Brexit: un disastro voluto.

La Brexit incombe oggi sul Regno Unito come un imminente disastro naturale, come un uragano che s’avvicina, come i tremori che precedono un terremoto, o come un vulcano fumante. Eppure, non è un disastro naturale, è interamente creato dall’uomo. Se ne conosce ormai la data. Quella metà dell’elettorato britannico che ha votato per abbandonare l’U.E. avrà, per quella data (marzo 2019), un’idea, seppure incompleta, di che cosa il suo voto significherà per il paese di cui ha voluto ‘riappropriarsi’. Quell’altra metà, che ha votato per rimanere nell’Unione, intende certamente meglio le dimensioni probabili del disastro, ma la sua capacità di affrontarlo è limitata. E’ certo che la Gran Bretagna sta sull’orlo di un disastro ‘non naturale’. Ma cosa diversa è come affrontare il dopo.
Il problema di fronte al quale si trovano entrambi gli schieramenti, dopo mesi di negoziati governativi e di preparativi condotti in tutta segretezza, è l’assenza di un quadro chiaro di cio’ che accadrà nella fase di transizione dopo il 2019, o della probabile configurazione dell’accordo definitivo, forse due o tre anni dopo. Siccome il cambiamento coinvolge le stesse fondamenta costituzionali, giuridiche ed economiche del paese, la mancanza di un chiaro programma da presentare ai cittadini britannici è una parodia di quel processo democratico attraverso cui l’uscita dall’Europa sarebbe dovuta avvenire. Il parlamento britannico, recentemente, ha conquistato solo per un minimo margine il diritto di esprimersi sui termini dell’accordo definitivo. Se questo minimo margine non fosse stato raggiunto, neppure il parlamento avrebbe avuto il diritto di intromettersi in quello che dovrebbe essere un processo aperto e democratico.
Nel R.U. larga parte del dibattito si è concentrata sulle conseguenze economiche della Brexit. All’inizio, la campagna organizzata da coloro che volevano l’uscita dall’Unione faceva intendere che sarebbero emersi larghi avanzi di bilancio per alleviare le difficoltà del Sistema sanitario nazionale, o che la famiglia media del R.U. avrebbe tratto benefici per centinaia di sterline dal fatto di non dover piu’ pagare le tasse derivanti dall’appartenenza al Mercato unico. Entrambe le affermazioni si sono rivelate pretestuose. Si stima adesso che il costo di abbandonare l’Unione ammonti a non meno di 60 miliardi di sterline. E le famiglie si accorgeranno che le loro tasse non scenderanno, poiché’ lo stato dovrà supplire ai vuoti in precedenza coperti dai generosi sussidi dell’Unione o dai programmi d’investimento regionali. Date le prospettive di una crescente inflazione, già visibili nelle tendenze correnti, il costo reale per le famiglie dei prodotti alimentari e di altre merci importate salirà, forse in modo sostanziale. L’andamento dell’economia dipenderà molto dal genere di accordo che Theresa May riuscirà a raggiungere con i partners europei, ma sembra assai improbabile che lasciare l’Europa migliorerà la situazione dei consumatori del R.U.
Ma la questione economica va ben oltre il prezzo dei generi alimentari o i risparmi sui contributi dovuti dal R.U. all’Europa. La Gran Bretagna dovrà ridisegnare le proprie relazioni commerciali e finanziarie con il resto del mondo, e non vi è motivo di pensare che si tratterà di un processo facile o automatico. Il nostro paese è stato parte dell’Europa per un tempo assai lungo, mentre, a livello internazionale, si verificavano fondamentali cambiamenti nella configurazione dei mercati e dei commerci. Le relazioni commerciali con gli Stati Uniti si sono nel frattempo ridotte, e il presidente Trump ha già reso chiaro che non ci saranno facili accordi né con la Gran Bretagna né con altri paesi terzi. E’ una semplice fantasticheria pensare che i mercati verso i quali i nostri esportatori hanno sinora avuto un accesso limitato o inesistente si apriranno improvvisamente ai nostri beni e servizi. Forse, l’abbandono dell’Europa spingerà subito i nostri imprenditori a essere piu’ innovativi o piu’ attenti al marketing dei loro prodotti, ma questa è nel migliore dei casi pura speculazione. I fatti dicono che la Gran Bretagna resterà un paese piccolo, anche se benestante, e dovrà affrontare un ordine economico globale estremamente competitivo, nel quale dovrà destreggiarsi con abilità e diplomazia.
