Un istituto da cancellare: la conferenza di servizi

Un istituto da cancellare: la conferenza di servizi [1]

1. Il tema della conferenza di servizi è oggi complicato e difficile da decifrare: per essere precisi, e per paradossale che possa sembrare, si deve anche dire che alle sue origini era invece quasi semplice e chiaro. La conferenza di servizi era oggetto di un articolo, l’art. 14 della legge sul procedimento amministrativo del 7 agosto 1990, n. 241. Esso introduceva un’idea brillantissima: per rendere più incisiva l’azione dell’amministrazione, concepita nella sua globalità, e quindi nella sua varietà di interessi pubblici e privati da coordinare, si poteva indire una riunione di tutte le amministrazioni interessate. In questo modo, l’amministrazione capofila – “procedente”, nel linguaggio della legge – avrebbe potuto acquisire le valutazioni e l’assenso delle altre amministrazioni coinvolte. Si sarebbe così potuto decidere come meglio tutelare gli interessi pubblici nel loro coordinamento con gli interessi privati. Questa struttura procedimentale “aperta”, per così dire, venne chiamata “conferenza di servizi”.
Merita riportare il testo originale dell’art. 14:
Qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici, coinvolti in un procedimento amministrativo, l’amministrazione procedente indice di regola una conferenza di servizi.
La conferenza stessa può essere indetta anche quando l’amministrazione procedente debba acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche. In tal caso le determinazioni concordate nella conferenza tra tutte le amministrazioni intervenute tengono luogo degli atti predetti”.
La portata del primo comma non poneva problemi interpretativi: se si dà un procedimento amministrativo che, come spesso accade, coinvolge più interessi pubblici, l’ammi-nistrazione portatrice dell’interesse pubblico primario (questo dovrebbe essere il significato e il ruolo della “amministrazione procedente”) poteva riunire le amministrazioni che avevano in cura gli altri interessi coinvolti nel procedimento. È ragionevole pensare che la ragione ed il fine di questa convocazione fossero anzitutto sentirne il parere e quindi decidere sotto il profilo della miglior cura dell’interesse pubblico. È certo molto singolare che questo primo comma nulla dicesse sulle procedure volte alla formazione della decisione.
A prescindere da questo pur non banale problema – chi e come decide alla fine della conferenza? – il secondo comma di questo articolo è certamente meno chiaro e di più difficile interpretazione. Come si è visto (e si può leggere qui sopra), la conferenza può essere indetta anche quando l’amministrazione debba acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi, comunque denominati, di altre amministrazioni. Diceva questo secondo comma nella sua formulazione originaria che “le determinazioni concordate nella conferenza sostituiscono a tutti gli effetti i concerti, le intese, i nullaosta e gli assensi richiesti”.
Come è evidente, le situazioni giuridiche ed amministrative del primo e del secondo comma erano profondamente diverse. La situazione “disciplinata” dal primo sembra chiara: se è opportuno effettuare l’esame di più interessi pubblici, coinvolti in un procedimento, l’amministrazione capofila sente le altre amministrazioni e – non lo si legge, ma non sembra che potesse essere diversamente – decide. Assolve alla propria funzione di organo amministrativo.
Radicalmente diverso era il secondo comma: l’esito della conferenza era il rilascio delle intese, consensi, concerti, nullaosta, che, per definizione, sono atti interni al procedimento principale, adottati da altre amministrazioni coinvolte nel procedimento. Pare incontrovertibile che non vi fosse alcuna decisione, riferibile ad una specifica amministrazione o ad un nucleo di esse.
Ne discende, come è palese, che il primo comma disciplinava un procedimento amministrativo; il secondo, una sola acquisizione di atti, essenzialmente di pareri, del cui destino nulla si diceva. In altri termini, si può ben dire che avesse una funzione essenzialmente istruttoria.

2. Tra il primo ed il secondo comma c’era dunque una sorta di abisso giuridico – ciò che spiega la ragione per cui il primo comma ha resistito immutato fino al 2016, mentre il secondo è stato manipolato un gran numero di volte.
Quanto diceva il primo comma dell’art. 14 era diritto, vero diritto. Era una norma di legge che, in una cornice di diritto pubblico, consentiva l’esercizio della funzione affidata. Così, quando l’amministrazione “procedente” riteneva opportuno coordinare tutte le strutture amministrative coinvolte da richieste, pubbliche o private – ed aveva il titolo per farlo – poteva operare attraverso il suo organo, competente e titolare della funzione (del “potere”, di cui si chiedeva l’esercizio, si sarebbe detto una volta). Questa funzione di iniziativa rese di fatto intangibile il primo comma dell’art. 14. Solo nel 2016 – dopo 26 anni! – esso scomparve nel quadro di una riforma generale delle pubbliche amministrazioni, nel cui ambito venne riscritta anche la disciplina della conferenza di servizi. Era il d. l.vo n. 127 del 30 giugno 2016.
Ora è evidente che questa specie di struttura amministrativa temporanea, organizzata dall’amministrazione procedente per acquisire consensi, pareri ed atti consimili, doveva necessariamente essere inquadrata in qualche sistema temporaneo, ma comunque disciplinato. Buona regola avrebbe suggerito che una norma di legge definisse in via generale quale tipo di amministrazione avrebbe potuto assumere il ruolo di “amministrazione procedente”, definendo i suoi poteri nei confronti delle amministrazioni in qualche modo cointeressate.

