Considerazioni e divagazioni sul Correttivo al Codice degli Appalti e il Project Financing, Parte Seconda

1. Riprendo il discorso sul Correttivo al Codice degli Appalti apportato con il Dlgs 19 aprile 2017 n. 56.
La prima parte risale ormai a maggio di quest’anno ed è bene che io mi sbrighi a concludere la seconda parte, prima che spunti un nuovo Correttivo del Correttivo, cosa del tutto probabile nel nostro Paese.
Ricordo che, data la vastità dell’orizzonte coperto dal Codice, le mie considerazioni valgono in particolar modo per tutto ciò che concerne il tema che più mi sta a cuore, e cioè quelle componenti del Codice stesso che riguardano la partecipazione del capitale privato nella realizzazione delle opere pubbliche.
Ovviamente nel Codice ci sono molti comuni denominatori tra i temi PPP e quelli riguardanti il regime puro degli appalti, e non verranno trascurati.
Anzi, partirei proprio da uno di questi temi “trasversali” per avviare la nuova disamina del Correttivo, che altro non è che una scusa per fare le pulci anche al Codice in sé.
Parliamo quindi ora di quello strumento che, il condizionale è d’obbligo, dovrebbe consentire alla PA, dall’ANAS alla regione Lombardia fino al Comune di Moncenisio (30 abitanti), con poche differenze strutturali, di organizzare la realizzazione delle opere pubbliche di propria competenza e ritenute necessarie per il soddisfacimento delle esigenze della collettività cui si rivolgono e di cui sono responsabili.
a. La questione della programmazione triennale
Lo strumento della Programmazione Triennale vede la luce con la Legge Merloni, la 109/94, ma non con la prima stesura, posso sbagliarmi, ma dovrebbe esordire con la versione del 1998, la L. 514 del 18 novembre 1998, ovvero la Merloni ter (da notare che nel giro di 4 anni siamo già a tre modifiche della legge).
Ne seguiranno, nei successivi 19 anni, comprese le 2 versioni dei Regolamenti e i decreti correttivi e tralasciando la Linee Guida ANAC che dovrebbero surrogare il Regolamento vigente, ovvero il 207/2010, altre 11 versioni.
La legge Fondamentale sui lavori Pubblici, la 24 del 20 marzo 1865, compreso il Regolamento 350 del 1895, ha subito fino al 1994 una modifica sostanziale nel 1945 con il Dlgs N° 16 che istituiva i Provveditorati. Se il grado di solidità di uno stato, come disse qualcuno, è inversamente proporzionale alla variabilità del suo quadro legislativo, c’è poco da stare allegri.
In ogni caso, con il progressivo incremento dell’autonomia decisionale delle amministrazioni locali (a cui però non fece riscontro un corrispondente incremento delle disponibilità finanziarie) il legislatore giustamente introdusse “la regola”, ovvero che ogni anno, in corrispondenza dell’approvazione del bilancio, più o meno tutte le amministrazioni ricadenti sotto il dettato del Codice dei Lavori Pubblici dovessero presentare, con un meccanismo di adeguamento per scorrimento, il loro programma di realizzazione delle opere pubbliche, compreso il già citato Comune di Moncenisio di 30 anime.
Nel giro di breve tempo emersero due aspetti: il primo era che le amministrazioni presero coscienziosamente atto del fatto che l’inserimento di questa o quell’opera nel famoso programma doveva comportare come minimo una conoscenza del loro quadro esigenziale delle opere pubbliche, e che questo quadro non poteva essere lasciato alla sensibilità “nasometrica” dei singoli amministratori, ma supportato da un briciolo di indagini e di fattibilità, per eseguire seriamente le quali non c’era il becco di un quattrino. Il secondo aspetto era che, avendo la Merloni contemporaneamente introdotto il concetto di Project Financing, cioè la possibilità che le opere pubbliche potessero essere realizzate con capitali privati, si aprì il vaso di Pandora e le pubbliche amministrazioni diedero fondo al cassetto dei sogni inserendo anche le fioriere a decoro della piazza comunale come opera finanziabile da capitali privati.
Per quei pochi incauti imprenditori che si avventurarono in questo nuovo orizzonte, scattò immediatamente la tagliola delle contropartite che la PA chiedeva in cambio della “concessione” per un’opera.
Ricordo parecchi anni fa un Comune del sud della costa tirrenica che pubblicò un avviso a proporre per la realizzazione di un modesto porticciolo turistico, che già di per sé era tutto da dimostrare che capacità avrebbe avuto di ripagarsi con i soli proventi della gestione. Il Comune, ferratissimo in questioni di tipo finanziario e di gioco della domanda e dell’offerta, oltre all’ambita concessione chiedeva che il privato, per dimostrare eterna riconoscenza per il privilegio ottenuto, avrebbe dovuto realizzare a sue spese il nuovo impianto di illuminazione pubblica di tutto il Comune, la realizzazione di un imprecisato numero di alloggi popolari e, soprattutto, la bonifica e la riqualificazione di una vecchia area industriale dismessa da un importante gruppo manufatturiero nazionale che, esauriti i fondi della CASMEZ, aveva ben pensato di mollare lì baracca e burattini.
Va da sé che, a più di 12 anni di distanza, del porto non c’è ombra, mentre invece è ancora ben vistosa la presenza inquinante dell’area dismessa.
