Declino della ragione e diritto amministrativo delle generazioni future*

Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria – Karl Marx

Soltanto il lettore è realeEdmond Jabès

Il futuro è incerto perché – come diceva il Magnifico – del diman non v’è certezza, ma oggi la questione assume alcuni tratti specifici e nuovi che forse vale la pena di descrivere.
Iniziamo dalle banche.
Banking is necessary, banks are not; Il noto statement di Bill Gates sul futuro delle banche nell’epoca della crisi finanziaria contiene elementi che devono far riflettere.
Le banche – come le abbiamo conosciute fino ad oggi – sono strutture grandi e costose. L’impatto della rivoluzione tecnologica informatica è destinato a mutarle profondamente nelle loro prassi operative interne, ma anche a fare emergere nuovi soggetti dell’intermediazione finanziaria (in rete ed altrove e si pensi anche alle prospettive di creazione di una moneta non statuale, ai bitcoin) capaci di svolgere la funzione delle banche odierne senza i vincoli strutturali che ne caratterizzano l’azione e che si sono dimostrati inidonei a prevenire le crisi (too big to fail si è detto, costringendo gli Stati nazionali a salvarle con il danaro dei contribuenti, così determinando una avversione del pubblico che è fondata sulla sensazione che nulla funzioni, in modo tale da impedire episodi di mala gestio, sicché tanto vale rinunciare ad ogni regola e si salvi chi può).
È possibile che tramonti il diritto bancario come diritto pubblico (quanto meno come diritto pubblico avente le caratteristiche che oggi conosciamo: modello autorizzatorio, esistenza di banche centrali vigilanti, vincoli patrimoniali) se le banche dovessero operare in un mondo economico futuro affiancate da nuovi competitors senza più essere garantite da una riserva di attività.
Naturalmente un mondo di questo genere – immaginato negli States; inimmaginabile nell’Europa della Unione bancaria delle regole ultradettagliate sulle crisi – mette a rischio il futuro, supera la tutela della sana e prudente gestione, rinuncia al “mito” della stabilità bancaria, in fondo rischia di compromettere i diritti dei risparmiatori, che sono sempre anche diritti delle future generazioni, in nome di una logica di mercato sempre più totalizzante che marcia sulle gambe della rivoluzione tecnologica.
Lo statement dovrebbe preoccuparci, in quanto ciò che accade in America (nuova deregulation bancaria, sviluppo delle tecnologie informatiche nelle prassi operative delle banche) prima o poi arriva in Europa ed è destinato a trasformare la nostra realtà (nonostante la norma costituzionale di cui all’art. 47 Cost. e la costruzione dell’assai complesso edificio burocratico dell’Unione bancaria).
In sintesi il mondo di Internet – profetizza Gates – supererà quello delle banche. Su quanto ciò sia desiderabile dovremmo interrogarci per evitare che la crisi bancaria italiana sfoci in una sostanziale deregolazione.
Ma non solo le banche sono oggetto della grande trasformazione. Internet supererà altri mondi tradizionali. E vediamo.
Forse Internet sta superando la politica del Novecento.
Karl Rove, il noto politico conservatore americano, ha ritenuto superata “the reality-based community”: egli ha detto ad un giornalista che lo intervistava: “ People believe that solutions emerge from your judicious study of discernible reality … That’s not the way the world really works anymore”.
Ma allora come funziona il mondo nella visione di questo politico spregiudicato (consigliere elettorale di George W. Bush)?
Il mondo funziona in base al principio dell’irrealtà.
Certo le ideologie novecentesche erano già improntate a truthiness (the quality of seeming or being felt to be true, even if not necessarily true) ossia a verità di comodo (si pensi alla pretesa scientificità del materialismo dialettico).
Ma il loro tramonto non ha riportato in auge un metodo razionale di argomentazione e decisione politica.
L’irrealtà è promossa potentemente dalla Rete. La democrazia ne subisce le conseguenze. Dalla ricerca della verità si passa al dominio della mera apparenza di verità.
Non è un caso che l’amore per la verità (il fulcro della filosofia greca) e per i fatti (il fulcro del metodo scientifico) sia sempre più in discussione in Occidente e con esso l’amore per i libri; quest’ultimo sempre meno in auge.
I libri appaiono superati come oggetti fisici e la lettura si fa frammentaria mentre la scrittura diviene citazionistica (sul fenomeno della morte delle biblioteche fisiche mi sono soffermato in un precedente scritto in questa Rivista dedicato a Nicola Cusano; e, sia detto incidentalmente, sono felice che recentemente sia stato pubblicato un volume che ripropone una accurata traduzione di molti suoi scritti e qui non posso che ribadire la necessità di una regolamentazione pubblicistica delle future biblioteche informatiche che rimpiazzeranno quelle reali).
Alla morte delle biblioteche fisiche si accompagnerà una profonda modificazione dei modi di pensare.
In una nuova oscura dialettica dell’illuminismo (Adorno ed Horkheimer)[1] le nuove straordinarie e benefiche possibilità conoscitive della rete si possono trasformare nel loro contrario, in odio per i libri, in esaltazione acritica del proprio pensiero – che rinuncia ad ogni confronto e metodo scientifico – come libero pensiero, diffondendo nella società veleni, paure e credenze irrazionali.
Il libero pensiero rischia di divenire solipsistico.
La radicalizzazione dei terroristi che avviene in Rete è emblematica.
L’illusione delle primavere arabe sfociata in caos politico è da studiare, deve esserne ancora scritta compiutamente la complessa storia, ma Internet – se ne ha l’impressione – giuoca un ruolo centrale nella vicenda.
Ma non è solo la apparenza di verità ad inquinare la pubblica opinione (sempre meno habermasiana[2]) ma anche un vero e proprio nuovo declino della ragione.
Un travisamento completo della nota affermazione di Nietzsche per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni (affermazione che è una lode del pluralismo a ben vedere e del metodo socratico) autorizza chiunque a sostenere in rete – nell’epoca della post-verità – le tesi più assurde, del genere per cui il libro della Genesi va preso alla lettera contenendo la vera narrazione fattuale dell’origine dell’universo o che le società sono comandate da menti remote (una sorta di Matrix) esistenti in altri mondi o che il potere si regga sempre e solo su complotti che nascondono la verità al popolo o che l’intelligenza artificiale rimpiazzerà quella umana (il credo antiumanistico dell’epoca del post-umanesimo).