3. Incredibile dictu tutto ciò non è accaduto. I commi dell’art. 14 della l. n. 241/1990, successivi al primo, ad un certo punto (e per ragioni che non emergono in alcun modo) hanno avuto bisogno, più che di aggiornamenti, di continue “rifondazioni”, se così si può dire. In altri termini, sono stati ripetutamente modificati o, più precisamente, riscritti funditus, fino a diventare ogni volta un testo completamente nuovo, ovviamente nella formula alter et idem.
In realtà una soluzione più sana per “aggiornare” la conferenza ed il suo funzionamento si sarebbe potuta trovare. La fisiologica chiave di volta era il procedimento amministrativo, cui del resto era dedicata la legge n. 241 del 1990, che ospitava la conferenza di servizi. Si sarebbero così potuti  da un lato individuare i soggetti pubblici, abilitati ad assumere decisioni; dall’altro, definire i livelli di competenza, ivi compreso il coordinamento delle amministrazioni coinvolte, senza dover ricorrere così spesso alle leggi.
In questa logica si sarebbero potute dettare norme operative per il funzionamento della conferenza, nella funzione istruttoria del 2° comma dell’art. 14. Questo compito sarebbe stato utilmente affidato al Governo, delegandolo ad adottare uno o più regolamenti per lo svolgimento delle funzioni istruttorie, dall’acquisizione di dati alle conclusioni istruttorie.

Venne accolta tutt’altra soluzione, la meno organica cui si potesse pensare: l’originario secondo comma dell’art. 14 venne integralmente riscritto – con atti aventi forza di legge –   ogni volta in cui emergeva l’esigenza di un aggiornamento. In questo modo, nel sistema veniva immesso un testo di legge, che si presentava ogni volta come un nuovo articolo da interpretare ex novo, non come un testo originario, che veniva parzialmente modificato e aggiornato.
Questo processo iniziò a partire dal 1993 (ma già nella versione originaria del terzo comma dell’art. 14 vi era stato un messaggio di rigidità). A rigidità successe rigidità. Portare – e mantenere – al rango di legge norme, la cui portata sarebbe stata di ordine naturalmente regolamentare, pose vincoli paralizzanti, come è ovvio. Così, nelle sette versioni dell’art. 14, adottate tra il 1993 ed il 2016, si leggono disposizioni di ordine fisiologicamente amministrativo, che forse non avrebbero richiesto neppure il regolamento. L’au-tentico delirio legislativo svoltosi intorno alla conferenza di servizi parrebbe avere un’uni-ca spiegazione: la novità era oscura (chi poteva che cosa?); come si potevano confrontare amministrazioni con diversi livelli di interesse, e, ai fini della conferenza, con sostanziale parità di poteri? Nei primi anni di funzionamento del nuovo sistema si era pensato di poter definire tutto con legge, vista l’oscura novità e, con essa, i molti, difficili passaggi previsti per il funzionamento della conferenza. Basti pensare che già nel 1993, in caso di paralisi della conferenza per assenza deliberata o semplice indifferenza di alcuni partecipanti “di peso”, il potere decisorio poteva essere sottratto alle amministrazioni coinvolte nella conferenza e trasferito al Presidente del Consiglio (o della Regione, o al Sindaco, a seconda delle  competenze, previa delibera dell’organo collegiale di riferimento).

