Questo libro denuncia le “promesse mancate”, le negatività, del “capitalismo finanziario” affermatosi nel mondo dagli anni Settanta del Novecento[1]. Rispetto alla copiosa pubblicistica ispirata a una visione demonologica della finanza, il libro si distingue per il rigore con cui ogni affermazione è argomentata; per la padronanza di una vastissima letteratura multidisciplinare; per le questioni di grande rilievo che affronta; per la finezza della scrittura.
Il viaggio dell’Autrice si snoda attraverso quattro principali passaggi e una conclusione:
- a) Si muove dalla stagflation degli anni Settanta, appunto. Essa segnò la fine del mondo postbellico imperniato sugli Stati nazionali, sulle Costituzioni politiche, le leggi, l’idea e la pratica di un’economia, sì di mercato capitalistica, ma che gli Stati cercavano di orientare secondo le priorità di Parlamenti e Governi.
- b) A quel Leviatano nei decenni si è sostituito un “Prometeo finanziario”. Assistito dalla ICT, il moderno Prometeo ha inteso liberare, alleggerire, smaterializzare l’economico. Una fede rinnovata nel mercato e la ortodossia teorica neoclassica hanno ridimensionato tanto lo scetticismo verso la mano invisibile quanto la fiducia nell’interventismo pubblico. In economia Hayek si è preso la – temporanea! – rivincita su Keynes e Sraffa. In diritto, si sono affermati lo Stato minimo, la Constitutional Economics, il multilaterale, il sovranazionale, il diritto privato (proprietà, contratto, responsabilità civile, arbitrato, alternative dispute resolutions), una law and economics angusta, limitata alla razionalità efficientista su basi di teoria economica esclusivamente neoclassica.
- c) Bretton Woods, fondato da Keynes e White sulla cooperazione fra Stati nazionali e sul burden sharing fra paesi in surplus e paesi in deficit, è stato cancellato dagli Stati Uniti di Nixon il 15 agosto del 1971. La mobilità dei capitali e i cambi flessibili sono sfociati nella cosiddetta finanziarizzazione. Può citarsi un dato: su scala mondiale il rapporto debiti/Pil da 2:1 del 1997 è balzato a 3:1 nel 2017. Un doppio “pilota automatico” – libera finanza, più regola monetaria alla Friedman – ha sostituito la discrezionalità delle politiche economiche: fiscale, della moneta, dei redditi, industriale.
- d) La finanza non è più solo Banca, Borsa, Assicurazione. Superati i vecchi steccati (come il Glass-Steagall Act del 1933, abolito definitivamente dal Gramm-Leach-Bliley Act del 1999), le tre forme si sono mescolate negli intermediari universali. Soprattutto, la finanza ha espresso fondi comuni, hedge funds, cartolarizzazioni, derivati, shadow banking, opzioni e scommesse varie, originate to distribute invece del tradizionale originate to hold. È prevalso l’imperativo del creare valore nel breve periodo attraverso alti rendimenti da assunzione di alti rischi. L’industria delle fabbriche è stata ridimensionata dalla finanza come industria. I premi Nobel per l’economia non sono andati a Kahn, Harrod, Kaldor, Pasinetti, Hirschman, de Finetti, Baumol, Sylos Labini, Leibenstein, Minsky. Sono andati a matematici padroni degli algoritmi descrittivi di mercati assunti come “perfetti”, i mercati che nessun investitore può battere: Scholes, Merton, Sharpe, Miller, Fama. Infine, la Promessa: il doppio pilota automatico guiderà l’economia al meglio. Se l’ottimo è irraggiungibile, l’azione pubblica peggiorerebbe ogni situazione.
Ma la Promessa – conclude l’Autrice – non è stata mantenuta. C’è stata crescita senza inflazione, è vero. Il Pil del mondo è aumentato del 3,5% l’anno nel 1980-2017: grazie a Cina e India un buon ritmo, sebbene inferiore al 5% del 1950-1973. Però la qualità della crescita è stata per più versi insoddisfacente. Il potere invisibile, a-democratico, del ristretto club dei finanzieri più ricchi si è affermato al punto da dettare financo le regole per la stessa finanza. Inoltre si sono registrati almeno tre “rovesciamenti”: disuguaglianze, invece di trickle down; oligopoli e monopoli, invece di concorrenza; debito pubblico esecrato, debito privato esaltato. Insomma, Prometeo…barcolla!