A compensazione del palese limite che poneva l’obbligo di redigere degli studi preliminari, se non proprio dei progetti preliminari, e della mancanza di risorse per predisporli, la Cassa Depositi e Prestiti ebbe più o meno in quel periodo la brillante e lodevole idea di costituire il “Fondo Rotativo per la Progettualità” di cui si è già ampiamente parlato in altre parti. Le cause del rapido fallimento di tale strumento, in sintesi, furono le pastoie burocratiche e la griglia sempre più fitta di paletti che venne posta ai poveri enti locali per tentare di accedere agli agognati finanziamenti. In altre parole, gli enti locali, già strizzati ben bene nella loro capacità di indebitamento dal Patto di Stabilità, avrebbero sì potuto accedere alle risorse del Fondo, ma le avrebbero dovute restituire (per ricostituire il Fondo, che appunto si chiamava Rotativo) nel caso che l’opera non fosse stata realizzata. Come anche un bambino sa, su 10 opere programmate, sì e no 2 vedono la luce, e questo avrebbe significato che gli enti locali avrebbero comunque pagato studi e progetti preliminari per 10 pur realizzandone due, se andava bene.
Il classico cane che si morde la coda se il tema era, ed è tuttora, la mancanza di soldi per fare “buoni progetti”.
Infatti la lodevole iniziativa di CDP fallì alla velocità del suono, pur restando, quella di una risorsa da mettere a disposizione nella cosiddetta “fase dell’incertezza” (cioè quella nella quale non è assolutamente certo che un’opera sia utile e verrà fatta, ma nella quale comunque è necessario fare indagini, fattibilità, preliminari, che costano, se fatti bene, e neanche poco), un’esigenza fondamentale per un Paese che voglia crescere ed essere competitivo.
È passato il Fondo, ma è rimasto, anzi, è diventato più stringente per la PA, l’obbligo della predisposizione della programmazione triennale delle OOPP.
Saltando di pari in frasca dai primi vagiti di tale innovazione allo stato attuale, vediamo cosa diceva in proposito il Dlgs 50 del 2016 e le novità introdotte dal Correttivo del 2017.
L’unica vera novità rispetto al Dlgs 163/2006, art. 128[1] è l’introduzione dell’obbligo della programmazione (biennale però, non triennale come per i lavori) anche per gli acquisti e forniture. In questa sede tale novità interessa relativamente, perché, come ho avuto già modo di chiarire nella prima parte, questi miei interventi vorrebbero cercare di mettere a fuoco i temi all’interno del Codice che riguardano soprattutto la possibilità che i capitali privati possano in qualche modo surrogare l’endemica carenza di finanziamenti pubblici in conto capitale per la realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche, o per assenza o per lentezza di messa a disposizione.

In questa ottica, il momento della “programmazione” da parte di una pubblica amministrazione, che sia biennale, triennale, decennale, come volete, è un momento veramente cruciale e fondante per la trasformazione del territorio, ma soprattutto per la crescita del tessuto sociale in tutti i termini.
Infatti, va bene, anzi benissimo la possibilità di fare intervenire risorse private, ma non è pensabile che la pubblica amministrazione, cioè i rappresentanti democraticamente eletti della volontà di una intera comunità, possano delegare all’iniziativa di un portatore di interessi privati la decisione di cosa serva o non serva alla collettività.
Insomma, a mio modesto avviso, e io sono e sarò sempre un tenacissimo sostenitore della necessità di fare intervenire i capitali privati nelle opere pubbliche e nella valorizzazione del territorio e del patrimonio esistente (perlomeno finché lo Stato non avrà ricostituito una vera capacità di investimento in infrastrutture e di spesa in conto capitale, cosa che mi sembra quantomeno improbabile per le prossime due generazioni, stante il “disavanzo” primario e l’ingombro della spesa corrente e del debito pubblico) il momento decisionale e, soprattutto, l’analisi dei fabbisogni della collettività deve restare una prerogativa delle amministrazioni pubbliche, da difendere con tutte le forze, e non può essere lasciata al privato o ad altri stakeholders. Però la PA, dal solito Comune di Moncenisio fino all’ANAS, passando per i grandi Comuni e, purtroppo, per le Regioni, deve essere messa in grado di poter analizzare “a monte” con tutti gli strumenti possibili e nel modo più obiettivo possibile (leggi: senza l’intervento di questo o quel personaggio pubblico legato a interessi di parte) il vero “quadro esigenziale” di un territorio.
Sempre a mio modesto avviso, nel Dlgs 50/2016 è stato eliminato (o quantomeno ridotto ai minimi termini anche nel messaggio che trasmetteva) un concetto che illustrava la programmazione triennale come un punto qualificante delle prerogative della PA, e cioè il comma 2 dell’Art. del vecchio Dlgs 163/2006: “Il programma triennale costituisce momento attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e quantificazione dei propri bisogni che le amministrazioni aggiudicatrici predispongono nell’esercizio delle loro autonome competenze e, quando esplicitamente previsto, di concerto con altri soggetti, in conformità agli obiettivi assunti come prioritari. Gli studi individuano i lavori strumentali al soddisfacimento dei predetti bisogni, indicano le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali ed economico-finanziarie degli stessi e contengono l’analisi dello stato di fatto di ogni intervento nelle sue eventuali componenti storico-artistiche, architettoniche, paesaggistiche, e nelle sue componenti di sostenibilità ambientale, socio-economiche, amministrative e tecniche. In particolare le amministrazioni aggiudicatrici individuano con priorità i bisogni che possono essere soddisfatti tramite la realizzazione di lavori finanziabili con capitali privati, in quanto suscettibili di gestione economica. Lo schema di programma triennale e i suoi aggiornamenti annuali sono resi pubblici, prima della loro approvazione, mediante affissione nella sede delle amministrazioni aggiudicatrici per almeno sessanta giorni consecutivi ed eventualmente mediante pubblicazione sul profilo di committente della stazione appaltante”.
Cosa è stata, una dimenticanza? Un darlo per scontato? O la consapevolezza che forse non era opportuno ricordare troppo alla PA che razza di impegno intellettuale ed economico si doveva sobbarcare ogni qualvolta doveva mettersi a tavolino per individuare i fabbisogni della collettività che rappresentava?