4. È necessario chiarire un punto essenziale. Ispirata da un’esigenza di celerità ed efficacia dell’azione amministrativa, questa forma di riunione, “conferenza di servizi”, ha avuto un percorso paradossale. Anziché raffinarsi e snellirsi, con il passare degli anni il suo procedere è diventato sempre più complicato e complesso. È vero che il primo comma dell’art. 14 non è mai stato modificato. Ma solo questo si è salvato. Nel corso di quasi 27 anni, i commi dell’art.14, successivi al primo, sono stati non solo via via trasformati con radicali modifiche ed integrazioni del testo originario, ma anche accompagnati da una serie di multipli – gli artt. 14 bis, ter, quater, quinquies; tutti a loro volta riscritti, con modifiche e aggiunte. La prima legge – quella dedicata al procedimento amministrativo – aveva dettato alcune norme sulla conferenza, sostanzialmente chiare, come subito si vedrà.
Certo, sarebbe stato del tutto comprensibile un regolamento di attuazione, suscettibile di adattamento secondo le necessità dei tempi. La struttura del primo art. 14 lo avrebbe consentito perfettamente. Per ragioni che sfuggono a chi scrive (e che non sembra siano state indagate),  si è seguita un’altra via. Per anni e anni si sono modificate le norme della legge sulla conferenza di servizi – che poi sono i plurimi art. 14 della l. n. 241/1990 –  con altre norme di legge. Questo ha generato un vincolo procedurale – leggi che succedono a leggi – che richiede un aggiornamento ricorrente nel tempo: si adotta il complesso meccanismo procedurale della legge, e non quello, infinitamente più agile, del regolamento.
Come già si è accennato qui sopra, a tutto questo deve aggiungersi una vicenda oscurissima nelle sue ragioni. L’art. 14, secondo comma, non è stato solo ritoccato, cinque, sei volte, sia pure con legge. È stato interamente riscritto ogni volta, così cancellando tutto ciò che non era stato reimmesso nel nuovo testo. Come è intuitivo, questo è fonte di ricorrente incertezza.
Si è visto qui sopra, all’inizio, che il primo comma dell’art. 14 della legge n. 241/1990, rimasto invariato fino alla riforma del 2016, disponeva che, di fronte alla necessità di affrontare contestualmente vari interessi pubblici, si poteva indire una sorta di riunione delle varie amministrazione interessate, chiamata “conferenza di servizi”; essa poteva essere indetta anche per acquisire l’assenso di altre amministrazioni. Nel terzo comma, un meccanismo relativamente complesso disciplinava l’assenso dell’amministrazione che non avesse partecipato alla conferenza, nonostante l’invito. L’adesione presuntiva – come la si potrebbe chiamare – non valeva per le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica e della salute.
Per non appesantire, sia pur utilmente, lo svolgimento dell’evoluzione attraverso cui si è giunti al d. l.vo 30 giugno 2016, n. 127, i passaggi normativi che hanno caratterizzato la conferenza di servizi – dall’art. 14 alle sue integrazioni, gli artt. 14 bis, 14 ter, 14 quater, 14 quinquies, sono riportati in nota ([2]).

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5. L’ultima, radicale “revisione” dell’art. 14 è il d. l.vo 30 giugno 2016, n. 127, adottato in attuazione dell’art. 2 della l. 7 agosto 2015, n. 124, che aveva conferito al Governo numerose deleghe in tema di riorganizzazione delle amministrazione pubbliche.
Nonostante il suo impianto formale, sostanzialmente lineare, la normativa che con questo decreto legislativo viene immessa nell’ordinamento è molto impegnativa. Il suo art. 1, co. 1, modifica radicalmente l’art. 14 della l. n. 241 del 1990, investendone anche il primo comma, rimasto fino allora invariato. Anzitutto introduce tre “categorie” di conferenza di servizi, se così ci si può esprimere: istruttoria, l’una, decisoria l’altra, preliminare la terza. La legge dispone che la conferenza istruttoria può essere indetta dall’ammini-strazione procedente quando lo ritenga opportuno “per effettuare un esame contestuale degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo o in più procedimenti connessi, riguardanti medesime attività o risultati”.
Alla conferenza decisoria sono dedicate righe e righe dell’art.1. Dice la legge che essa è sempre indetta dall’amministrazione procedente, “quando la conclusione positiva del procedimento è subordinata all’acquisizione di più pareri, intese, concerti, nulla osta, atti di assenso, comunque denominati, resi da diverse amministrazioni”. Si consente che, quando l’attività di un privato sia “subordinata a più atti di assenso, comunque denominati”, da adottare in seguito a diversi procedimenti, questi possa chiedere la convocazione della conferenza. Si può ben dire che in sostanza si è cercato di definire tutti i possibili interventi, collegamenti, coordinamenti, necessari per decidere.
In quest’ottica si colloca una nuova figura di conferenza di servizi, la conferenza preliminare, introdotta dal co. 3 dell’art. 1 del d .l.vo n. 127/2016. Alle sue parole si deve dedicare la massima attenzione. L’amministrazione procedente (di cui non è chiaro il criterio da seguire per definirne l’identità) su motivata richiesta dell’interessato può indire una conferenza preliminare, finalizzata a indicare al richiedente, prima della presentazione di un’istanza o di un progetto definitivo, le condizioni per ottenere i necessari pareri, intese, concerti,nulla osta, autorizzazioni, concessioni o altri atti di assenso..”.

Qui si cela il dramma di questo sistema di conferenze. La procedura “operativa” sembra essere questa: se accoglie la richiesta dell’interessato, l’amministrazione procedente indice la conferenza entro tempi brevi. Le amministrazioni coinvolte esprimono le loro determinazioni sulla base della documentazione prodotta dall’interessato. A questo punto, l’amministrazione procedente indice una conferenza simultanea (artt. 14 bis co. 7 e 14 ter). In questa conferenza le determinazioni espresse nella conferenza preliminare possono essere modificate, solo in presenza di elementi emersi successivamente, “anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo”.
Segue l’inimmaginabile. “Nelle procedure di realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico, la conferenza di servizi si esprime sul progetto di fattibilità tecnica ed economica, al fine di indicare le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo le autorizzazioni, le licenze, i nulla osta e gli assensi comunque denominati, richiesti dalla normativa vigente”. La conferenza di servizi non decide. Mira ad indicare le condizioni per ottenere autorizzazioni, licenze etc.. Non le rilascia.
C’è qui una novità: questa conferenza si svolge secondo il “nuovo” art. 14 bis, per il quale v. infra..
Segue a questo punto un passaggio cruciale. Le amministrazioni coinvolte esprimono le loro determinazioni sulla base dei documenti forniti dall’interessato. Scaduto il termine per queste “determinazioni”, l’amministrazione procedente le trasmette al richiedente. A questo punto si apre una autentica sarabanda. “Ove si sia svolta la conferenza preliminare”, l’amministrazione procedente indice una conferenza simultanea, dove ancora le determinazioni espresse in precedenza possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di ulteriori elementi emersi nel successivo procedimento. Nel caso della realizzazione di opere pubbliche, la conferenza si esprime sul progetto di fattibilità tecnica ed economica al fine di indicare le condizioni per ottenere sul progetto definitivo intese, pareri, concessioni, autorizzazioni, nulla osta e assensi “richiesti dalla normativa vigente”.
La complessità del sistema non è banale.