La lettura-riassunto – l’invito è a leggere il libro! – pone a questo recensore il problema di essere da un lato largamente d’accordo, ma anche sollecitato a ridimensionare le accuse alla finanza, il settore nel quale egli ha lavorato come banchiere centrale: se non per farla assolvere, almeno perché la pena sia mitigata…
Tutti hanno diritto alla difesa, e il dovere del buon difensore è di scaricare la colpa su qualcun altro o di affastellare attenuanti per il suo patrocinato:
- 1. L’argomento di fondo è che il vero colpevole non è la finanza, ma il capitalismo. Il capitalismo è iniquo, instabile, inquinante. Mina l’equità distributiva, la stabilità economica, l’equilibrio ambientale. Senza finanza il capitalismo non potrebbe realisticamente darsi. Ma la finanza nasce, babilonese, 5mila anni fa, mentre la Rivoluzione industriale inglese è solo settecentesca. Soprattutto, l’alta teoria economica ha costruito i fondamentali modelli di iniquità, instabilità, inquinamento nel capitalismo anche senza includere nei modelli la finanza.
- 2. Eppure il capitalismo ha un merito, che lo fa accettare da tutti con l’eccezione, per ora, della…Corea del Nord. Dagli inizi dell’Ottocento questo modo di produzione ha moltiplicato di quasi 100 volte il Pil del mondo. Il numero degli esseri umani è aumentato di quasi 8 volte. Quindi il loro reddito medio pro capite, sino agli inizi dell’Ottocento rimasto pressoché invariato, è cresciuto di ben 13 volte. Marx ha quindi lodato la borghesia, capace di sviluppare le “forze produttive”. Persino Keynes ha superato il suo “disgusto morale” per il capitalismo, riconoscendolo come l’unico mezzo per superare la scarsità e aprire ai “nostri nipoti” la prospettiva dell’ozio, dell’amicizia, della conoscenza, il “being good” che la miseria impedisce di attingere.
- 3. La crescita economica dipende da due variabili: capitale e progresso tecnico. La buona finanza li favorisce entrambi. Gli studi econometrici lo confermano. Ad esempio, se le passività liquide emesse da banche e altri intermediari passano dal 20 al 60 per cento del Pil il tasso di crescita annuo del reddito pro capite aumenta di un punto percentuale. Ma la buona finanza non può estirpare le “tre i” del capitalismo: a) non l’iniquità, perché il capitalismo esalta e premia a dismisura quelle che gli tornano più utili; b) non l’instabilità, perché l’investimento oscilla essendo nel capitalismo affidato alle mutevoli aspettative, all’anarchia, degli “spiriti bestiali” dei produttori privati; c) non l’inquinamento, connaturato al capitalismo – al di là dell’uomo da sempre faber, violentatore della natura – perché l’impresa volta al profitto non calcola fra i propri costi le esternalità negative che producendo infligge all’ambiente e a chi lo abita.
- 4. Ribadito che la finanza – buona o cattiva – con l’inquinamento capitalistico c’entra poco o nulla, si constata, con l’Autrice, che fra i più ricchi al mondo vi sono non pochi finanzieri. E tuttavia non si può affermare che la ricchezza tenda a concentrarsi presso i rentiers della finanza, piuttosto che presso i capitalisti in quanto tali. Il tasso d’interesse – il frutto della finanza – non può alla lunga eccedere il tasso di profitto, perché l’interesse è pagato dal profitto, è parte del profitto. Traduco dai Principles di Ricardo (1821, p. 363): “L’interesse sulla moneta è regolato dai profitti che si possono lucrare impiegando capitale nelle produzioni”. Quanto al potere, ne avevano di più i Rothschild ottocenteschi, quando si riunivano per imporre la pace alle pazze, guerrafondaie nazioni d’Europa.
