Il brigantaggio postunitario nel dibattito parlamentare
F. G. Scoca, Il brigantaggio postunitario nel dibattito parlamentare (1861-1865), Napoli, 2016, 12-14.
Dall’introduzione del prof. Scoca al volume:
«a) Il fenomeno del brigantaggio non venne considerato, almeno dal Governo, nella sua variegata complessità, e nella sua profonda intima contraddittorietà, con la compresenza di bande di ladri, rapinatori e ricattatori, di soldati (non solo ex-borbonici) sbandati, renitenti alla leva, e di legittimisti “regnicoli” e stranieri, persone sinceramente convinte di combattere per una buona causa; b) almeno inizialmente il fenomeno venne nettamente sottovalutato; c) tuttavia ne vennero tardivamente approfondite, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e da deputati (non solo meridionali) che avevano assunto informazioni dirette, le cause prossime e remote, tra le quali ebbero particolare rilievo quelle sociali ed economiche, senza che il Governo modificasse il suo atteggiamento favorevole alla sola repressione militare; d) soprattutto nei primi due anni il Governo tentò di mantenere riservate le notizie che gli pervenivano dalle autorità civili e militari sulla situazione sul terreno, mantenendone all’oscuro i deputati, tanto da opporsi tenacemente per un lungo tempo, alla istituzione della Commissione d’inchiesta che verificasse in loco le condizioni effettive e formulasse proposte risolutive; e) in tal modo dapprima coprì, poi giustificò appellandosi alle “circostanze eccezionali”, le efferatezze compiute dalle truppe, con l’espresso suggerimento (in epoca Cialdini) o con il tacito assenso (in epoca Lamarmora), del Comando militare generale; f) il Governo e la maggioranza parlamentare ritennero, contro il documentato parere di molti autorevoli rappresentanti della minoranza (e qualcuno della stessa maggioranza), che la lotta al brigantaggio comportasse di necessità l’attribuzione dei processi sui reati di brigantaggio ai tribunali militari; e che la rottura dei rapporti di complicità con elementi della popolazione locale potesse essere raggiunta solo con pesanti misure di polizia, come il domicilio coatto, inflitte senza controllo giudiziale, né preventivo, né successivo.
Alla fine, attraverso i vari interventi di deputati e ministri, si è delineato un quadro che potrebbe non essere molto distante dalla realtà storica: al di là delle ricostruzioni romanzate (o romantiche), il brigantaggio fu un fenomeno prevalentemente di ordine criminale; e tale sua natura si accentuerà nel corso della sua durata, man mano che i legittimisti, che erano intenzionati a combattere effettivamente, venivano eliminati (si pensi a José Borjes, all’avvocato cilentano Giuseppe Tardio, o anche al sergente Romano), e sopravvivevano coloro che scorrevano le campagne, cercando in tutti i modi di evitare gli scontri con le truppe, compiendo delitti soltanto per il loro tornaconto personale.
Non è stato il brigantaggio postunitario una vicenda nobile di resistenza all’occupante straniero, anche se il Governo unitario non comprese le molte facce e le motivazioni profonde del disagio dei ceti poveri della popolazione meridionale, quasi privi di mezzi di sostentamento e disillusi dal mancato rispetto delle promesse di Garibaldi sulla distribuzione delle terre demaniali; dal canto suo, l’esercito, considerato dalla popolazione, soprattutto all’inizio, come piemontese (e non italiano), si comportò spesso come truppa di occupazione.
Se il brigantaggio non è stata una vicenda da esaltare, altrettanto, e forse peggio, fu il modo in cui venne combattuto. Ed è questo che lascia interdetti: la prima azione unitaria nei confronti di una parte del territorio appena unificato fece grondare sangue italiano, da parte di italiani, in modo non solo illegale, ma–anche, molto probabilmente, inutile».