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6. – È necessaria una sorta di breve “pausa di riflessione” per orizzontarsi in questa legislazione. Fin qui si sono raccolte le norme, via via derivate da modifiche dell’art.14 della l. n. 241/1990. Come si è visto, erano essenzialmente formali, nel senso che dettavano le regole per lo svolgimento della conferenza, senza disciplinare l’esercizio della “voluntas”, vale a dire dell’apporto probatorio hinc inde portato in vista dell’esercizio del potere discrezionale, sotteso all’istruttoria. All’esercizio del potere si accennava qua e là; ma solo si accennava, con una ripetuta “revisione” dell’art. 14, senza alcun indirizzo per la decisione, in funzione della quale era stata convocata la conferenza.
Come è evidente, questo regime non poteva durare a lungo. In effetti, nel 1997, la già citata l. n. 127 di quell’anno (da non confondere con il d. l.vo con lo stesso numero, ma del 2016) aveva introdotto un obbligo di conferenza, con l’inserimento di un art. 14 bis nella l. n. 241/1990. Esso rendeva obbligatoria la conferenza per i grandi interventi (opere pubbliche o altri programmi operativi superiori ai 30 miliardi, qualora fosse richiesto l’intervento di più amministrazioni). Le formalità per considerare la decisione adottata dalla conferenza erano debitamente complesse: non bastava che fosse stata acquisita un’intesa tra Stato e regioni interessate; era necessario anche l’assenso dei delegati di comuni e di comunità montane interessati.

7. Era inevitabile che si intervenisse di nuovo. Così, nel 2000, con l’art. 10, co. 1, della già cit. l. n. 340 che, con l’art. 9, co. 1, aveva modificato l’art. 14 della l. 241/1990, venne modificato anche l’art. 14 bis, qui sopra citato, introdotto tre anni prima dalla legge del 1997, n. 127. Le modificazioni sono significative. Anzitutto la conferenza può essere convocata su richiesta dell’interessato per “verificare” (sic) quali atti o consensi sono necessari per discutere fattivamente di un progetto o di un’istanza. Ai fini della realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico, la conferenza individua le condizioni per la realizzazione dell’intervento; se non emergono elementi preclusivi, le amministrazioni possono rilasciare i permessi e le autorizzazione necessari per procedere. Secondo l’ultimo comma, la conferenza ha la cura della valutazione dell’impatto ambientale (la VIA). È insomma una norma molto complessa, perché disegna tutti i percorsi che si possono o devono seguire per ottenere un quadro di positiva situazione di VIA.

8. Una puntuale attenzione merita anche qui la l. n. 15 del 2005, di cui già si è detto relativamente all’art. 14. La modifica dei commi 1 e 2 e l’introduzione del nuovo co. 3 bis dell’art.14 bis disciplinano le procedure decisionali, “al fine di verificare quali siano le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari atti di consenso” (co. 1). Lo stesso spirito ha guidato il secondo comma: nelle procedure di realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico “la conferenza di servizi si esprime sul progetto preliminare al fine di indicare quali siano le condizioni per ottenere, sul progetto definitivo, le intesi, i pareri, le concessioni”, etc. etc. Si noti: “al fine di verificare …”; “al fine di indicare …”. Il verbo “decidere” sembra essere scomparso.