* Questo breve articolo è nato da una feconda discussione con Filippo Satta sulle prospettive del futuro del diritto amministrativo. Filippo Satta ha, fra le tante qualità umane, il dono di fare le domande giuste e di stimolare uno scambio di pensieri del quale gli sono sempre grato. Le domande sul presente suscitavano sconforto, il quadro del futuro meno. Abbiamo concluso che pensare il futuro fa bene, non costa nulla, anche se occorre essere consapevoli che difficilmente le speranze hanno pratiche conseguenze. Ma non si sa mai.

La connessione fra umani, per le modalità in cui avviene sulla Rete (che propone incontri di soggetti simili fra loro in un rinvio narcisistico senza fine) rischia di rafforzare ciascuno nelle proprie convinzioni irrazionali ed è degno di nota che talvolta nemmeno l’intervento di scienziati volto a smontare pregiudizi (ad es. in tema di vaccini, pur rischiosi, ma certo indispensabili per la tutela della salute pubblica) riesca a ricondurre il dibattito pubblico su piani di razionalità e moderazione, dominati da genuino spirito scientifico (che deve sempre far inclinare al dubbio al fine di cercare le soluzioni più equilibrate).

Nello stesso spirito si può ritenere che chi non legge alcun libro se ne possa vantare e sia più libero di chi lo legge, poiché la vita di chi legge è condizionata dal pensiero di chi ha scritto in passato ed impedisce la formazione di esperienze autentiche di vita nel presente (qui il romanticismo, ossia la ricerca dell’autentico, divorzia dal culto del passato e sposa la dimensione del nudo presente).
Nella stessa ottica di esaltata trasformazione si sviluppa una sincera (ed in parte anche benefica) avversione per ogni forma di segreto, che (pure essendo eccezionale in democrazia e dovendo essere temporaneo e di non lunga durata) talvolta può essere necessario, ed una diffidenza per ogni forma di sapere e di potere (visti come strutture verticali e fonte di diseguaglianza), mentre il problema è come rendere il più possibile aperti ed inclusivi sapere e potere, non come superarli in nome dell’ignoranza.
In questo spirito di trasparenza – operante ormai quasi su un piano mitologico e prerazionale – si può decidere, con mossa ben calcolata, di de-secretare atti su vicende storiche passate nell’intento di apparire vicini al popolo e non inclini a mantenere segreti sull’esercizio del potere (magari in momenti in cui inchieste del potere giudiziario possono rivelare segreti imbarazzanti per chi decide, con abile “mossa del cavallo”, a guisa di scacchista, di de-secretare atti del passato come arma di distrazione di massa).
La ricerca del consenso non ha fine e si manifesta come un’eterna rincorsa dell’opinione dominante nel pubblico.
La trasparenza rende tutto possibile e dissolve la realtà anche la solidità del pensiero; il resto lo fa la vicinanza indotta dalla rete globale, alla quale accedono esseri umani molto differenti fra loro “What is ‘real’ to a Tibetan monk may not be ‘real’ to an American businessman”; la rete è il luogo del relativismo senza confini, aperto ad infinite manipolazioni.
In sintesi:

1. Il mondo di Internet tende a superare le biblioteche ed i musei (con ciò mette a rischio di banalizzazione il pensiero e l’arte che già Benjamin voleva infinitamente riproducibili nell’età della tecnica).
2. Tende anche a dissolvere ogni forma di segreto e riservatezza (con pretesa di messa a nudo di ogni forma di vita e potere legale e con rischio di vittoria dei poteri informali che invece si nascondono e reclamano la messa a nudo degli altri; su ciò è esemplare e vertiginoso quanto narrato da Franzen in Purity, echeggiando vicende come quella di Snowden, in una vertigine inquietante di accadimenti, ove la trasparenza appare emblematicamente fondata sul segreto più nascosto[3]).