Qui si potrebbe aprire un interessante dibattito che riguarda non solo il tema della programmazione, ma anche quello dell’aggregazione delle stazioni appaltanti. Il Correttivo di cui al Dlgs 56/2017, all’art. 11 parla delle modifiche all’art. 21 del Dlgs 50/2016, quello, appunto, in cui si tratta della programmazione pluriennale per acquisizioni, servizi e lavori.
Le lettere dalla a) alla d) del comma 1 del detto articolo, a mio parere non ci dicono nulla di particolarmente interessante. Quello che mi turba un po’ è invece la lettera e) che sostanzialmente affranca dall’obbligo di programmare (con tutto il carico delle attività accessorie non più ricordate dall’art. 21 del Dlgs 50/2017, ma ben sottolineate al comma 2 del Dlgs 163/2006 che, hai voglia a non richiamarle, ma sono comunque essenziali per evitare di prendere dei granchi clamorosi) i soggetti aggregatori e le centrali di committenza.
Ora, io capisco la lettera, che sostanzialmente precisa che solo i Comuni sono sovrani nel bene e nel male delle scelte che riguardano il territorio di competenza, ma non si poteva trovare, diciamo, una via di mezzo? Detto in altre parole, che senso ha voler (utopicamente) ridurre le stazioni appaltanti dalle famose 35.000 alle altrettanto famose e fantomatiche 35 se poi si lascia a 35.000 enti la facoltà programmatoria senza che il 90% di questi abbiano i mezzi, il know how e il tempo di farlo adeguatamente?
Non poteva essere l’occasione, non tanto nel Correttivo, quanto già nel Dlgs 50/2016 di cercare di fare scopa tra l’articolo 21 e gli articoli 37 e 38?
In particolare, non poteva essere l’occasione di arricchire il comma 7 dell’articolo 37, inserendo tra le prerogative delle centrali di committenza un punto in cui queste stesse, avendo le qualifiche definite alla lettera a) del comma 3 dell’articolo 38: “capacità di programmazione e progettazione”, potessero affiancare (non surrogare!) nella fase di indagine dei fabbisogni e fattibilità economica, tecnica e ambientale le restanti migliaia di amministrazioni che non sono assolutamente nelle condizioni di poterlo fare?
Il Correttivo non si è accorto di questo “dettaglio” nella debolezza del sistema di governo e di modificazione, per non dire della difesa, del nostro territorio? Non basta a farlo comprendere, oltre al gap infrastrutturale che ci divide dai nostri competitors, il pendolo del dissesto idrogeologico (con colpe macroscopiche della PA che datano decenni) e degli eventi sismici (su cui a mio parere la PA ha meno colpe ex ante, al contrario di quanto molti si affannano ad urlare, ma enormi ex post) che regolarmente e in modo devastante batte il nostro territorio e la nostra popolazione?
Non ci vuole poi molto a capire che l’estensione delle prerogative di stazione appaltante o di programmazione ad enti sovracomunali porta inevitabilmente al risentimento delle amministrazioni comunali, grandi o piccole che siano, tanto più che esse restano e resteranno le uniche responsabili dell’assetto urbanistico del proprio territorio.
E ci vuole lo stesso molto a capire che viceversa i Comuni e le altre piccole amministrazioni sarebbero ben contenti di potersi appoggiare ad una PA sovraordinata che abbia mezzi e competenze, oltre ad una visione territoriale e del sistema infrastrutturale di aerea vasta “elicotteristica” e non ad altezza uomo,   per aiutarli a sviluppare tutti gli studi, fattibilità, indagini e progetti necessari non solo ad impostare una programmazione corretta ed esaustiva, ma anche per avviare le attività di pubblicizzazione e aggiudicazione “dribblando” le insidie di contestazioni a monte di sedicenti stakeholders, di ricorsi in medias res e di vertenze a valle con gli aggiudicatari, che sono all’ordine del giorno e che sommati gli uni agli altri hanno riempito di sabbia gli ingranaggi della macchina amministrativa ben oltre quello che ci si potrebbe aspettare dalla “mera” mancanza di risorse finanziarie?

Se poi in questo panorama ci si cala in quella parte della programmazione in cui la casella “coperture finanziarie” è occupata dalla voce finanza privata, allora veramente si rasenta il grottesco, come già accennato in precedenza.
Appaiono opere per le quali, se va bene, si potrebbe anche legittimare il ricorso al privato, ma sono totalmente sballate dal punto di vista della calibrazione costi-redditività, ergo, se non raddrizzate nella loro concezione, destinate a zero proposte.
È invece in questo particolare comparto che ancora di più è necessario un supporto professionale e completo sotto i punti di vista ambientale, economico e tecnico in grado innanzitutto di valutare e calibrare al meglio la necessità di un’opera sul territorio e poi di analizzare con una più che buona dose di approssimazione la possibilità che un privato, contando solo sulla capacità dell’opera di generare redditi in grado “in un ragionevole lasso di tempo che non può superare i 7, 8 anni dall’avvio della gestione” di consentirgli di raggiungere il break even point.
L’unico elemento “innovativo”, si fa per dire, che migliora il tema del patrimonio pubblico disponibile quale voce dell’eventuale “conto prezzo” da corrispondere per la realizzazione di un’opera o per integrare i proventi di una concessione è Il comma 5 dell’articolo 21 del Dlgs 50, rafforzato dal comma 1 dell’art. 182 e dall’art. 191, che accorpa e rende più immediatamente leggibile come fonte di finanziamento “gli immobili pubblici disponibili di cessione”, mentre il comma 4 dell’art. 128 del Dlgs 163/2006 rimandava al comma 6 dell’art. 53 la definizione del rango di “fonte di copertura finanziaria totale o parziale” delle opere pubbliche.
Peccato che né il vecchio né il nuovo Codice si siano mai dati la pena di approfondire in nessuna loro parte (la collocazione giusta, a rigor di logica, dovrebbe essere proprio quella dedicata alla programmazione) l’attività senza la quale l’avere inserito il tema del patrimonio immobiliare disponibile come possibile copertura finanziaria resta un gioco teorico: il censimento del patrimonio disponibile e la sua corretta valutazione ai fini del mercato.