9. All’intervento della l. n. 15/2005 segue il tentativo di riforma della pubblica amministrazione, oggetto del d. l.vo n. 127/2016. Esso ha ulteriormente modificato l’art. 14 bis in una serie di commi, lunghi e lunghissimi. Dispone così anzitutto una sorta di reticolo nel quale l’amministrazione procedente comunica alle altre amministrazioni l’oggetto della determinazione (si noti: “determinazione” da assumere”, non “decisione” da prendere) con istanze e documenti, ovvero “le credenziali per l’accesso telematico alle informazioni ed ai documenti utili ai fini dello svolgimento dell’istruttoria” (co. 2, lett. a). Non solo: l’amministrazione procedente fissa termini perentori entro i quali le amministrazioni possono chiedere integrazioni documentali o chiarimenti, …. “non attestati in documenti già in possesso dell’ammini-strazione stessa …” (co. 2, lett. b). Gli altri commi scandiscono tutte le possibili evenienze, legate al consenso e ad una serie di ipotesi di dissenso. Sono una autentica trama della funzione amministrativa che si dovrebbe svolgere e riassumere in una decisione definitiva.
Non si può non richiamare l’attenzione sul linguaggio usato dalla legge del 2016. Esso è pacato, dettagliato, quasi discorsivo. Merita fermare brevemente l’attenzione sul co. 3, di questo art. 14 bis:
“….. le amministrazioni coinvolte rendono le proprie determinazioni relative alla decisione oggetto della conferenza. Tali determinazioni, congruamente motivate, sono formulate in termini di assenso o dissenso e indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell’assenso. Le prescrizioni o condizioni eventualmente indicate ai fini dell’assenso o del superamento del dissenso sono espresse in modo chiaro e analitico e specificano se sono relative a un vincolo derivante da una disposizione normativa o da un atto amministrativo generale ovvero discrezionalmente apposte per la migliore tutela dell’interesse pubblico.”

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10. Qui giunti, è necessaria qualche considerazione di ordine forse non direttamente giuridico. In termini generali, è indubbio che la struttura delle leggi abbia una propria tipicità. Si definiscono situazioni; si prescrivono comportamenti, individuando e definendo competenze. Ciò che l’interessato dalla legge deve fare è tracciato dalla legge stessa, che, a seconda delle situazioni e quindi delle competenze, viene “eseguita”, ottemperata, rispettata, in sede di decisione da persone e uffici di diversi ordini e ruoli. Non è un caso che proprio da questo ruolo della legge nei confronti dei dipendenti o, più in generale, dei responsabili, si sia formato il concetto di discrezionalità – dell’amministrazione – , con cui si esprime il livello lato sensu funzionale dei dipendenti, chiamati ad operare.

In un continuo crescendo, la disciplina della conferenza di servizi ha mutato natura. Nel 1990 essa determinava aree di competenza e ruoli: inequivoco era il primo comma dell’art. 14. L’amministrazione “procedente”, nel linguaggio di questa legge e di quelle che le sono seguite, in realtà semplicemente “competenti”, poteva attivare un percorso di cooperazione, mirato a raggiungere una co-decisione, una condivisione, in un quadro di coordinamento istruttorio e decisionale.
Con il tempo – fermo restando il primo comma dell’art. 14 fino al 2016 – il ruolo delle amministrazioni è mutato. Sono presenti, sono “indipendenti”, sono scoordinate. Le leggi che si susseguono nel corso di venticinque anni mirano a definire ogni passo che si deve compiere all’interno di una procedura di “conferenza di servizi”. E questo fanno per una ragione fortissima: non è possibile ottenere una decisione che non venga accettata da tutte le amministrazioni interessate, a prescindere dal ruolo di ciascuna. Quasi come se si trattasse di una specie di gioco di società, l’art. 14, co. 3, ”in versione” 2016, dispone che “Ove si sia svolta la conferenza preliminare, l’amministrazione procedente, ricevuta l’istanza o il progetto definitivo, indice la conferenza simultanea nei termini e con le modalità di cui agli artt. 14 bis co. 7 e 14 ter, e, in sede di conferenza simultanea, le determinazioni espresse in sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nel successivo procedimento anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo”
Analoghe disposizioni, che configurano la conferenza quasi in termini di gioco di società, si leggono nel co. 2 dello stesso art. 14, “in versione” 2016. Il nocciolo del “precetto” è che la conferenza di servizi è indetta dall’amministrazione procedente quando la conclusione positiva del procedimento è subordinata a “pareri, intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso, comunque denominati”. Conclude questo co. 2 che, se l’attività del privato è subordinata a più atti di assenso, da adottare a conclusione di procedimenti di diverse amministrazioni, “la conferenza di servizi è convocata, anche su richiesta dell’interessato, da una delle amministrazioni procedenti”.
Lo scenario che emerge dalla versione 2016 della conferenza di servizi è chiaro. Essa è un luogo di discussione, con tutti i problemi e le difficoltà che ciò comporta. Ma la sterminata complessità della conferenza è “riassunta” (se si può usare questo termine) nel terzo comma dell’art. 14 bis, sempre versione 2016. Dopo aver disciplinato una vasta serie di passaggi, simili tra loro, se non addirittura uguali, in questo terzo comma si legge che “le amministrazioni coinvolte rendono le proprie determinazioni, relative alla decisione oggetto della conferenza. Tali determinazioni, congruamente motivate, sono formulate in termini di assenso o dissenso e indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell’assenso. Le prescrizioni o condizioni eventualmente indicate ai fini dell’assenso o del superamento del dissenso sono espresse in modo chiaro e analitico …” specificando analiticamente a che cosa si debba l’assenso.
Nessuno discute che, in un contesto così complesso, tutto ed il contrario di tutto possa essere detto: ma pare veramente al di là di ogni usanza che una legge dica come e che cosa si debba scrivere nell’ambito di una significativa aggregazione temporanea – e specialistica – di amministrazioni pubbliche.

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11. Si può e si deve concludere.

