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Considerazioni e divagazioni sul Correttivo al Codice degli Appalti e il Project Financing, Parte Seconda

di - 22 Dicembre 2017
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1. Riprendo il discorso sul Correttivo al Codice degli Appalti apportato con il Dlgs 19 aprile 2017 n. 56.
La prima parte risale ormai a maggio di quest’anno ed è bene che io mi sbrighi a concludere la seconda parte, prima che spunti un nuovo Correttivo del Correttivo, cosa del tutto probabile nel nostro Paese.
Ricordo che, data la vastità dell’orizzonte coperto dal Codice, le mie considerazioni valgono in particolar modo per tutto ciò che concerne il tema che più mi sta a cuore, e cioè quelle componenti del Codice stesso che riguardano la partecipazione del capitale privato nella realizzazione delle opere pubbliche.
Ovviamente nel Codice ci sono molti comuni denominatori tra i temi PPP e quelli riguardanti il regime puro degli appalti, e non verranno trascurati.
Anzi, partirei proprio da uno di questi temi “trasversali” per avviare la nuova disamina del Correttivo, che altro non è che una scusa per fare le pulci anche al Codice in sé.
Parliamo quindi ora di quello strumento che, il condizionale è d’obbligo, dovrebbe consentire alla PA, dall’ANAS alla regione Lombardia fino al Comune di Moncenisio (30 abitanti), con poche differenze strutturali, di organizzare la realizzazione delle opere pubbliche di propria competenza e ritenute necessarie per il soddisfacimento delle esigenze della collettività cui si rivolgono e di cui sono responsabili.
a. La questione della programmazione triennale
Lo strumento della Programmazione Triennale vede la luce con la Legge Merloni, la 109/94, ma non con la prima stesura, posso sbagliarmi, ma dovrebbe esordire con la versione del 1998, la L. 514 del 18 novembre 1998, ovvero la Merloni ter (da notare che nel giro di 4 anni siamo già a tre modifiche della legge).
Ne seguiranno, nei successivi 19 anni, comprese le 2 versioni dei Regolamenti e i decreti correttivi e tralasciando la Linee Guida ANAC che dovrebbero surrogare il Regolamento vigente, ovvero il 207/2010, altre 11 versioni.
La legge Fondamentale sui lavori Pubblici, la 24 del 20 marzo 1865, compreso il Regolamento 350 del 1895, ha subito fino al 1994 una modifica sostanziale nel 1945 con il Dlgs N° 16 che istituiva i Provveditorati. Se il grado di solidità di uno stato, come disse qualcuno, è inversamente proporzionale alla variabilità del suo quadro legislativo, c’è poco da stare allegri.
In ogni caso, con il progressivo incremento dell’autonomia decisionale delle amministrazioni locali (a cui però non fece riscontro un corrispondente incremento delle disponibilità finanziarie) il legislatore giustamente introdusse “la regola”, ovvero che ogni anno, in corrispondenza dell’approvazione del bilancio, più o meno tutte le amministrazioni ricadenti sotto il dettato del Codice dei Lavori Pubblici dovessero presentare, con un meccanismo di adeguamento per scorrimento, il loro programma di realizzazione delle opere pubbliche, compreso il già citato Comune di Moncenisio di 30 anime.
Nel giro di breve tempo emersero due aspetti: il primo era che le amministrazioni presero coscienziosamente atto del fatto che l’inserimento di questa o quell’opera nel famoso programma doveva comportare come minimo una conoscenza del loro quadro esigenziale delle opere pubbliche, e che questo quadro non poteva essere lasciato alla sensibilità “nasometrica” dei singoli amministratori, ma supportato da un briciolo di indagini e di fattibilità, per eseguire seriamente le quali non c’era il becco di un quattrino. Il secondo aspetto era che, avendo la Merloni contemporaneamente introdotto il concetto di Project Financing, cioè la possibilità che le opere pubbliche potessero essere realizzate con capitali privati, si aprì il vaso di Pandora e le pubbliche amministrazioni diedero fondo al cassetto dei sogni inserendo anche le fioriere a decoro della piazza comunale come opera finanziabile da capitali privati.
Per quei pochi incauti imprenditori che si avventurarono in questo nuovo orizzonte, scattò immediatamente la tagliola delle contropartite che la PA chiedeva in cambio della “concessione” per un’opera.