Sembra lapalissiano, ma è un altro di quegli elementi che contribuiscono con una bella palata di sabbia buttata negli ingranaggi al grippaggio del motore pubblico. Vediamo perché:
– primo, il censimento e l’anagrafe del patrimonio esistente e la sua classificazione. È un tema che si propone da lungo tempo a tutti i livelli dell’amministrazione pubblica, non solo per quello che riguarda i Comuni.
Da anni ci si gira attorno come ad una mina da disinnescare che fa paura a tutti.
Ci provò nei primi anni del 2000, malamente e incompiutamente, una Società addirittura creata appositamente per questo scopo, perlomeno per gli immobili di proprietà statale, la Patrimonio SpA. L’idea era meritevole, senonché ad essa sottostava la fretta e la necessità di fare cassa, per cui i risultati furono miserrimi, sia in termini di conoscenza e consistenza del patrimonio sia del risultato economico che se ne ebbe.
Vari tentativi sono stati fatti e sono tutt’ora in corso dalla Cassa Depositi e Prestiti, anch’essi con scarsi risultati, soprattutto sulle operazioni derivanti dalla incorporazione della vecchia Fintecna (l’emblema del fallimento sono a Roma le vecchie torri del Ministero delle Finanze e l’edificio del Poligrafico a piazza Verdi).
Altri tentativi sono stati esperiti dall’Agenzia del Demanio (basterebbe il fatto che due tra i più importanti organismi pubblici si occupino dello stesso problema indipendentemente l’uno dall’altro per capire lo stato di schizofrenia in cui versa questo Paese), direttamente o con ulteriori altre Società ad hoc che, di fatto, non hanno realizzato nulla dalla loro costituzione.
Fa quasi tenerezza a questo proposito “l’operazione fari”: pochi e miseri edifici, ancorché in posizioni suggestive, offerti in concessione a scopi quasi umanitari senza la benché minima possibilità di creare una economia di scala, sia a beneficio dello Stato sia di quegli avventurosi che vogliano accollarseli.
E tutto ciò a paragone dell’immenso e ultrasottoutilizzato patrimonio statale, a cominciare da quello del Demanio Militare del quale già si parlava quando sono entrato all’università, ovvero nel giurassico 1970 (c’era addirittura un esame di composizione architettonica che aveva come oggetto la valorizzazione e il riuso a scopo di riqualificazione urbana delle caserme di viale delle Milizie: stanno ancora lì, intatte) per passare allo spreco totale di superfici e cubature pro addetto delle sedi ministeriali fino ad arrivare alle carceri dismesse (circa 250 in tutta Italia).
Con la situazione dello Stato in questi termini, figuriamoci cosa può riservarci quella di migliaia di altri enti che hanno molte ma molte risorse economiche, organizzative e professionali in meno dello Stato.
Chissà perché mi viene in mente un articolo uscito non molti giorni fa sul Corriere della Sera che metteva in evidenza come una buona parte del patrimonio immobiliare residenziale privato italiano sia detenuto ed abitato da persone anziane senza più reddito per le quali il loro appartamento è abbondantemente sovradimensionato rispetto alle loro esigenze e costituisce una fonte di costi ormai divenuta quasi insostenibile per la maggior parte di loro. Eredità, tale situazione, dei tempi felici in cui un appartamento poteva essere acquistato a un costo pari a quello che serve oggi per acquistare una macchina media e gli spazi abitativi erano utilizzati in modo molto meno razionale di oggi. Il paragone si adatta perfettamente se ribaltato alla PA.
– Secondo, la questione della valutazione, e qui si entra in un vero e proprio labirinto kafkiano dal quale è difficilissimo uscire.
La questione è tutta nel metodo di valutazione degli immobili (vedi a tale proposito il modo superficiale con cui il primo comma dell’art. 191 del DLgs 50/2016 liquida l’argomento).
Innanzitutto, gli immobili pubblici, come per qualsiasi società anche privata, sono iscritti in bilancio nello stato patrimoniale al cosiddetto “valore di libro”. E con che criterio è stato dimensionato tale valore e, soprattutto, quando?
È del tutto sterile tentare di dare una risposta a questa domanda, l’importante è un’altra domanda: corrisponde al valore effettivo di mercato? Qui la risposta è semplice: mai.
La questione si complica a questo punto. Come si fa infatti a inserire un cespite in un capitolo della programmazione, col preciso scopo di farne possibile merce di scambio, se il valore a cui viene iscritto non corrisponde minimamente a quello che sarebbe logico aspettarsi nell’ambito di una civile trattativa con un possibile appaltatore o un concessionario, entrambi seriamente disponibili a valutare la possibilità offerta dalla PA, se il valore è o troppo alto o, come spesso accade, troppo basso per un serio confronto commerciale “alla pari” tra le parti?
Ecco il busillis di base dell’inerzia della gran massa patrimoniale pubblica la cui movimentazione potrebbe innescare un formidabile kick off nella infrastrutturazione del territorio e nell’intervento del capitale pubblico nelle opere pubbliche, soprattutto in quella “semifredde”.

Ad aggravare la situazione mettiamoci anche che in quei rarissimi casi dove si è potuto applicare il metodo della valutazione di mercato, il criterio usato è stato completamente inadeguato: in un mondo immobiliare all’interno del quale la parola d’ordine è ormai “redditività” e che ha contribuito a separare i ruoli degli investitori dai gestori, il criterio di valutazione di un immobile è fondamentalmente quello dell’attualizzazione dei flussi di cassa che possono essere generati dalla gestione, sulla base presunta di un tasso di interesse atteso dall’investitore.