Il fenomeno che colpisce il lettore è la straordinaria fragilità della conferenza. Non prende decisioni. Svolge soltanto una funzione istruttoria, per così dire ausiliaria, nel cui ambito non mira a definire – e decidere – a quali condizioni qualche decisione possa essere presa. Il percorso della conferenza mira solo ad accertare quali siano gli assensi e come si possano superare i dissensi; ottenere nulla-osta, consensi; gestire i rigetti o i rifiuti cui l’interessato (ma come l’interessato, così anche un’amministrazione) può dover andare incontro per poter ottenere un’autorizzazione, permesso o licenza che sia..
Questo ha un duplice significato. Il primo punto è che l’amministrazione procedente si differenzia dalle altre per avere una sorta di competenza istruttoria di ordine generale, ma non nel senso che essa abbia un potere-dovere di accertare lo stato di fatto e di diritto entro cui si colloca una qualsiasi iniziativa soggetta a condizioni specifiche. Nella maggior parte dei casi l’amministrazione procedente può procedere solo ad una istruttoria documentale – quell’istruttoria che consente all’interessato di ottenere dall’amministrazione competente autorizzazioni, consensi, nulla osta o rigetto dell’istanza. L’amministrazione procedente non è insomma l’amministrazione che decide.
Ciò che si deve trarre da queste disposizioni – della legge! – è che, nel loro complesso, le singole amministrazione non sono autosufficienti. E non lo sono per una ragione banale: la funzione amministrativa si manifesta in competenze frastagliate, con poteri non autosufficienti perché le materie rilevanti per l’iniziativa di X, sia questi un privato o una data pubblica amministrazione, richiedono necessariamente il consenso o l’autorizzazione degli uffici di n, q, r, s. Nessuno è autosufficiente; ognuno può avere un effetto paralizzante.
La conclusione è tanto semplice, quanto difficile ed in realtà pressoché impossibile allo stato della nostra organizzazione amministrativa. Le competenza istruttoria, si noti, è tale che non le consente di assumere qualsiasi decisione. Tanto è vero questo, che continuamente si legge che il compito della conferenza è trovare il percorso per sapere quali sono i consensi, assenso nulla-osta etc. etc. che l’interessato deve ottenere per poter realizzare il suo progetto.

12. Ma di qui nascono alcune precise e fondamentali domande. Come è possibile che una pubblica amministrazione non sia in grado di provvedere, pur nel rispetto di altre amministrazioni che svolgono altri ruoli?
Il problema è teoricamente semplice, ma in concreto difficile. Il sistema della conferenza di servizi mira a consentire a tutte le pubbliche amministrazioni di essere presenti con un loro rappresentante e di far valere le loro opinioni in una misura, in una entità non facilmente definibile. Il problema è tanto chiaro, quanto difficile.
Ogni amministrazione ha quasi il monopolio della materia di cui si occupa. Può opporsi in qualunque circostanza, con qualunque motivazione. Se poi ci sono amministrazioni cui sono affidate materie sensibili o sensibilissime – dall’ambiente ai beni culturali, per toccare i terreni più difficili – esse non hanno freno, se così si può dire: la tutela dell’ambiente o dei beni culturali tende ad essere assoluta; si esprime quindi in una totale opposizione a qualunque innovazione, a qualunque mutamento. È accaduto che una statua sia stata rubata, perché costretta dalla Soprintendenza a lasciarla sulla scalinata di ingresso, cui alcune centinaia di anni da era stata destinata. Ancora oggi, 2017, il piano regolatore di Roma del 1938 è portatore di incredibili, straordinari e spesso insensati vincoli. E così via. Così si bloccano alla vita le sorgenti, salvo lasciarle letteralmente violentare.
È giunto il momento di tornare brevemente sul d. l.vo 30 giugno 2016, n. 127 [3]. Già si è detto quanto profondo sia stato il suo intervento sulla conferenza di servizi. Si può ben dire che il nuovo testo degli artt. 14, 14 bis, 14 ter, 14 quater, 14 quinquies traccia  tutti i passaggi che si compiono in vista di una conferenza e del suo svolgimento.