Ricordo parecchi anni fa un Comune del sud della costa tirrenica che pubblicò un avviso a proporre per la realizzazione di un modesto porticciolo turistico, che già di per sé era tutto da dimostrare che capacità avrebbe avuto di ripagarsi con i soli proventi della gestione. Il Comune, ferratissimo in questioni di tipo finanziario e di gioco della domanda e dell’offerta, oltre all’ambita concessione chiedeva che il privato, per dimostrare eterna riconoscenza per il privilegio ottenuto, avrebbe dovuto realizzare a sue spese il nuovo impianto di illuminazione pubblica di tutto il Comune, la realizzazione di un imprecisato numero di alloggi popolari e, soprattutto, la bonifica e la riqualificazione di una vecchia area industriale dismessa da un importante gruppo manufatturiero nazionale che, esauriti i fondi della CASMEZ, aveva ben pensato di mollare lì baracca e burattini.
Va da sé che, a più di 12 anni di distanza, del porto non c’è ombra, mentre invece è ancora ben vistosa la presenza inquinante dell’area dismessa.
A compensazione del palese limite che poneva l’obbligo di redigere degli studi preliminari, se non proprio dei progetti preliminari, e della mancanza di risorse per predisporli, la Cassa Depositi e Prestiti ebbe più o meno in quel periodo la brillante e lodevole idea di costituire il “Fondo Rotativo per la Progettualità” di cui si è già ampiamente parlato in altre parti. Le cause del rapido fallimento di tale strumento, in sintesi, furono le pastoie burocratiche e la griglia sempre più fitta di paletti che venne posta ai poveri enti locali per tentare di accedere agli agognati finanziamenti. In altre parole, gli enti locali, già strizzati ben bene nella loro capacità di indebitamento dal Patto di Stabilità, avrebbero sì potuto accedere alle risorse del Fondo, ma le avrebbero dovute restituire (per ricostituire il Fondo, che appunto si chiamava Rotativo) nel caso che l’opera non fosse stata realizzata. Come anche un bambino sa, su 10 opere programmate, sì e no 2 vedono la luce, e questo avrebbe significato che gli enti locali avrebbero comunque pagato studi e progetti preliminari per 10 pur realizzandone due, se andava bene.
Il classico cane che si morde la coda se il tema era, ed è tuttora, la mancanza di soldi per fare “buoni progetti”.
Infatti la lodevole iniziativa di CDP fallì alla velocità del suono, pur restando, quella di una risorsa da mettere a disposizione nella cosiddetta “fase dell’incertezza” (cioè quella nella quale non è assolutamente certo che un’opera sia utile e verrà fatta, ma nella quale comunque è necessario fare indagini, fattibilità, preliminari, che costano, se fatti bene, e neanche poco), un’esigenza fondamentale per un Paese che voglia crescere ed essere competitivo.
È passato il Fondo, ma è rimasto, anzi, è diventato più stringente per la PA, l’obbligo della predisposizione della programmazione triennale delle OOPP.
Saltando di pari in frasca dai primi vagiti di tale innovazione allo stato attuale, vediamo cosa diceva in proposito il Dlgs 50 del 2016 e le novità introdotte dal Correttivo del 2017.
L’unica vera novità rispetto al Dlgs 163/2006, art. 128[1] è l’introduzione dell’obbligo della programmazione (biennale però, non triennale come per i lavori) anche per gli acquisti e forniture. In questa sede tale novità interessa relativamente, perché, come ho avuto già modo di chiarire nella prima parte, questi miei interventi vorrebbero cercare di mettere a fuoco i temi all’interno del Codice che riguardano soprattutto la possibilità che i capitali privati possano in qualche modo surrogare l’endemica carenza di finanziamenti pubblici in conto capitale per la realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche, o per assenza o per lentezza di messa a disposizione.

Note

1.  Sarebbe curioso dal punto di vista psicoanalitico capire i meccanismi che portano i legislatori da una trentina d’anni a questa parte a divertirsi, nel momento in cui rimettono mano a una legge, a scompaginare l’ordine logico non solo dei singoli articoli, ma anche dei comparti per blocchi di argomenti di provvedimenti legislativi importanti come il codice dei lavori pubblici: forse una forma di sadismo nei confronti di chi poi si deve scervellare a ricostruire i percorsi razionali per capire il senso della modifica a una norma? La programmazione triennale nella Merloni era collocata nell’art. 14, nel Dlgs 163/2006 “zompò” fino al numero 128 e nel Dlgs 50/2017, quando uno appena aveva fatto l’abitudine a cercare l’argomento verso la metà del codice, ecco che l’argomento viene risbattuto all’inizio, all’art. 21

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