Giustizia poetica

Di recente ho riletto Marta Nussbaum, l’autrice di Giustizia poetica, un saggio di filosofia morale interessante per i giuristi.
Il saggio parte da una epigrafe in cui si cita un dialogo fra Chesterton e Bronte menzionato da un candidato alla Corte Suprema americana.
Un giudice supremo americano che fa riferimento ad un testo letterario.
Vediamo di cosa si tratta.
Il giudice Stephen Breyer, durante l’audizione di fronte al Senate Judiciary Committee, in occasione della nomina a giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti raccontò di essere stato turbato molto da una lettura di un passo di Chesterton che riferiva di un suo discorrere con una delle sorelle Bronte sul significato della letteratura.
Chesterton che stava guardando Londra le disse : “in questo istante, in questo fine –secolo, tu vedi tutte quelle case e ti sembrano tutte uguali. E pensi a tutte quelle persone là fuori, che vanno al lavoro e sono tutte uguali”.
E la Bronte in risposta : “Le case non sono tutte uguali. Ed ognuna di quelle persone in ognuna di quelle case e ognuna di quelle famiglie è differente e ciascuna ha una storia da raccontare. Ognuna di quelle storie ha a che fare con la passione umana. Ognuna di quelle storie riguarda un uomo, una donna, dei bambini, delle famiglie , delle opere, delle vite ed i libri fanno nascere in te queste sensazioni. Qualche volta ho trovato la letteratura molto utile per uscire dalla mia torre d’avorio.”
E da questa citazione – come si è detto – parte Marta Nussbaum per dirci cosa è la giustizia poetica[1].