Nella stragrande maggioranza delle perizie valutative che ancora si vedono girare, anche su immobili pubblici, questo criterio non è applicato, perché non è ancora capito! Perché per poterlo sviluppare è necessario elaborare un business plan! È molto più comodo sia da parte di chi valuta sia da parte che incarica la valutazione utilizzare i vecchi metodi del confronto, della posizione, del costo di ricostruzione…ecc. Insomma, del vetero concetto del valore a mq dell’immobile, tanto caro alle tradizionali agenzie di intermediazione che, se va bene, può ormai essere applicato solo al comparto residenziale.
Uno potrebbe dire a questo punto, ma come siamo finiti a parlare di valori immobiliari in un contesto incentrato sui lavori pubblici?
Esatto! Ecco uno dei nodi cruciali da sciogliere per liberare dalle pastoie il sistema della infrastrutturazione del Paese. L’ho scritto e sottoscritto in altri contesti: è fondamentale superare la barriera che storicamente separa il mondo del diritto amministrativo da quello che regola l’urbanistica e l’edilizia, sia dal punto di vista delle norme sia dal punto di vista della preparazione cui vengono sottoposti i responsabili della PA, il mondo imprenditoriale e quello professionale, insomma, creare una più nuova giurisprudenza che superi i codici e si avvicini al common law.
Nel momento in cui, in un Codice che si occupa di appalti, di lavori pubblici e di concessioni, viene introdotto il concetto di valore immobiliare, sia pure relativo ad immobili di proprietà pubblica, non è possibile eludere o glissare sulle regole che il comparto del Real Estate comporta.

E in tutto ciò, che ci dice di nuovo il Correttivo in proposito? A Roma c’è un simpatico modo di dire che risale ai tempi in cui il combustibile per riscaldare le case era solo uno: “zero carbonella”.
All’art. 11 del Dlgs 56/2017 solo un cerotto di qua, una spolverata di penicillina là, un impacco caldo su, un gargarismo sotto. E per gli articoli 37 e 38 del Codice? Quelli delle centrali di committenza e della qualificazione delle stazioni appaltanti? Stessa storia: gli articoli 26 e 27 del Correttivo non ci stupiscono, solo nell’art. 27, comma 1, lettera a), dove si introduce il comma 5-ter all’art. 38 del Dlgs 50/2016, si intuisce che c’è stato un conato, un tentativo di portare alla ribalta la necessità di occuparsi dello stato della programmazione, ma ex post, come a rincorrere le galline nel pollaio! Non ex ante, come sarebbe necessario.
b. La bancabilità
E qui non si può non aprire il capitolo, tanto fondamentale quanto sciattamente e superficialmente affrontato nei vari anni da tutte le varie versioni del Codice, della “bancabilità”.
Sì, perché “bancabilità” non coincide con “finanziamento” né tantomeno con “garanzie fideiussorie”, in qualsiasi punto del procedimento esse siano collocate.
Bancabilità significa innanzitutto che la PA ha verificato a monte (e oggi gli strumenti ci sono) che il soggetto a cui sta per affidare l’appalto o la concessione di un’opera sia nelle effettive condizioni, anche economico-finanziarie e non solo tecniche, di avviarla e di portarla avanti sino al collaudo, nel caso di un appalto, o per tutta la durata della gestione, nel caso di una concessione.
La produzione di una fideiussione cui va aggiunta, nel caso di un Project, la asseverazione del Piano Economico e Finanziario, non è una garanzia sufficienti per valutare la solidità nel tempo di una impresa.
È necessario effettuare indagini approfondite sullo stato complessivo di una azienda o, nel caso di una società di scopo, dei soci, sia dal punto di vista patrimoniale che da quello debitorio.
In un Paese in cui la sottocapitalizzazione delle aziende è cosa nota e storica, sono moltissimi i casi in cui il lavoro è stato affidato a soggetti apparentemente affidabili che poco dopo l’apertura dei cantieri, o anche prima, hanno palesato l’incapacità di affrontare l’iniziativa, di onorare gli impegni con i fornitori, di approvvigionarsi di materiali di alta qualità e in definitiva di fare fronte a situazioni di emergenza di qualsiasi natura, che spessissimo si pongono in un contesto come quello delle costruzioni.
Invece il Codice, negli anni a partire dal ’94, si è limitato ad indicare, dopo essersi assicurato che l’aggiudicatario abbia prodotto le garanzie di legge, le contromisure da prendere nel caso di default da parte del soggetto: penali, rescissioni, richieste danni, subentri, con il contorno di ricorsi, avvocati, arbitrati costosissimi, tribunali…tutte cose che richiedono una marea di tempo per essere composte, e nel frattempo l’opera langue, incompleta o non iniziata neanche, producendo cicatrici sul territorio e il mancato soddisfacimento dei bisogni che ne avevano indotto la genesi.
Nel caso del comparto delle concessioni, la complessità della bancabilità si eleva al cubo, per motivi che dovrebbero essere palesi per chiunque, ed invece per il Codice non è così.
Vediamo di andare per ordine, mettendo a fuoco le varie componenti della copertura finanziaria di un’opera in concessione:
il rapporto debito/equity
Innanzitutto, chi abbia un minimo di dimestichezza con le operazioni di finanziamento di un qualsiasi investimento, senza doversi addentrare nei meandri più complessi del mondo della finanza, sa benissimo che la copertura, nel 95% dei casi, si attua in parte immettendo capitale direttamente da parte dell’investitore ed in parte ricorrendo al debito, in particolare a quello a medio-lungo termine. Generalmente il rapporto equity/debito oscilla in un range compreso tra 40/60 e 20/80, nei casi più favorevoli.