3. Infine, al di là di ciò, tende a superare ogni sensazione di verticalità legata al possesso di sapere e potere ed ogni culto del passato e della filologia, appiattendo tutto in un eterno presente.

In conclusione Internet tende a schiacciare la conoscenza sul presente e rende il pubblico preda di emozioni e credenze irrazionali, denudando le vite di chi cede informazioni alla Rete.
In questo mondo irreale ben potrà sostenersi – come fa la Presidenza americana – che i cambiamenti climatici sono un’invenzione degli scienziati e ben sarà difficoltoso, se l’umore dell’elettorato democratico non lo volesse (non dimentichiamoci che in Italia l’elettorato spesso reclama nuovi e cospicui condoni ambientali, salvo a scoprire di aver creato poi condizioni per drammatici disastri), far valere nell’interesse delle generazioni future nuove forme di rigida regolamentazione delle attività economiche (specie ove esse possano apparire costose in termini di decrescita ed abbandono di stili di vita consolidati, e si pensi ai rischi – tutti da monitorare – insiti nella ricerca delle energie estreme, ricerca essenziale per mantenere in vita il più a lungo possibile la civiltà basata sul fossile).
In un mondo siffatto il conflitto verbale è confinato sulla rete, quello reale (costituzionalmente regolato artt. 39, 40, 49 Cost.) è demonizzato nell’interesse del dominio della tecnica: tempi duri per i pensatori del ressentiment da Marx a Nietzsche, da Dostoevskij a Baudelaire; si vive immersi nell’irrealtà, ma la dura realtà dei reali rapporti di potere sembra definitivamente scomparsa dall’orizzonte, come ogni prospettiva di umano cambiamento.
Una tirannia dell’eterno presente, dominato da una tecnica impersonale ed uniforme (senza alcun centro, beninteso).
Sloterdijk – il teorico delle Sfere – parla di gestione tecnica del parco umano[4] e descrive le tendenze della nuova oggettività tecnologica, che appiattiscono il mondo in un eterno presente, superando le ansie e le speranze di cambiamento del Novecento (esemplificate dal pensiero dei maestri del sospetto, e che pure hanno prodotto sanguinose conseguenze nelle guerre mondiali).
In una linea non dissimile appare collocarsi il pensiero di Emanuele Severino.
Le amministrazioni indipendenti degli anni novanta del secolo scorso appaiono invecchiate di fronte a questi velocissimi cambiamenti della tecnica.
Non parliamo poi della democrazia rappresentativa – sorta nel Sette-Ottocento – la cui crisi è sotto gli occhi di tutti.
Forse anche noi non ci sentiamo troppo bene (come Marx, Groucho però).
Ed il futuro?
Non è necessariamente fosco. C’è anche chi lo dipinge come gravido di opportunità (Harari)[5].
Pare affidato alla tecnica, dominata da poteri privati e regolata dal solo diritto privato. La politica deperisce e si trasforma in rincorsa del consenso delle generazioni presenti.
Ma questo il giurista sa che non può bastare.
I problemi che abbiamo di fronte richiedono ampiezza di visione e prospettiva e costruzione di nuove realtà istituzionali all’altezza dei problemi che abbiamo di fronte.
Il diritto non è solo attribuzione del bene spettante a ciascuno ma ha incorporato anche la dimensione della cura, nelle organizzazioni pubbliche, nei gruppi sociali, nelle comunità.
Gli interessi di chi verrà dopo di noi non sono rappresentati nella dinamica politica ottocentesca e novecentesca.