- 5. La finanza, anche quando promuove la crescita, è di per sé instabile e può provocare, o accentuare, l’instabilità intrinseca al capitalismo. Unisce, per Keynes, un “rischio del creditore”, o della banca, al “rischio del debitore”, o dell’impresa. La storia del capitalismo ha visto più spesso crisi reali e crisi finanziarie, insieme, ma ha visto anche crisi solo reali e crisi solo finanziarie. L’ultima crisi, del 2008-2009, è stata sia reale sia finanziaria, ma non dovunque. In Giappone e in Italia la più pesante delle recessioni ha coesistito con la stabilità bancaria. Negli Stati Uniti, invece, i fattori reali e i fattori finanziari hanno interagito. Tra i fattori reali si situano la scelta politica (Clinton, poi Bush) di compensare i bassi salari imposti dalla concorrenza cinese con l’acquisto a debito ipotecario dell’abitazione da parte dei lavoratori; la lunga esplosione dei prezzi degli immobili; l’incoerenza di salvare Bear Stearns, poi di abbandonare Lehman, poi si salvare AIG. Dal punto di vista finanziario la crisi Usa non fu da hedge-funds, da shadow banking, da banche universali, da derivati (con la parziale eccezione di AIG). Fu la solita crisi da eccesso d’indebitamento per finanziare investimenti rischiosi, in questo caso nei prodotti ipotecari. Colpì sia grandi banche commerciali classiche (come Wachovia), sia casse di risparmio (come Washington Mutual), sia broker-dealers, sia istituti speciali semipubblici (Fannie e Freddie), sia assicuratori.
La crisi è stata, però, di lezione. Molti, persino il giurista neo-liberista di Chicago Richard Posner (collega di Friedman e Fama), hanno scoperto Keynes e Minsky. Quella dei mercati perfetti appare sempre più, oltre che una promessa mancata, una bufala teorica. Nei fatti, per uscire dalla crisi, reale e finanziaria, si è dovuto far ricorso al vecchio Leviatano: lo Stato e la sua banca centrale. Tim Geithner, il pragmatico e decisionista Ministro del Tesoro di Obama, ha portato il disavanzo pubblico degli USA dal 5% del Pil nel 2007 al 14% del 2010, mentre la Fed abbatteva i tassi a breve dal 5% a zero, o poco più. Come spesso accade nelle crisi, dai salvataggi il Tesoro USA ha guadagnato (200 miliardi di dollari) perché ha acquisito cespiti a prezzi stracciati per poi rivenderli a prezzi rivalutati. Con parte di questi danari è stata salvata l’industria automobilistica.
Solo lo Stato non ha limiti di spesa. Solo la banca centrale può creare moneta.
Quindi, il bel libro della Ferrarese poteva chiudersi in tono meno pessimistico. Ciò anche perché, se le crisi sono imprevedibili e non prevenibili, la finanza può essere resa meno instabile e si possono contenere i danni dell’instabilità.
Quando Einaudi, liberal-liberista, nel dopoguerra fu Governatore della Banca d’Italia il suo saggio, esperto, pratico Direttore generale Donato Menichella gli spiegò che si poteva stabilizzare il sistema bancario italiano – con quello americano il più instabile dell’Occidente sino ad allora – agendo lungo tre vie: regole semplici e intelligenti; vigilanza prudenziale severa; credito di ultima istanza largo e discrezionale. Da ultimo, il codice penale.
Il sistema italiano ha confermato anche nell’ultima recessione la solidità bancaria acquisita da allora. Dal 2007 la caduta del Pil è giunta al 10%, ma solo qualche banca di provincia è caduta in dissesto. Solo in Italia si poteva addivenire a una inchiesta del Parlamento.
Occorrerebbe, nell’Europa del bail in, un Menichella fluente nella lingua tedesca…
Note
1. M.R. Ferrarese, Promesse mancate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario, il Mulino, Bologna, 2017, 200 pg. 200 ↑