Il fatto che un investitore ricorra al debito può essere determinato da due fattori: il primo è che non dispone di sufficiente liquidità (e questo è tipico della sottocapitalizzazione delle aziende italiane), il secondo è che pur disponendo magari di tutta la liquidità necessaria, preferisce non immobilizzarla in una operazione che può comportare anni per recuperare il denaro, come nel caso di una concessione, e ritiene più utile destinare le sue disponibilità nell’attività propria del suo core business (altri investimenti, altri appalti, ecc.). Mentre la prima ipotesi contiene in sé i germi di una possibile patologia, la seconda evenienza è fisiologica e, da un certo punto di vista, costituisce una impostazione ed un approccio “sani” all’operazione di investimento.

il piano economico e finanziario
È chiaro però che sia l’investitore che la banca hanno a questo punto degli obiettivi in comune: il raggiungimento dell’equilibrio economico in breve tempo, attraverso le attività commerciali e la gestione, e la “remunerazione” del capitale impegnato. Per valutare ex ante la perseguibilità di tali obiettivi è necessario sviluppare un vero e proprio progetto, che ha perlomeno la stessa importanza di quello tecnico-architettonico, anzi, è essenziale che vi vada a braccetto: il Piano Economico e Finanziario.
– – le sue componenti
Il PEF si compone fondamentalmente di due componenti “economiche”: i costi e i ricavi. L’intervento della variabile “tempo” nello sviluppo del PEF, fa sì che al fattore economico si aggiunga il fattore finanziario: ovvero quel complesso di elementi che sono alla base del costo del denaro e della remunerazione del suo impiego: i tassi di interesse.
– – le assumption
per non complicarci la vita, limitiamoci ad osservare un attimo le componenti economiche. Il complesso delle voci economiche alla base della costruzione di un PEF costituisce le cosiddette assumption, ed è qui che il binomio progetto tecnico-PEF comincia a diventare, o dovrebbe diventare, una integrazione fondamentale per il successo dell’operazione e nel quale si delinea il soddisfacimento, nel caso di realizzazione di un’opera pubblica, soprattutto in una concessione, degli interessi pubblici insieme a quelli privati.
Non è possibile configurare correttamente un’operazione di Partnership Pubblico Privata (che sia una concessione, un Project o un leasing) se non si parte dal principio win-win, in parole povere se una delle due parti non tenti sin dall’inizio di fregare l’altra.
– – – i costi
I costi di investimento, è elementare, costituiscono il vero anello di collegamento tra un buon progetto e un buon PEF, e sono la prima e più importante voce delle assumption, nel senso che se si sbaglia il progetto, e di conseguenza il Quadro Economico, poi non lo si riacchiappa più e l’operazione è destinata al fallimento.
I costi di esercizio sono anch’essi fondamentali, e spessissimo li si tratta in modo superficiale. I costi di esercizio non riguardano solo i costi di gestione della struttura deputata ad assicurare i ricavi di una concessione, ma anche i costi di manutenzione, adeguamento ed eventualmente rinnovo delle componenti dell’opera, che le consentano: a) di restare competitiva per tutta la durata della concessione, b) di restituirla alla PA in perfette condizioni alla fine del periodo di concessione.
– – – i ricavi
La voce ricavi, ovviamente, è altrettanto importante dei costi, in qualche modo ne costituisce una immagine speculare. Volendo, la determinazione dei ricavi è ancora più complessa di quella dei costi.
Mentre i costi infatti, soprattutto quelli di investimento, possono essere predisposti in base alla redazione di un buon progetto, la determinazione dei ricavi, in particolare quando si parla di una operazione, come una concessione, che si sviluppa nell’arco di 20, 30…50 anni, richiede una grande visione del mercato presente e degli scenari futuri dei fabbisogni della collettività. Qual è quindi la componente fondamentale in grado di inquadrare, progettare, stimare “il più correttamente possibile” il raggiungimento dei ricavi attesi (e quindi, in definitiva, il successo o il fallimento di una operazione di concessione)? Ovviamente il Piano di Gestione. E qui, tanto per fare un inciso, si torna alla debolezza atavica del Codice nel settore delle PPP, che trascura quasi completamente l’importanza della figura del Gestore, concentrandosi in modo miope sulla figura del Costruttore.
– – i tempi
Si è detto che una operazione di concessione può coprire un arco di tempo che va da 20 fino anche a 90 anni (cosa ormai rara). in questo arco di tempo il PEF deve, letteralmente, mettere in conto: il perfezionamento degli adempimenti amministrativi (variabile rischiosissima in Italia, che tiene bene alla larga gli investitori, soprattutto stranieri), lo sviluppo del progetto, la realizzazione dell’opera, l’avvio della gestione, l’entrata a regime, il raggiungimento del punto di pareggio e la gestione ordinaria.
– – i risultati attesi
La risultante finale del complesso di attività costituenti una iniziativa in concessione, così come “progettata” nelle sue componenti tecnico-economiche-contrattuali, dovrebbe, anche qui il condizionale è d’obbligo, fornire i risultati attesi secondo una logica win-win:
– – – Per la PA
l’arricchimento della propria dotazione di attrezzature ed infrastrutture con un’opera in grado di coprire le esigenze della collettività, in tempi ragionevoli e senza generare impegni finanziari nel bilancio che non siano compatibili con le previsioni di base;
– – – per il privato
il rientro dell’equity impegnato, la possibilità di onorare gli impegni assunti con la banca, con tutti i fornitori e con la PA e un adeguato guadagno in fase di gestione, dopo avere scavallato il punto di pareggio
– – – per la banca
vedere remunerato il capitale messo a disposizione nelle modalità temporali e di interesse previste nel contratto stipulato col privato e nel PEF allegato
l’inconsistenza dell’asseverazione
Ora, considerata la delicatezza e la complessità di queste attività e la loro importanza, sin dalle prime battute del procedimento, ai fini del risultato finale, qualcuno tra gli estensori dell’ennesima versione del Codice e derivati è in grado di spiegare perché nelle procedure previste per la finanza di progetto si insiste nel liquidare tutta la prima parte con l’obbligo di un documentino privo di qualsiasi impegno futuro chiamato asseverazione? E perché la capacità di emetterlo è stata estesa a soggetti che a malapena sanno leggere ed elaborare un business plan e comunque di certo non avranno nessun ruolo nel finanziamento “vero” dell’opera?
