I diritti del civis europæus

Il processo di integrazione europea racconta non solo una storia di movimenti di merci, persone, capitali, ma anche una storia più alta, più nobile, la storia delle libertà e dei diritti conferiti, in maniera crescente nel tempo, ai cittadini degli Stati membri, oggi cittadini europei. Invero, un’attenta lettura del processo di integrazione induce senza dubbio a concludere che l’affermazione delle libertà economiche e la realizzazione del Mercato Interno hanno consentito di introdurre progressivamente, in una “comunità” di Stati inizialmente votata alla sola cooperazione economica, un’ampia tutela di diritti fondamentali e diritti sociali, fino a trasformare le Comunità in una vera e propria Unione dei diritti. Ed anzi è forse proprio nella sua capacità di ampliare gli spazi delle libertà individuali e collettive che si coglie una delle motivazioni di fondo del processo di integrazione.

In origine, si è trattato delle cosiddette quattro libertà fondamentali, che nel divenire giurisprudenziale sono state, e sono, il costrutto essenziale del Mercato Interno. Nel disegno iniziale si trattava essenzialmente di libertà negative, libertà da discriminazioni e restrizioni, allo scopo di assicurare un’integrazione economica fondata sull’abbattimento degli ostacoli alla circolazione di beni, servizi e fattori della produzione in generale (la c.d. integrazione negativa, applicata anche a lavoro e capitale ai sensi degli artt. 48 ss. e 67 ss. del trattato CEE).

Ma questo era soltanto il nucleo originario. Ne sono scaturite linee di sviluppo che hanno “completato” ed “approfondito” il processo. Sul fondamento di una fonte “costituzionale” di per sé duttile ed evolutiva, l’ordinamento è progredito per linee orizzontali (l’ampliamento della sua portata) e verticali (l’approfondimento dei regimi esistenti); sono le direttrici tracciate dal “trittico dell’Aia” del 1969 che, nel lanciare l’unione economica e monetaria, la coniugò significativamente allo sviluppo delle politiche sociali. I diritti di circolazione si trasformano quindi in diritti positivi, in libertà di conseguire beni, solo in parte patrimoniali. Beni che attengono alle fondamentali libertà economiche ed individuali.

Si iscrive in questa prospettiva l’agire della Corte di giustizia che, con il supporto della Commissione, (ri)legge il trattato come una “carta costituzionale” (Parere della Corte del 14 dicembre 1991, par. 21): fondamento giuridico di libertà di impresa, ma anche tutela della sfera personale, della salute e dell’ambiente, della dignità del lavoro e della promozione sociale, dello sviluppo coeso e sostenibile. Ed è sempre la Corte che, sin dagli anni ‘70, enuclea i “principi generali del diritto comunitario”: necessario completamento dell’ordinamento, che integra il controllo di legittimità degli atti, già previsto dal trattato, con un vero e proprio sindacato di “costituzionalità” sul legislatore europeo (e in certa misura sullo stesso legislatore nazionale). È su tale impianto, di conio giurisprudenziale, che verrà ad innestarsi, ma solo a distanza di decenni, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Nella stessa prospettiva evolutiva si iscrive anche l’agire del legislatore europeo. Reinterpretando le prerogative di attribuzione consegnate nei trattati, il legislatore ha messo mano alla costruzione di un edificio normativo (la c.d. integrazione positiva) che si obiettivamente persegue una visione sostanzialmente, e genuinamente, “federalista”. Ricordiamo soltanto il lancio, a poco più di dieci anni dall’entrata in vigore del trattato CEE, di alcuni assi portanti di quell’edificio:

Complessi normativi, si badi, costituiti in assenza di una “attribuzione” di competenza specifica, in assenza cioè di norme c.d. di “base giuridica”, quali quelle introdotte solo anni dopo nel diritto primario. Pezzi di ordinamento che hanno visto la luce solo grazie alla lungimiranza degli autori dei trattati – che avevano previsto clausole di competenza sussidiarie e sufficientemente elastiche (segnatamente, gli articoli 100 e 235 del trattato CEE) – ed alla “creatività” e volontà politica dei governi e delle classi dirigenti dell’epoca (non di rado di quelle italiane, e ciò proprio con riferimento agli esempi sopra ricordati).

È in questo contesto che si iscrive, infine, lo status giuridico del cittadino europeo. In senso stretto, esso implica diritti di partecipazione e protezione, garantiti dal diritto positivo primario (il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro di residenza; la protezione diplomatica o consolare, sul territorio di uno Stato terzo; il diritto di petizione al Parlamento europeo e il diritto di rivolgersi al Mediatore europeo). Ma al di là di queste prerogative e tutele, tale status consiste, in senso più ampio, nella appartenenza ad una vera e propria comunità di diritto (e di valori) che implica per ogni cittadino che si muova all’interno dell’Unione la garanzia che sarà̀ trattato in conformità̀ ad un “codice comune di valori fondamentali”; nelle parole di un noto giurista britannico – ricordiamolo in tempi di Brexit –  il cittadino dell’Unione è colui che “ha il diritto di dichiarare «civis europeus sum» e di invocare tale status per opporsi a qualunque violazione dei suoi diritti fondamentali” (Conclusioni dell’A.G. Jacobs, 9 dicembre 1992, C-168/91, Konstantinidis v Stadt Altensteig and Landratsamt Calw, EU:C:1993:115).