La giustizia poetica è definita da Walt Withman, visitato nel 1867 da un Fantasma presso le rive dell’Ontario che gli dice che la Nazione americana deve essere guidata dai poeti e non dai Presidenti, come la giustizia fatta dal giudice come arbitro del diverso, da un giudice particolare, un giudice poeta che “non discute ma giudica (la Natura l’accetta in modo assoluto )” e “non giudica come giudicano giudici, ma come il sole che piove intorno ad un oggetto inerte. Vede l’eternità negli uomini, nelle donne; non vede uomini e donne come sogni o pulviscolo”.
Whitman pensa ad un “uomo equanime” che “largisce ad ogni qualità, ad ogni oggetto, le proporzioni che si addicono loro, né più né meno.”
Fin qui nulla di nuovo il diritto è da sempre ars boni et aequi.
La novità risiede nella immagine per cui gli uomini e le donne sono visti dal giudice sub specie aeternitatis e non come sogni o pulviscolo.
Il giudice deve conciliare l’universale della legge con la concretezza della vita.
Quindi il giudice non discute (rectius : non si perde in sterili e polemiche argomentazioni; non deve trasformare le motivazioni delle sentenze in dotte dissertazioni accademiche) ma “giudica”, con straordinaria attenzione ai dettagli ed alla concretezza dei singoli casi (come la luce del sole avvolge un oggetto inerte) per conciliare la vita del diritto con il diritto alla vita (e qui uso una espressione ripetuta spesso da un politico italiano ben riconoscibile in queste parole).
Il sole illumina ciò che altrimenti rimarrebbe avvolto nell’oscurità.
Ma il sole brucia anche quando si è esposti ad esso, ed alla giustizia autentica non dovrebbe rimanere nascosto anche l’aspetto più difficile della vita, quello inaccettabile, quello criminale, nato nell’oscurità e vissuto in essa come la materia da cui non vorrebbe mai essere liberato.
Anche in tale oscurità il poeta-giudice sa che l’uomo e la donna sono portatori di eternità (ogni imputato ovviamente, ma anche il responsabile del crimine più efferato).
Ovviamente il giudice non può essere un poeta e l’ideale indicato da Whitman è solo un ideale paradigmatico, impossibile, il giudice storicamente dato ha dei vincoli, dati dall’ordinamento, ma ciò che è importante nella concezione del giudice-poeta è che egli può intuire qualcosa della materia umana sottostante ogni singolo caso come un osservatore delle passioni umane, dotato di un certo atteggiamento che potremmo definire di simpatia umanistica per ogni essere umano coinvolto nel processo (le vittime in primis ma anche – come è naturale per ogni sistema di giustizia equilibrato, gli imputati ed i condannati).
Marta Nussbaum contrappone il giudice poeta al giudice scettico, distaccato e cinico ed al giudice scienziato, che fa del ragionamento giudiziale un ragionamento scientifico (tendenza questa alla base della c.d. giustizia predittiva) ed, infine, al giudice formalista che vede nel normativismo e nell’universalità il solo mondo interessante prendendo le distanze dalla concretezza della vita umana.
Il giudice letterato non è un giudice creatore, non è un giudice libero da vincoli, non è un giudice che si muova arbitrariamente.
Egli è un giudice che è consapevole perché la letteratura lo rende consapevole della triste necessità legata al suo operare, è un giudice della complessità, scientifica certo ma anche umana dei fatti sui quali egli deve formulare il giudizio.
Il saggio della Nussbaum non vuole tanto costruire un ideal-tipo di giudice ma indicare un ideale formativo buono per ognuno, flessibile e coniugabile con le più diverse nature ed inclinazioni.
Non si deve certo chiedere ai giudici di scrivere poesie, sarebbero i più, per fortuna, inadatti al compito e chi vi si azzarda lo fa a suo rischio e pericolo (poetare richiede un certo coraggio e sprezzo del ridicolo).
Ma ai giudici si può e si deve chiedere di essere colti, ossia critici e consapevoli del mondo esterno e non solo chiusi in una torre d’avorio, in una sfera separata che finirebbe con il vederli solo concentrati sulle dinamiche del mondo burocratico (o professionale nel mondo di common law) che li costituisce.
Il giudice dovrebbe essere un robusto lettore.
Un lettore accanito, e non solo di carte processuali.
La lettura dei capolavori letterari attiva ed affina la continua ricerca del bene comune, interrogativi sui diversi sistemi sociali, sulle loro ingiustizie, costituisce non meno dell’educazione civica il nerbo dell’educazione morale di un popolo e della sua classe dirigente.
Occorre sottoporre a profonda critica il modello del giurista come mero tecnico che deve risolvere rebus giudiziari.
Il problem solving – come sottolinea uno studioso profondo ed attento di questi temi deontologici – deve essere il cuore dell’esperienza giuridica[2].
Ma il problem solving è aiutato dalla cultura letteraria.
Un giurista concepito come mero tecnico ha meno chances di comprendere la complessità valoriale dell’ordinamento multilivello, di essere attrezzato per interpretare le diverse culture che ormai confluiscono nel mare magnum dell’esperienza giuridica sovranazionale, ha meno attenzione in definitiva per ogni aspetto dell’umano ed alla fine è meno capace di apprezzarne la concretezza con quel grado di eternità che è in ogni differenza.