Il punto cruciale sta qui: di che cosa si compongono questi passaggi? Una struttura tradizionale di procedimento amministrativo si comporrebbe di “passaggi” ben definibili e definiti. Per fare un esempio si può pensare ad una domanda o proposta del privato e quindi a richieste istruttorie, pareri, deduzioni e controdeduzioni, con un verosimilmente complesso svolgimento di accertamenti, ricognizioni, etc. etc. In sintesi: soggetti interessati a svolgere attività di un qualche peso devono ottenere uno e spesso più provvedimenti, che esprimano il consenso delle amministrazioni attive, con varie competenze, in vista di un risultato: ottenere un provvedimento che consenta un’attività. In altri termini, di fronte alla competenza di qualche amministrazione, chiamata a tutelare l’interesse o gli interessi pubblici che si intersecano con l’interesse del privato, si cerca di ottenere un atto di esercizio del potere amministrativo – un provvedimento discrezionale – in forza del quale poter fare o ottenere qualche cosa.
Come è evidente, tutto ciò postula che le amministrazioni, investite delle valutazioni degli interessi pubblici, sottesi all’interesse privato, abbiano il potere di valutare e decidere.
Nella struttura della conferenza di servizi tendenzialmente non vi è nulla di ciò. Le varie amministrazioni che partecipano alla conferenza mirano ad acquisire le informazioni e le valutazioni che potranno condurre ai nulla osta, consensi e simili. Vi è, insomma, un grande dispendio di energie, volto non a valutare ed a consentire o negare un’attività o un altro tipo di beneficio, ma ad acquisire le posizioni delle singole amministrazioni, che non sono chiamate a decidere, ma a discutere, in vista – parrebbe – di maturare altrove decisioni operative.
Vi è una precisa prova di ciò nella successione degli articoli di legge derivati dall’art. 14 della l. n. 241/1990, oggi ricondotte ad unità dall’art. 1 della l. 127/2016. Sono tutte norme con funzione istruttoria, mai decisionale. L’esito favorevole della conferenza di servizi consente all’amministrazione procedente di avviare la procedura decisoria. In altri termini, all’esercizio della discrezionalità.
Si può ben dire che qui è necessario che le responsabilità ed i poteri vengano distribuiti razionalmente. Questo avverbio, “razionalmente”, è molto difficile, perché richiede esperienza, equilibrio, a volte comprensione e tolleranza, a volte rigore. Ma se si vuole conservare il nostro mondo – come forse è ancora possibile – è indispensabile che qualcuno, ben formato, ben scelto, abbia il diritto e il dovere di decidere, senza perdersi in parole, incontri, opposizioni vane. In altri termini, occorre individuare, scegliere, coordinare le funzioni amministrative secondo il loro “peso”, e non secondo pure ideologie, per quindi scegliere persone cui affidare i vari livelli di potere amministrativo e di responsabilità.
Sotto questo profilo, è indubbio che il d. l.vo n. 127/2016 sia sensibile, specie negli art. 14 ter, quater  e quinquies: sono le norme che disciplinano la conclusione delle discussioni svoltesi nella conferenza di servizi. Ma c’è un problema di fondo, difficile da risolvere: non tutte le amministrazioni hanno lo stesso “peso specifico”, al di là del fatto che siano o meno portatrici di interessi sensibili. In altri termini, è cruciale che alcune amministrazioni, cui sono affidati compiti di conservazione e tutela, facciano sì valere il peso ed il valore delle loro osservazioni, ma con equilibrio, quindi anche con rigore, se necessario, ma non con spirito solo interdittivo.

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È evidente che quanto qui discusso mira certamente a proporre un assetto organizzativo e giuridico diverso da quello attuale.
Per paradossale che possa sembrare, il primo passo è la soppressione della conferenza di servizi.

Note

1.  Il 20 marzo 2017, nella splendida cornice della sala di Pompeo, a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, si è tenuto un convegno su un tema estremamente impegnativo: “La legge generale sul procedimento amministrativo: attualità e prospettive nei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione”. A chi scrive era stata affidata una relazione su“Conferenza di servizi e bilanciamento di interessi”.
Poche settimane dopo,  il 7 aprile 2017, nella Sala delle Laure della Sapienza vi è stato un altro dibattito, al quale anche chi scrive ha partecipato.
Le pagine che seguono non sono testi di relazioni scritte, ma il tentativo di una riflessione organica su questo istituto, di cui tutto o quasi tutto è oscuro o addirittura incomprensibile nella sua apparente semplicità.