La Costituzione non menziona i diritti delle generazioni future che, da più parti (Zagrebelsky[6], Rodotà[7], Violante[8]), vengono indicati come la nuova frontiera del costituzionalismo (declinato anche come costituzionalismo dei doveri che supera il costituzionalismo dei diritti, ormai sposato ad un Io infinitamente desiderante, indagato da Lacan nel suo tentativo di riattualizzare Freud[9]).
In attesa dell’affermazione della nuova dimensione del costituzionalismo lo studioso del diritto amministrativo può buttare lì qualche proposta: è del tutto senza senso pensare di usare le amministrazioni indipendenti – modello organizzativo investito da una piena crisi – per riconquistare una visione all’altezza della grande trasformazione che stiamo vivendo, mettendole al servizio di una logica della vista lunga (nel presupposto che la politica difficilmente possa guarire, in tempi brevi, dalla malattia della facile ricerca del consenso immediato)? Possono essere meglio usati i poteri di nomina (o riviste le procedure per le nomine) in modo da assicurarne la maggiore separatezza possibile dalla politica (ovviamente senza autoreferenzialità della tecnica e con responsabilizzazione adeguata)? Può considerarsi l’ipotesi che, intanto, in attesa di norme costituzionali sui diritti delle generazioni future, si istituisca un Garante dei diritti delle generazioni future con competenza generale e capacità di rendere, all’occorrenza, un parere su ogni innovazione legislativa o su ogni importante decisione amministrativa, agendo all’occorrenza in coordinamento con le altre autorità e con i migliori saperi e riferendo al Parlamento (non era un’anticipazione di ciò il Garante della qualità della legislazione, come è stato nell’amministrazione Obama Cass Sunstein, persona sicuramente sensibile al tema qui discusso, richiamato spesso come parametro di controllo sulla qualità della legislazione)? Potrebbe tale Garante avere un potere di agire in giudizio e sollevare questioni di costituzionalità sul piano della ragionevolezza (come l’Anac e l’Antitrust)? Il parametro della ragionevolezza, nelle questioni ambientali e finanziarie, potrebbe/dovrebbe già essere costruito tenendo conto di tali diritti?
La “vista corta” è stata all’origine della crisi finanziaria (lo diceva Tommaso Padoa Schioppa) ed è all’origine delle tante crisi ambientali che stiamo vivendo (forse anche del complesso fenomeno migratorio che è causato anche da squilibri ambientali non governati).
Cerchiamo di costruire istituzioni dotate di vista lunga, di dotarle di poteri adeguati e di superare, per quanto possibile, le pastoie del mondo della post-verità.