Anche la struttura dell’economia britannica è cambiata profondamente. Il settore manifatturiero fornisce solo una piccola frazione del prodotto nazionale – intorno al 16% – mentre i servizi e in genere il settore terziario predominano. L’agricoltura del R.U. è adesso strettamente legata all’Europa: circa i quattro quinti delle sue esportazioni vanno a economie di altri paesi europei. In conseguenza della Brexit l’agricoltura dovrà affrontare sfide eccezionali per la sua stessa sopravvivenza (è questa un’ironia, considerato che le aree più rurali hanno votato in maggioranza per lasciare l’Unione). I prodotti manifatturieri continueranno a essere importati a costi crescenti; l’idea di una reindustrializzazione della Gran Bretagna, che è stata prospettata come conseguenza della Brexit, non è assolutamente convincente. Ciò che in effetti rimane è un grande, e attualmente profittevole, settore dei servizi, ma anche in questo caso il nostro paese ha tratto beneficio agendo come una sorta di clearing-house tra la finanza mondiale e l’area dell’euro. Se il R.U. lascia l’Europa, gli operatori internazionali cercheranno inevitabilmente altri punti d’ingresso nell’Unione europea. Ci sono buone probabilità che si ripeta la crisi della sterlina degli anni ’90, poiché la speculazione cercherà di sfruttare a proprio vantaggio i cambiamenti strutturali provocati dalla Brexit. Le economie moderne sono in grado di affrontare recessioni e crisi, ma questa è una crisi molto diversa, poiché comporta un’improvvisa rottura di certi legami istituzionali e commerciali ben consolidati, senza alcuna certezza che da essa risulterà nel breve termine una struttura nuova ed efficiente.
C’è poi il problema della disponibilità di forza lavoro.  Ormai da anni il R.U. ha raggiunto livelli di disoccupazione più bassi che nel resto d’Europa, ha anzi ampliato i propri livelli d’occupazione complessiva. Ciò ha significato affidarsi in modo crescente a lavoratori provenienti da altri paesi europei, in particolare nei settori dei servizi, della salute e delle costruzioni. Si stima che a Londra più di due terzi della mano d’opera nel settore delle costruzioni provenga da altri paesi europei. Il Servizio sanitario nazionale si basa molto sull’apporto di personale medico, ostetrico e infermieristico non inglese. Non vi sono ancora indicazioni chiare circa il se e come il governo rispetterà l’attuale occupazione nel R.U. di persone di altri paesi europei, ma di certo il loro afflusso s’inaridirà. Parte dell’argomentazione dei sostenitori della Brexit – costantemente sottolineata dalla stampa popolare pro-Brexit – è che gli ‘europei’ sottraggono lavoro ai lavoratori inglesi. Ma questo non è vero. Il residuo di disoccupazione che permane in Gran Bretagna è il risultato di troppi lavoratori non specializzati: persone che non hanno addestramento, né sono idonei ad averlo, né lo cercano. Non c’è un ampio bacino di lavoratori inglesi che possa rimpiazzare la quantità, attualmente assai grande, di lavoratori reclutati da altri paesi europei. Coloro che già lavorano qui potranno forse ottenere uno status speciale – si è molto discusso circa la possibilità di dotarli di carte d’identità, che i cittadini britannici non sono obbligati ad avere – ma già in decine di migliaia stanno tornando a casa, nell’incertezza sul loro futuro in una Gran Bretagna uscita dall’Unione.