2.  La prima modifica venne dopo tre anni, dalla l. 24 dicembre 1993, n. 537. Il comma 12 dell’art 2 l della l. n. 537 del 1993 correggeva una errore di stampa del co. 2: era stata stampata la parola “denominazioni” anziché “determinazioni”. Di ben altro peso il co. 13: introduceva la competenza extra ordinem del Presidente del Consiglio: se la conferenza prevedeva l’unanimità per le decisioni, e questa non fosse stata raggiunta, si sarebbe potuto adire il Presidente del Consiglio, che avrebbe potuto decidere previa delibera del Consiglio dei Ministri, ovviamente su istanza dell’amministrazione capofila, l’amministrazione procedente. Pare evidente che la conferenza dei servizi, in sé e per sé, non fosse uno strumento amministrativo ad alto grado di efficienza, se addirittura il Presidente del Consiglio poteva essere chiamato a provvedere, previa delibera del Consiglio.
Un anno e mezzo dopo, l’art. 14 venne arricchito del co. 2 ter (d.l. 12 maggio 1995, n. 109, conv. l. n. 273/1995). Si disciplinava l’ipotesi che il cittadino avesse necessità del consenso di amministrazioni diverse. Diceva questa legge che la conferenza sarebbe stata convocata, “anche su richiesta dell’interessato”, dall’amministrazione preposta all’interesse pubblico prevalente. Nulla di più.
Si può ben dire che, due anni dopo,  la legge 15 maggio 1997, n. 127, abbia dato il la alle modifiche di sistema dell’art. 14. Con quattro commi dell’art. 17, apparentemente innocui, essa tracciava la strutturale fragilità della conferenza di servizi – ovvero, la sua strutturale incapacità di fungere da strumento procedimentale di decisione. Si va ben oltre con il 5° comma dello stesso art.17: nella legge madre del procedimento amministrativo, la l. n. 241/1990, viene immesso l’art. 14 bis, che forse intendeva dettare parametri per una disciplina di merito della conferenza di servizi.
La procedura tracciata dal primo e dal secondo comma dell’art. 17 di questa legge l. n. 127/1997 (che sono i co. 2 bis e 3 bis dell’art. 14,  l. n. 241/1990) può essere così riassunta: nella prima riunione della conferenza si decide il termine entro cui si può pervenire ad una decisione. Se questo non accade, perché vi è dissenso, l’amministrazione procedente può decidere di concludere positivamente il procedimento, dandone comunicazione niente meno che al Presidente del Consiglio, se si contrappongono amministrazioni statali; al presidente della regione o ai sindaci, negli altri casi. Decorso il termine di 30 giorni senza provvedimento di sospensione – assunto dal Consiglio dei ministri, dal consiglio regionale o comunale – la determinazione è esecutiva: si noti, “esecutiva”, non definitiva.
Attraverso un nuovo co. 4  immesso nell’art. 14  della l. n. 241/90 dal co. 3 dell’art.17, l. n. 127/1997,  viene affrontato il problema della tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico e della salute dei cittadini. Purché non ci sia stata già una valutazione negativa di impatto ambientale in base a certe norme tecniche, l’ammini-strazione procedente può chiedere “una determinazione di conclusione del procedimento” al Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio.
Infine, il co. 4 bis (dettato dall’art. 4 della l. n. 127/1997) prevede la possibilità di convocare la conferenza di servizi per l’esame contestuale di più procedimenti. La legge detta qui norme semplici e ragionevoli.
Poco più di un anno dopo, la l. 16 giugno 1998, n. 191, affronta in chiave operativa le vicende della conferenza: in caso di sospensione, dice l’art. 2, co. 28 (che modifica l’art. 14, co. 3 bis, della legge fondamentale), essa può pervenire entro trenta giorni ad una decisione che tenga conto delle osservazione del Presidente del Consiglio; decorso inutilmente questo termine, la conferenza è sciolta. Sembra superfluo osservare che la sola idea di attribuire al Presidente del Consiglio un ruolo puramente amministrativo, non vincolante, per una struttura operativa di rango assolutamente inferiore, testimonia la strutturale inefficienza della conferenza.
Un nuovo intervento si ebbe con la l. 24 novembre 2000, n. 340, il cui art. 9, co. 1, due anni e mezzo dopo la legge del 1998, modificò l’art. 14. Non si può parlare di vere modifiche o evoluzioni. Sembrano più ritocchi o semplificazioni. Così, il 1°, il 2° ed il 3° comma in qualche modo semplificano o chiariscono i motivi, le situazioni, i promotori della conferenza. È un saggio sforzo di semplificazione, senza, parrebbe, novità.
Anche la celebre l. 11 febbraio 2005, n. 15, che investì l’intero sistema del diritto amministrativo, o quasi, si occupò della conferenza di servizi. È la legge con cui si pensò di privatizzare il regime giuridico dell’azione amministrativa, senza per altro aggiungere alla diversità formale delle procedure alcun elemento tipico del diritto civile, quale, prima tra tutti, è la simbiosi di libertà e responsabilità. Comunque venne adottato un corpo di norme di grande peso per il diritto pubblico. La l. 15/2005 praticamente ristrutturò l’art.14 della l. n. 241/1990, restituendogli un approccio rigoroso. In sintesi: se in un procedimento amministrativo era coinvolta una molteplicità di interessi pubblici, l’ammi-nistrazione procedente avrebbe di regola indetto la conferenza: dunque, non sempre. In effetti, la conferenza di servizi avrebbe sempre dovuto essere indetta quando l’ammini-strazione procedente, che doveva ottenere intese, concerti, nulla osta di altre amministrazioni, non li conseguiva, in varie forme, ivi compreso il dissenso di qualche amministrazione. Possono essere coinvolti più procedimenti connessi; qualsiasi amministrazione cointeressata in questo contesto procedimentale può richiedere la conferenza. Non sono secondari alcuni altri punti: se l’attività di un privato è soggetta a consensi amministrativi, egli può chiederne la convocazione all’amministrazione competente per l’adozione del provvedimento finale. Regole coerenti con queste che si sono viste valgono per le concessioni di lavori pubblici; sembra difficile pensare che, nel vigore di questa legge, la conferenza di servizi non fosse invocabile in tutte le situazioni che richiedevano la presenza di più amministrazioni.
Trascorrono altri cinque anni senza interventi. Solo l’art. 39 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in l. 30 luglio 2010, n. 122  modificò i commi 1 e 2 dell’art. 14. La modifica è minimale; non merita riassunti.

3.  Il Giornale di diritto amministrativo n. 3 del 2017 ospita un attento articolo di Mariangela Benedetti, L’attuazione della nuova conferenza di servizi.