 

Note

1.  L’illuminismo, secondo i due autori, difese e propugnò l’autodeterminazione razionale degli individui, ma finì con l’imporre al mondo una razionalità scientifica in grado di neutralizzare, se non di impedire, la stessa libertà che rivendicava al soggetto. Questa ragione scientifica, basata sull’oggettivazione della realtà, si proponeva di dominare tutto il mondo della natura, allo scopo di un suo sfruttamento strumentale. Con lo sviluppo della tecnologia, anche l’uomo, la vita umana stessa, sono diventati oggetto di analisi a scopo di dominio e manipolazione. Di fatto, il progetto illuminista si è risolto nel suo opposto. Tra la ragione come facoltà della scienza e la ragione come facoltà della libertà si è così sviluppato un conflitto, con la vittoria della razionalità tecnocratica.
A differenza dei marxisti tradizionali, Horkheimer e Adorno credono che non sia tanto, e non sia più, la proprietà privata dei mezzi di produzione a generare nuove forme di schiavitù e servitù, ma al contrario sia, per così dire, la volontà di potenza iscritta nel codice genetico della ragione strumentale a generare l’appropriazione del mondo da parte di piccole élite. Non solo: ormai sarebbe dimostrato che l’abolizione della proprietà privata non ha portato ad alcuna liberazione. Dalla volontà di dominio possono sorgere, come nel comunismo sovietico, forme ancora più aberranti di oppressione storicamente espresse dalle società borghesi.
Secondo Horkheimer e Adorno, quindi, c’è una perfetta identità tra logica del dominio e logica illuministica. L'”Illuminismo” diventa così sinonimo di “pensiero borghese” ed il suo significato viene esteso a tutta la tradizione soggettivistica, da Cartesio a Bacone, ai suoi foschi scrittori (Machiavelli, Hobbes e Mandeville), fino a coinvolgere Kant. Il criticismo kantiano, secondo Horkheimer e Adorno, ha ridotto l’oggetto a semplice materiale caotico. La mente del soggetto assume così il compito di piegarlo al suo modo di vedere a priori. Se Kant non è che l’estrema consapevolezza del borghese, il positivismo di Comte, Stuart Mill e Spencer è la sua definitiva consacrazione, mentre il pragmatismo americano non è altro che l’espressione di un efficientismo razionalizzante e privo di scrupoli (tema evidenziato nell’Eclisse della ragione, opera del solo Horkheimer).
L’illuminismo — che in origine si proponeva di rendere l’uomo meno timido e pauroso nei confronti della natura e dell’ignoto, del mito e delle superstizioni religiose — ha così liberato una sorta di mostruosità insita nell’uomo stesso, che si è scatenata prima nei confronti della natura, e poi nei confronti dei propri simili.
Tuttavia, proprio questa “follia” razionalistica si è risolta, in modo quasi hegeliano-marxiano, nella sua negazione: il dominatore si è fatto dominare dai suoi stessi strumenti, dai suoi servi e dalla sua praxis. Il borghese-illuminista — completamente scisso dalla natura e alienato del suo tempo, quasi dimentico del fatto che alla base del suo fare e dell’essere homo faber c’era la ricerca di maggior piacere e più grandi vantaggi — si è imposto un’etica ed una disciplina rinunciataria, una forma di continua astinenza a favore dell’impegno e del lavoro, diventando così identico al suo strumento: l’operaio contemporaneo.
Metafora, invero profetica, di questa condizione alienata sarebbe il mitico Ulisse e l’Odissea la sua storia; in questa scelta forse vi sono più echi di Joyce che di Omero. L’allegoria dell’homo faber assimilato all’Ulisse che incontra le sirene è pregnante. Facendosi legare all’albero maestro, egli può sentire l’ammaliante richiamo della felicità e del sublime piacere, ma non può approfittarne. Cfr. anche J. Eltser, Ulisse e le sirene Indagine sulla razionalità e sull’irrazionalità, Bologna, 2005.