la banca, partner primario della SPV
La realtà è che, per chi ci si è misurato realmente, ben presto appare chiaro come, nell’ambito di una operazione i PPP o di PF, il vero azionista di maggioranza di una SPV sia proprio la banca. È la banca, che dovrà mettere la maggior parte dei soldi in un investimento, garantendosi non solo il rientro, ma anche la redditività, a sindacare sulle scelte contenute nelle assumption e nel piano di commercializzazione e gestione. Ed è la banca, infine che vuole mettere il naso anche nell’impianto legale dell’operazione, andando a fare le pulci al contratto tra il concedente ed il concessionario, magari ponendo delle pregiudiziali ai suoi contenuti che comprometto la finanziabilità dell’opera….e…quindi…non la rendono “bancabile”.

Se diamo per scontato, e purtroppo non lo è, che le banche italiane siano ancora in grado di “entrare nel merito del credito”, quanto sopra è il minimo per capire l’importanza di coinvolgere il più presto possibile una banca nel complesso di una operazione di concessione.
la tempistica di attivazione dei contatti
Uno degli errori infatti più comuni che si verificano nell’ambito di una operazione di PPP è di interpellare tardivamente la banca, di non affiancarsela subito, sin dalla fase di proposta, e ben prima della stipula del contratto con la PA.
La PA, dal canto suo dovrebbe porre l’obbligo al candidato concessionario di mettersi a fianco subito una istituzione finanziaria in grado di affrontare l’impegno che l’operazione richiede, e non accontentarsi dell’asseverazione e delle garanzie di legge previste dagli appalti.
Chi si è impegnato direttamente in queste operazioni sa benissimo che la banca, una volta inserita nel meccanismo, ricomincia daccapo tutta la sua analisi del processo in corso come se il lavoro svolto fino ad allora tra amministrazione e privato non fosse mai avvenuto e con esso tutti i documenti prodotti.
Dopo la definizione di un termsheet, cioè di un documento programmatico e di intenti tra la banca e l’imprenditore, ma non vincolante, si passa alla fase delle due diligence che, affidate a professionisti indipendenti scelti dalla banca con il gradimento dell’imprenditore, sviscerano il procedimento ed il progetto sottostante sotto ogni punto di vista possibile.
Questo processo può durare mesi e porta al kick-off, ovvero all’avvio vero e proprio, da parte delle strutture della banca, della fase istruttoria che porterà alla delibera del finanziamento, che non è scontato sia positiva o, bene che vada, non ponga condizioni di revisione a tanti elementi dell’operazione, ivi compreso, se già stipulato, il contratto tra la PA e l’aggiudicatario.
Non bisogna quindi stupirsi se sulla maggioranza delle operazioni in PPP, a parte i tempi lunghissimi, pende la spada di Damocle della “bancabilità”, che, ovviamente, condiziona la “cantierabilità”.
Anche in tal caso, in questa circostanza da cui può dipendere la serietà o meno di una operazione, la garanzia per il pubblico di vedere soddisfatte le proprie esigenze a trecentosessanta gradi (fattibilità dell’opera, bancabilità, solidità dell’interlocutore privato, garanzie di corretta gestione, remunerazione e manutenzione dell’opera), come si esprimono il Codice ed il suo Correttivo?
Ed ecco la sorpresa che non t’aspetti.
Qualcuno nel variegato gruppo di lavoro chiamato in troppa fretta e troppa furia a inventarsi ex novo il Codice è stato benedetto da una ispirazione ed è apparso il comma 3 dell’art. 165 e anche il Correttivo, finalmente, ha contribuito validamente a migliorare i puntini sulle i del nuovo Codice, per cui oggi vige il seguente testo:
“La sottoscrizione del contratto di concessione può avvenire solamente a seguito della approvazione del progetto definitivo e della presentazione di idonea documentazione inerente il finanziamento dell’opera. Al fine di agevolare l’ottenimento del finanziamento dell’opera, i bandi e i relativi allegati, ivi compresi, a seconda dei casi, lo schema di contratto e il piano economico finanziario sono definiti in modo da assicurare adeguati livelli di bancabilità, intendendosi per tali la reperibilità sul mercato finanziario di risorse proporzionate ai fabbisogni, la sostenibilità di tali fonti e la congrua redditività del capitale investito. Per le concessioni da affidarsi con la procedura ristretta, nel bando può essere previsto che l’amministrazione aggiudicatrice possa indire, prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte, una consultazione preliminare con gli operatori economici invitati a presentare le offerte, al fine di verificare l’insussistenza di criticità del progetto posto a base di gara sotto il profilo della finanziabilità, e possa provvedere, a seguito della consultazione, ad adeguare gli atti di gara aggiornando il termine di presentazione delle offerte, che non può essere inferiore a trenta giorni decorrenti dalla relativa comunicazione agli interessati. Non può essere oggetto di consultazione l’importo delle misure di defiscalizzazione di cui all’articolo 18 della legge 12 novembre 2011, n. 183, e all’articolo 33 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, nonché l’importo dei contributi pubblici, ove previsti”.
È sintomo di un cambio di passo nella consapevolezza del gioco delle parti.
In altre parole, il comma 3, rinforzato dai commi successivi 4 e 5, prende finalmente atto di 2 cose: il ruolo fondamentale che in una concessione svolge il sistema bancario (quando prenderà atto dell’altrettanto importante ruolo del gestore e non del costruttore cominceremo a vedere la fine del tunnel) e l’importanza del fattore tempo nel buon esito di una operazione di PPP (mai come in questo caso è valida la massima “ la risorsa più scarsa non è il denaro, ma il tempo”) e quindi nello sviluppo “in parallelo” degli adempimenti amministrativi, tecnici e finanziari.