Queste incertezze derivano in parte dalla campagna xenofobica dei sostenitori della Brexit, che ha giocato sulla consueta sfiducia per gli ‘stranieri’ e sul carattere peculiare della tradizione costituzionale e democratica inglese, la quale, si afferma, mal si adatta alle ‘regole di Bruxelles’. Ma c’è anche un aspetto piu’ sgradevole di questa xenofobia, che è sfruttato da piccoli gruppi marginali di ultranazionalisti, i quali non sono riluttanti a usare intimidazioni e violenza, come nel caso dell’assassinio della parlamentare laburista Jo Cox un paio d’anni fa.

Comunque, questa enfasi sulle peculiarità britanniche non è limitata al British National Party e ai suoi alleati ultranazionalisti. C’è anche un appoggio intellettuale alla Brexit che proviene da gruppi come gli ‘Storici per la Gran Bretagna’ che hanno lavorato molto a favore delle tradizioni inglesi e della necessità di proteggerle da una lenta europeizzazione. Questa posizione ha limiti ovvi, poiché’ ogni stato membro dell’Unione ha il suo retaggio storico, la propria cultura e senso d’identità. Tutto cio’ non è incompatibile con l’appartenenza all’Unione, come è evidente dalla storia degli ultimi cinquant’anni. Anche all’interno dell’Unione, la Gran Bretagna è stata in grado di battersi per il riconoscimento di una sua posizione speciale su diversi temi sociali ed economici, ad esempio rifiutando l’euro e una frontiera senza passaporti.
Questi argomenti, non convincenti, a favore della nostra unicità si accompagnano a una forte componente di nostalgia per un passato che vedeva la Gran Bretagna come una delle grandi potenze mondiali, se non addirittura come la prima superpotenza. L’ossessione attuale che c’è in Inghilterra nel ricordare la seconda guerra mondiale come un conflitto nel quale essa è stata la sola barriera per salvare l’Europa dalla tirannia sfrutta il sentimentalismo della Brexit per il passato. Il recente successo dei film Dunkirk, lo scorso anno, e Darkest Hour (su Churchill che prende il potere), quest’anno, può anche non essere volutamente connesso alla Brexit, ma entrambi i film sfruttano il tema della Gran Bretagna sola contro un’Europa dominata dall’autoritarismo tedesco, tema in cui si coglie un’eco dell’attuale ostilità al ruolo della Germania nell’U.E.: un pregiudizio completamente infondato, che ha le sue radici nel fatto che la Germania continua a essere vista come “il cattivo” nella memoria popolare inglese delle due guerre mondiali. Si tratta dello stesso sentimentalismo che avvolge il ricordo dell’Impero britannico, dopo decenni in cui la sinistra liberale lo ha criticato. Il raj indiano (il governo inglese dell’India) è così diventato un sistema benevolo e paternalistico; e acquista crescente consenso l’idea che l’impero britannico sia sempre stato alla base del progresso delle popolazioni delle colonie, a differenza di altri imperialismi.
Questo rinnovato interesse per una visione acritica del passato imperiale della Gran Bretagna ben si concilia con la nuova moda intellettuale che parla della “Anglosfera”, da contrapporre alla ormai deteriorata relazione con il resto d’Europa. Con tale termine ci s’intende riferire alla stessa Gran Bretagna, agli Stati Uniti e alle vecchie zone dell’Impero popolate da bianchi – l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada. Chi sostiene che l’Anglosfera sia un progetto fattibile rileva la lunga storia di legami economici, culturali e strategici tra queste comunità, unite anche dalla lingua comune. Questo contesto storico – si ritiene – fornisce la base per forgiare un nuovo senso d’identità anglo-sassone, e per consolidare comuni interessi economici e culturali, ed anche per condividere aspetti di sicurezza collettiva. Ma come buona parte delle elucubrazioni post-Brexit, l’Anglosfera è una fantasia. La Gran Bretagna e le altre nazioni che parlano inglese si sono ormai distanziate. La speranza che gli Stati Uniti vogliano aderire a quest’idea, che ricorda da vicino l’idea dei trascorsi imperiali della Gran Bretagna, svanisce di fronte alla realtà. Il fatto che si sia incerti se includere o no l’India nell’Anglosfera è un insulto all’India moderna che si è ormai plasmata una sua propria identità post-imperiale e che avrebbe ben poco desiderio di aderire a una ‘sfera’ centrata sulla comune lingua inglese. Non c’è piu’ spazio per una cooperazione economica che si era sempre basata in passato su una relazione squilibrata tra la Gran Bretagna e i suoi avamposti imperiali. Gli Stati Uniti, dati i propri interessi, tradizionalmente rivolti al Sud e Centro America e ora diretti verso l’Asia e il Pacifico, hanno ben poco, o nulla, da guadagnare da un’Anglosfera, sia essa formale o informale. Questa parola non è che uno slogan che intende attutire le incertezze sull’identità stessa dalla Gran Bretagna nel mondo, dopo il 2019.