La lettura dei romanzi e delle poesie è sempre ingenua e non scettica, perché parte da un processo mimetico ingenuo, da una esperienza di immedesimazione che è la stessa che il giudice dovrà ripetere in un dibattimento.
Ogni giudizio è questa opera di immedesimazione ed estraneazione che concilia la singolarità e l’universalità.
Ecco perché gli algoritmi non potranno mai sostituirsi ai giudici (come è illusione coltivata dai meccanici sostenitori della rivoluzione informatica e delle magnifiche sorti e progressive della c.d. giustizia predittiva).
I tentativi di cercare metodi extrastorici di interpretazione dei testi (letterari e giuridici) sono ben presenti nella cultura occidentale (si pensi allo strutturalismo, alla linguistica, al razionalismo logico) ma essi sono basati sull’idea che la giustizia possa essere colta come idea al di fuori della storia.
Tali tentativi sono alla radice dei tentativi di formalizzazione estrema del linguaggio giuridico, formalizzazione che è utile e sarà in certo grado raggiunta ma che non potrà mai oscurare l’origine umanistica del sapere giuridico.
Marta Nussbaum ci ricorda che i giuristi usualmente hanno obiettivi più modesti del raggiungimento di una giustizia ideale ed operano nel solco di tradizioni[3].
È necessario non rinunciare ad un’idea di giustizia, ma la sua ricerca deve svolgersi in un contesto storicamente determinato e deve essere ancorata a casi concreti.
La ricerca della giustizia ideale induce scetticismo perché – come dice Benjamin Cardozo – “il cielo è sempre oltre” e la giustizia astratta così intesa è un paradiso destinato a sfuggirci, un cielo che, facilmente, si trasformerà in abisso.
Non reggono inoltre, per la Nussbaum, le assimilazioni del diritto alle scienze della natura e nemmeno alle scienze economiche, il proprio del diritto è insieme di essere una disciplina tanto umanistica quanto scientifica.
Il giudice letterato (ma non certo digiuno di nozioni scientifiche, ove rilevanti per la sua professione) è uno spettatore imparziale e neutrale delle vicende umane e non prende partito né religioso né politico.
Egli non è, tuttavia, privo di emozioni e prova empaticamente su di sé ogni sentimento che la concretezza delle vicende umane su cui è chiamato a giudicare gli suscita.
Egli è un giudice emotivo, ma capace di raffreddare le emozioni quando la materia (come in primo grado) è incandescente, o riviverle fra fredde carte (come nei gradi di impugnazione ) quando la materia è decantata ma lascia pur sempre trasparire le sofferenze umane che vi sono correlate.
Un giudice emotivo infatti non è un giudice travolto dall’emotività ma è un giudice che sa rivivere con la propria immaginazione la concretezza del caso sottopostogli senza rinunciare ad alcuno strumento di controllo razionale.
Ragione e sentimento tenuti insieme in una coscienza.
Il giudice –poeta per la Nussbaum in definitiva cerca la pienezza vitale dietro le carte, deve immaginare mondi, provare empatia prima di giudicare, ma deve anche coltivare la solitudine nella quale matura il giudizio, rispettare i vincoli dati, usare tutti gli strumenti di controllo razionale consentiti a sua disposizione.
Così saprà anche, all’occorrenza, tutelare l’emarginato, il diverso, il dissidente ove abbiano, come può accadere, il diritto dalla loro parte.
Così riconoscerà i diritti di un soggetto giustamente detenuto ma che abbia subito una lesione della propria dignità o saprà valutare l’offensività di una condotta tenuta da superiori aziendali contro una donna sofferente per ragioni familiari che l’azienda non abbia adeguatamente prevenuta né repressa[4].

Le istituzioni giudiziarie non devono essere mai “nudi organi di potere” (sempre la Nussbaum) e quindi esse devono rimanere impermeabili alle logiche politiche e non condizionati da esse, anche se devono seguire le vicende storico politiche per coglierne il senso e per valutarle con la necessaria profondità.
La capacità di riflettere sulla vita delle persone è parte essenziale del lavoro del giudice non è tutto, ovviamente, ma ne è parte indispensabile.
La giustizia poetica ha bisogno di molte risorse che non sono letterarie; ma per essere pienamente razionali i giudici devono essere anche umani.
Questo ci dice la Nussbaum che usa Whitman con le cui parole possiamo chiudere queste brevi considerazioni sperando di aver suscitato qualche curiosità nel lettore, in queste parole la giustizia poetica appare fondamento comunemente accettato della vita nazionale, fondamento da cui sorge una politica libera anche di superare se stessa:

“Mantenere uniti gli uomini in virtù di carte, sigilli, obblighi, a nulla serve, | solo sa mantenere uniti gli uomini ciò che aggrega ogni cosa in un vivo principio, come ciò che unisce le membra di un corpo, le fibre di una pianta. (9, p. 436)
 […] la prova di un poeta dovrà venire severamente differita finché il suo paese non l’abbia affezionatamente assorbito, così come lui ha assorbito il paese. (13, p. 441)
Io sono per quelli che non vennero mai sottomessi, | per uomini e donne il cui carattere non venne mai domo, | per quelli che leggi, teorie, convenzioni mai potranno domare.”

Note

1.  M. Nussbaum Giustizia poetica , Milano-Udine 2012.

2.  V. Pascuzzi Il problem solving nelle professioni giuridiche Bologna 2017.

3.  In Italia tutta l’opera di Paolo Grossi può essere letta come un richiamo a questa concezione concreta e storica della vita del diritto.

4.  Questi esempi sono nel testo della Nussbaum ove, fra l’altro, si esaminano casi americani dei giudici Stevens e Posner.