiguità  riguardanti i rapporti da intrattenere con l’UE, alla litigiosità che fino ad oggi ha caratterizzato le relazioni tra le forze politiche.

Su un piano più generale, non può trascurarsi di considerare che i deprecabili ritardi imputabili all’Italia nel confrontarsi con la modernità vanno imputati alla mancata predisposizione dell’humus disciplinare necessario per adottare con tempestività misure adeguate a promuovere uno sviluppo sostenibile. Del pari rilevano  l’aggravio recato alla crescita del nostro Paese dalle implicazioni negative di un apparato burocratico (che intralcia e rende difficile ogni forma di intrapresa), nonché la modesta cultura delle regole, dato caratterizzante di un sistema nel quale «l’informazione è considerata da gran parte della classe dirigente un male necessario», come acutamente è stato scritto.[15] Da qui l’ambivalenza di fondo che connota il nostro Paese il quale si è  mostrato, per un verso,  reattivo di fronte alla crisi, capace di identificare la giusta via da percorrere, affrontando con serietà sacrifici e rinunce, per altro restio ad abbandonare una strada lastricata da individualismo, furberia, pressapochismo, difetti che si traducono in fattori drenanti dell’azione posta in essere ed impediscono alla politica di svolgere la sua funzione  tipica.
Di fronte al prorompere di un’economia globalizzata che si propone, in chiave autoreferenziale, come nuovo paradigma di regolazione della convivenza, la politica dovrà superare le ampie perplessità che sorgono con riguardo all’esigenza di ricercare adeguati sistemi di checks and balances, in grado di assicurare la dialettica necessaria ad un congiunto avanzamento della democrazia e del libero mercato. E’ questa una sfida che deve essere accolta dalle forze politiche anche in vista della governabilità delle recenti trasformazioni tecnologiche – digitalizzazione, automazione, ecc. – destinate a cambiare in modo radicale le forme dell’intervento pubblico in economia. Ed invero, le scelte effettuate in tale settore incidono significativamente sulla soluzione del problema della disoccupazione giovanile; essendo le medesime correlate alla stessa esistenza dei posti di lavoro.
La ricerca della stabilità del sistema, da conseguire sotto il duplice ambito politico ed economico, non può prescindere quindi da un rinnovamento della linea politica; auspicabilmente deve ipotizzarsi un’azione che, nel fruire appieno delle utilities offerte dall’economia, sia fondata sull’affermazione dei valori che sono a fondamento della nostra Carta Costituzionale, quali la solidarietà, la ragionevolezza, la correttezza dell’agere.
È questo un cammino di speranza, che si presenta irto di asperità ed ostacoli di vario genere… ad esso non si può, non si deve rinunciare.

Note

1.  Cfr. da ultimo Severino, Il tramonto della politica, Milano 2017, passim.

2.  Cfr. per tutti Dewey, Problems of Men, New York, 1946.

3.  Cfr. tra gli altri, Bodin, Les Six Livres de la République, pubblicato nel 1576, lavoro nel quale si sostiene che una società coesa ed ordinata si fonda sulla gestione unificata del potere da parte dello Stato espressa dalla sovranità. Anche nel noto scritto di Hobbes, Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil, pubblicato nel 1651,  il problema della legittimità e della forma dello Stato è affrontato nel riferimento alla funzione primaria della politica.

4.  Fondamentali, al riguardo le considerazioni di Montesquieu, De l’esprit des lois, XI, 6, ove viene formulata la nota teoria della separazione dei poteri muovendo dalla considerazione che il potere non ha limiti dai quali non possa derogare.

5.  Si veda ampiamente sul punto Saint-Simon, L’organisateur, lavoro pubblicato nel 1820 nel quale tale A. configura l’ipotesi di una società costituita da ‘collaboratori’ ed attribuisce alla politica la funzione di sistema di interventi volto a creare le condizioni per affermare nella società uno stato di benessere, cui far riferimento al fine di valutare la qualità della stessa.

6.  Ci si riferisce, in particolare, alle indicazioni della filosofia rousseauiana (cfr. la famosa opera di Rousseau, Du contrat social del 1762) che  fonda la costruzione della società sulla base di un patto equo volto a riconoscere il popolo corpo sovrano, detentore del potere legislativo e suddito di sé stesso.

7.  Cfr. Bobbio, Quale socialismo, Torino, 1976, p. 42.

8.  Così capriglione – ibrido, La Brexit tra finanza e politica, Milano Assago, 2017, p. 93; v. anche balaguer callejón – azpitarte sánchez – guillén lópez – sánchez barrilao (a cura di), El impacto de la crisis económica en las instituciones de la Unión Europea y de los Estados miembros, Pamplona, 2015.

9.  Cfr. tra gli altri poiares maduro, A New Governance for the European Union and the Euro: Democracy and Justice, in RSCAS Policy Papers, 2012; capriglione – troisi, L’ordinamento finanziario dell’UE dopo la Crisi, Milano Assago, 2014, p. 121 ss.

10.  Cfr. Savino, La comitologia dopo Lisbona: alla ricerca dell’equilibrio perduto, in Giornale di diritto amministrativo, 2011, p. 1041.

11.  Cfr. Capriglione – Sacco Ginevri, Politics and Finance in the European Union.  The Reasons for a difficult encounter, London, 2015, passim, ma in particolare p. 111 ss.

12.  Cfr. per tutti Dieckmann, The Announcement Effect of the Efsf, Afa 2013, San Diego Meetings Paper, visionabile su www.ssrn.com/abstract=2022750.

13.  Si fa riferimento al quadro ordinatorio del potere deliberativo nell’UE che risulta strutturato su un «triangolo istituzionale», cui fa capo un sostanziale processo di codecisione in base al quale la proposizione dei progetti disciplinari compete essenzialmente alla Commissione, laddove spetta al Consiglio dell’Unione europea ed al Parlamento approvarne il testo.
Per una valutazione del quadro istituzionale europeo antecedente al trattato di Lisbona cfr., tra gli altri, Weiler, Il sistema comunitario europeo: struttura giuridica e processo politico, Bologna, 1985; Shawj, Law of the European Union, 2000; Pocar, Commentario breve ai trattati della Comunità e dell’Unione europea, Padova, 2001; Tizzano, Trattati dell’Unione e della Comunità, Milano, 2004; Mengozzi, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione europea, Padova, 2006

14.  Cfr. Capriglione, Mercato Regole democrazia. L’Uem tra euroscetticismo e identità nazionali, Milano Assago, 2013, cap. V.

15.  Cfr. l’editoriale «Il saluto di Ferruccio de Bortoli ai lettori del Corriere della Sera», pubblicato in Corriere della sera del 30 aprile 2015, visionabile su www. corriere.it/cronache/15_aprile_30/saluto-lettori-direttore-de-bortoli).
Una dettagliata analisi sui limiti culturali e cognitivi dell’era presente – la quale si caratterizza per una diffusa incompetenza e disinformazione che sembra avere la meglio sul tradizionale sapere consolidato – si rinviene nel noto lavoro di  Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, trad. italiana edita da LUISS University Press, 2018.