Si potrà discutere sull’opportunità di dover approvare il progetto definitivo prima della stipula del contratto di concessione, si potrà discutere su che cosa significhi “idonea documentazione del finanziamento dell’opera”, ma è indubbio che, perlomeno dal mio punto di osservazione, questa introduzione rappresenta un valore aggiunto non indifferente nel perseguimento dell’obiettivo di “portare” il capitale privato nel mondo delle opere pubbliche, non l’unico, certo, ma molto importante nell’aiuto che può dare allo stesso privato a non presentare proposte improvvisate che poi si arenano sulla battigia del finanziamento.
Mi sembra addirittura più congruo il termine di 18 mesi per la definizione del contratto di finanziamento dopo la sottoscrizione della concessione inserito dal Correttivo (io l’avrei tenuto agli originali 12 mesi previsti dal Dlgs 50/2016, per essere di maggior pungolo al privato ed alla banca in fase di delibera, ma va bene così).
Mi è un po’ meno chiara l’estensione alla Finanza di Progetto del concetto di cui sopra.
Il comma 18 dell’art. 183 del Dlgs 50/2016 recita: “al fine di assicurare adeguati livelli di bancabilità e il coinvolgimento del sistema bancario nell’operazione, si applicano in quanto compatibili le disposizioni contenute all’art. 185”, testo peraltro lasciato intatto dal Correttivo.
Ora, l’art. 185 parla unicamente della facoltà di emettere obbligazioni da parte delle SPV, il che va benissimo, ma è solo una componente delle possibili coperture finanziarie di una operazione.
Resta intatta, visto che nel caso del PF sempre di concessioni si tratta, l’importanza del parallelismo tra sviluppo amministrativo, tecnico e finanziario, anzi, lo è ancora di più perché nel caso del PF la pappa se la deve preparare tutta il privato, senza che la PA gli organizzi il precotto prima della consumazione.
Una svista? Una dimenticanza? Il legislatore, ancora inebriato, o impaurito, dalla novità introdotta dal comma 3 dell’art. 165, ha glissato il tema nell’art. 183? Oppure, visto che il primo periodo del comma 3 del 165 parla comunque di “sottoscrizione del contratto di concessione” lo si ritiene implicitamente applicato anche alla modalità PF? Forse mi sono fatto un falso problema.

b. CONCLUSIONE
Direi che per non annoiare troppo chi legge, la disamina del Correttivo come scusa per rileggere il Codice 2016, soprattutto per quelle componenti che riguardano l’intervento del capitale privato nella realizzazione delle opere pubbliche possa terminare qui, aspettando Godot, ovvero il prossimo Correttivo.
Per voler trovare una chiosa alla prima ed alla seconda parte dell’intervento sul Codice dei Contratti e sul suo, per ora, Correttivo, e nonostante l’innovazione portata sul tema delle coperture finanziarie nell’art. 165 del DLgs 50/2016, non posso che esprimere una sensazione: il Codice è ancora “antico”, più antico di quanto non fosse la Legge fondamentale sui lavori pubblici del 1865 che, se non altro, parlava solo, ed in modo puntuale, di lavori, della loro esecuzione e del loro controllo e della filiera delle responsabilità e delle gerarchie. Questo Codice è antico e inadeguato, nonostante in ogni sua parte sia pieno di riferimenti e ricorsi a procedure telematiche (non basta signori!), perché nelle sue ultime tre stesure non ha tenuto conto di quanto si sia modificato il mondo, e non solo quello degli interventi sul territorio. È antico perché non tiene conto dello stato in cui si trova la Pubblica Amministrazione, sia a livello centrale che periferico, nell’esercizio delle proprie potestà e funzioni. È antico perché tratta la materia dei lavori pubblici come se fossimo ancora nei tempi delle finanziarie ricche di disponibilità in conto capitale. È antico, anzi, reazionario e autoritario nel momento in cui delega la spiegazione dettagliata ed attuativa delle norme ad un organismo autocratico costretto, suo malgrado, ad andare su tutte le palle in modo generico, palesemente inadeguato e spesso demagogico e che si esprime goccia a goccia, perché (il legislatore) ha voluto amputare come una gamba in cancrena l’unico punto di riferimento concreto che gli operatori avevano per districarsi nell’ambiguità delle leggi: il Regolamento.
È antico, infine, perché non è in grado di aiutare sia la PA che il privato a delineare uno scenario futuro, un binario da imboccare, non tanto come strategie politiche perché ovviamente non è questo il suo compito, ma per muoversi operativamente, ed in maniera flessibile, verso il raggiungimento di obiettivi concreti utilizzando strumenti adeguati alle necessità da affrontare ed al contesto in continua evoluzione dei fabbisogni collettivi e, quindi, non contribuisce alla crescita del Paese ed a fornire certezze per le generazioni future.
È antico, insomma, perché contiene tutte le premesse che porteranno, prima o poi, alla necessità di dover mettere mano alla stesura di un nuovo testo, e non basterà certamente un Correttivo.

Note

1.  Sarebbe curioso dal punto di vista psicoanalitico capire i meccanismi che portano i legislatori da una trentina d’anni a questa parte a divertirsi, nel momento in cui rimettono mano a una legge, a scompaginare l’ordine logico non solo dei singoli articoli, ma anche dei comparti per blocchi di argomenti di provvedimenti legislativi importanti come il codice dei lavori pubblici: forse una forma di sadismo nei confronti di chi poi si deve scervellare a ricostruire i percorsi razionali per capire il senso della modifica a una norma? La programmazione triennale nella Merloni era collocata nell’art. 14, nel Dlgs 163/2006 “zompò” fino al numero 128 e nel Dlgs 50/2017, quando uno appena aveva fatto l’abitudine a cercare l’argomento verso la metà del codice, ecco che l’argomento viene risbattuto all’inizio, all’art. 21