Questa identità è minacciata anche dalle conseguenze della Brexit all’interno del Regno Unito. Questo potrebbe, a lungo, non restare unito. La Scozia già gode di larga autonomia, ma la grande maggioranza della sua popolazione vuole restare nell’U.E. Attualmente, la sua indipendenza non garantirebbe un immediato accesso all’Unione, ma, se si separasse dall’Inghilterra, la Scozia avrebbe un’economia del tutto in salute per aderire all’Unione stessa. Quanto all’Irlanda del Nord, i cui parlamentari protestanti puntellano il governo di Theresa May, c’è un problema grave. Dopo anni in cui la pace si sta consolidando e la frontiera tra le due Irlande è piu’ aperta, sembra probabile che verrà di nuovo ristabilito un confine piu’ marcato. I nazionalisti irlandesi potrebbero allora rivitalizzare la campagna per l’unificazione dell’intera isola, e – anche tra i votanti protestanti – ci potrebbero essere forti ragioni per credere che l’appartenenza all’Europa darebbe loro benefici maggiori rispetto all’appartenenza a un Regno Unito che deve fronteggiare una crisi economica, e alla possibilità che il nazionalismo ’inglese’ diventi piu’ martellante. Colpisce infatti la frequenza con la quale nella discussione sul futuro ricorra la parola ‘Inghilterra’. La Gran Bretagna è uno stato federale che ha avuto un buon successo, ma la Brexit ha mostrato, e mostrera’, quanto fragile essa possa essere una volta che la ‘nazione’ prendesse il posto dell’appartenenza all’Unione Europea come categoria di riferimento.
Sappiamo bene che una nuova ondata nazionalistica in Europa non è confinata alla Gran Bretagna. Ma la decisione di uscire dall’U.E. contribuirà molto a rafforzare le forze politiche che favoriscono un’idea di nazione strettamente definita. Ne conseguirà che l’Europa sarà portata indietro al 20mo secolo e alla sua ossessione per l’identità nazionale e a tutte le tensioni e ai conflitti politici internazionali che tale ossessione alimentò. Brexit è assolutamente un passo all’indietro, che ci porta a dire che decenni di cooperazione economica, sociale e politica hanno realizzato ben poco, se i loro risultati possono essere rovesciati da un semplice voto ‘si’/no’, espresso da un elettorato sfortunatamente ignorante dei problemi. Le fondamenta filosofiche dell’Unione Europea sono raramente discusse, e certamente non lo sono nel dibattito in Gran Bretagna. Eppure ci sono argomenti convincenti a favore della prevalenza della collaborazione sulla competizione, dei confini aperti rispetto a frontiere strettamente controllate, della tolleranza culturale e sociale rispetto alle politiche di esclusione e di differenziazione culturale. Le ragioni filosofiche a favore dell’Europa richiedono un’appropriata conoscenza della storia europea recente e una consapevole comprensione del dove sta il futuro dell’Europa. Purtroppo, forse la maggioranza di coloro che hanno votato per la Brexit avevano ben poco dell’una e dell’altra.