2.  Il riferimento è ad J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, 2006. Una fondamentale interpretazione dello sviluppo dell’opinione pubblica nella società borghese, dalla funzione critica e di controllo sulle oligarchie dirigenti esercitata al sorgere degli Stati nazionali a quella attuale. L’analisi, che coinvolge anche storia e sociologia della famiglia, della stampa e delle istituzioni giuridiche nel corso degli ultimi tre secoli, rende conto dei cambiamenti dell’orizzonte d’esperienza e degli approfondimenti teorici sui concetti di società civile e sulla complessità dei nuovi fenomeni di aggregazione sociale.

3.  Purity Tyler non sa quasi nulla del suo passato: non conosce l’identità di suo padre e non sa perché sua madre sia una persona fragile e un po’ squinternata. Andreas Wolf, per dimenticare e far dimenticare il suo passato, ha messo in piedi un colosso di informazioni illegalmente divulgate, il Sunlight Project. Quando le loro strade si incrociano, i segreti minacciano di esplodere e la forza degli ideali comincia a vacillare in una vertigine veritativa che collassa nel finale.

4.  P. Sloterdijk Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. Milano 2004. Tutti i processi di acculturazione sono processi di de-animalizzazione dell’uomo (di domesticazione dell’essere) ma essi contengono anche pericoli regressivi (di gestione dell’umanità alla stregua di un giardino zoologico, in una prospettiva oggettivistica ed antiumanistica).
Cosa sta accadendo ora? Questo si chiede il filosofo. Tutto ciò che Sloterdijk descrive porta all’evento che stiamo vivendo, cioè la scomparsa della “casa dell’essere” (il termine è heideggeriano: nella Lettera sull’umanismo Heidegger, andando al di là della sua preferenza per la relazione tra l’essere e il tempo, ci dà, malgré lui, la parola-chiave del passaggio dall’ambiente al mondo: la casa dell’essere, l’esistenza come abitare).
Il mondo attuale appare sempre più inospitale.
Il progresso della tecnica non appare più addomesticabile (né semplicemente “trasponibile” in linguaggio razionale). Cresce l’estensione dell’estraneo e dell’inabitabile. È ciò che Heidegger ha chiamato l’assenza di patria, la spaesatezza, ma anche il compimento della metafisica.
“Quando Dolly bela lo spirito non è in patria, a casa, presso di sé” (p. 169). Inoltre le macchine intelligenti attestano che lo spirito è confinato all’interno delle cose. Sta venendo meno la distinzione metafisica tra natura e cultura. Per pensare quest’evento, secondo Sloterdijk, c’è bisogno di una nuova logica e di una nuova ontologia (vedi p. 172 sgg.).
La previsione a cui egli giunge, che è anche una provvisoria conclusione delle sue argomentazioni, è la seguente: fermo restando che la Lichtung (il rischiaramento heideggeriano il mondo della sfera, della cultura) non è pensabile senza la sua origine tecnogena, “la plasticità umana rimane una realtà fondamentale e un compito inevitabile” (p. 177). Allora, ciò che può “salvarci” è ancora la tecnica, quella che è già apparsa, che ha già cominciato ad operare grazie alle tecnologie intelligenti. È la tecnica che Sloterdijk chiama “omeotecnica”. Essa, in contrapposizione alla vecchia [allo]tecnica (conducente alla politica come gestione del parco umano), è descritta come una tecnica capace di utilizzare le cose senza far violenza ad esse. Tale omeotecnica, che si è annunciata, sottolinea Sloterdijk, sotto i nomi di ecologia e di teoria della complessità, non è un dover-essere, ma già una realtà.

5.  Y. N. Harari Homo deus, Milano 2016.

6.  G. Zagrebelsky, Contro la dittatura del presente, Bari, 2014.

7.  S. Rodotà, Solidarietà, Un’utopia necessaria, Bari, 2014.

8. L. Violante, Il dovere di avere doveri, Torino, 2014.

9.  M. Recalcati Desiderio, godimento, soggettivazione, Milano, 2012.