Le conseguenze del ritiro statunitense dall’accordo globale sul clima

Dopo aver lasciato depositare il polverone scatenato da una decisione attesa dai più, ma non per questo meno cruciale per la storia dei negoziati internazionali per il clima, è possibile esaminare le conseguenze, le sfide e i rischi che derivano dall’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.
Nell’ormai storico discorso di inizio giugno dal giardino delle rose della Casa Bianca (lo stesso luogo, ricco di storia, da cui l’ex presidente Obama aveva commentato per la prima volta il risultato delle elezioni di novembre dello scorso anno), Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti si ritireranno dall’accordo globale sul clima adottato nel 2015 e interromperanno l’implementazione delle misure incluse nel patto, compresi gli impegni finanziari ed economici “draconiani” che questo prevede. La giustificazione principale del ritiro, infatti, è che in base all’accordo alcuni Paesi (come Cina e India) avrebbero la libertà di continuare a inquinare e riceverebbero anche consistenti aiuti finanziari, mentre per gli Stati Uniti (che si sono impegnati volontariamente a ridurre le emissioni di gas serra del 26-28 percento entro il 2025) il rispetto degli impegni presi imporrebbe costi insostenibili e sproporzionati. I dati forniti a supporto di questa tesi parlano di circa 3 miliardi in meno in termini di PIL e oltre 6 milioni di posti di lavoro persi nel 2040. Numeri che qualsiasi statista ha la responsabilità di considerare, ma anche di valutare appropriatamente: i dati provengono da un unico studio che è stato criticato per la parzialità degli enti promotori, non è stato sottoposto a processo di peer-review e, come centinaia di studi simili che cercano di calcolare (con risultati anche molto diversi) gli impatti economici dei cambiamenti climatici e delle misure necessarie ad affrontarli, si basa su stime e assunzioni.
Se le motivazioni (che non tengono conto degli sforzi già avviati da economie emergenti come Cina e India, né delle opportunità di innovazione e sviluppo offerte da una progressivamente più solida “economia verde”) possono far sorgere qualche dubbio, la decisione di per sé è invece molto netta. Gli Stati Uniti sono fuori dall’accordo globale nella sostanza, anche se formalmente il processo sarà più complesso e laborioso.
A differenza del suo predecessore (il Protocollo di Kyoto, adottato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005) l’Accordo di Parigi è stato concepito come un sistema flessibile ed “ibrido”, che garantisce la partecipazione sulla base di impegni formulati dagli stessi Stati (NDCs, Nationally Determined Contributions) e non imposti dall’alto, inseriti in un quadro normativo internazionale atto favorirne il rispetto, la verifica ed un progressivo incremento.
In questo senso, gli Stati Uniti avrebbero avuto la possibilità di rimanere nel trattato senza essere obbligati a rispettare gli impegni presi, dato che il sistema di Parigi è espressamente “facilitativo e non punitivo” e non prevede sanzioni in caso di mancato adempimento. La scelta di Trump è quindi più facilmente interpretabile considerando le logiche interne alla politica statunitense e la necessità da parte del presidente di rassicurare lo zoccolo duro del proprio elettorato mantenendo una delle più sbandierate promesse della campagna elettorale (oltretutto tra le più facili da soddisfare rispetto a, per esempio, costruire un muro lungo il confine con il Messico, o riformare il sistema sanitario).
Invece i dettagli sulle procedure d’uscita sono stati, forse volutamente, poco pubblicizzati. Il ritiro dall’Accordo di Parigi è possibile dopo tre anni dall’entrata in vigore – 4 novembre 2016. Da quel momento, è necessario un altro anno per formalizzare il disimpegno. Conti alla mano, significa che la prima data utile sarà il 4 novembre 2020, il giorno dopo le prossime elezioni presidenziali. Esistono delle scorciatoie per accelerare i tempi, come per esempio ritirarsi dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), o sottoporre l’ordine esecutivo con cui Obama ha ratificato l’Accordo al voto del Senato. Ma sono ipotesi più radicali che comporterebbero nuovi rischi per l’amministrazione Trump sia sul piano interno che internazionale, e finora non sono state pubblicamente discusse. Nelle intenzioni di Trump, invece, gli Stati Uniti avvieranno nuovi negoziati per “rientrare” nell’accordo con condizioni più favorevoli o addirittura per stipulare un nuovo trattato. L’annuncio di “rinegoziazione” denota scarsa conoscenza o consapevole disinteresse circa le modalità e il lungo percorso attraverso cui l’Accordo è stato raggiunto e, comprensibilmente, UNFCCC e gli altri Paesi aderenti si sono affrettati a precisare che non sussistono né le condizioni né le intenzioni per intavolare nuove trattative sulla base della richiesta di un singolo stato.
L’annunciato dietrofront – nei fatti – del Paese più ricco del mondo, nonché principale responsabile storico dell’accumulo di gas climalteranti nell’atmosfera, aveva destato allarme per il rischio di un “effetto domino” che avrebbe potuto far crollare il nuovo impianto internazionale basato su cooperazione, dialogo e fiducia reciproca. Per il momento invece il sistema ha retto bene: gli altri Paesi grandi emettitori, comprese Cina e India, hanno affermato chiaramente che andranno avanti negli impegni di riduzione e l’obiettivo di porre un freno alla crescita delle emissioni entro il 2030 rimane realistico. La decisione di Trump, nella sua gravità, ha fatto poi emergere elementi nuovi, e non tutti negativi, nello sforzo collettivo per fronteggiare i cambiamenti climatici.
La capacità del nuovo corso di assicurare una maggiore partecipazione rispetto al sistema di Kyoto è già stata confermata dai fatti. A Parigi tutti i Paesi del mondo (con pochissime eccezioni) si sono impegnati a contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2°C, incrementare le capacità di adattamento ed allineare i flussi finanziari alle esigenze di una crescita economica a basse emissioni e resiliente. Solo due Paesi non hanno firmato l’Accordo: Siria e Nicaragua (quest’ultimo con la motivazione che non è abbastanza stringente e ambizioso). Ad oggi, il trattato è stato ratificato da oltre 150 Stati membri dell’UNFCCC (su 197) ed è entrato in vigore nel novembre 2016, meno di un anno dopo l’adozione a COP21 (un record di velocità, non solo rispetto a Kyoto, che vedeva ben meno Stati direttamente coinvolti nell’impegno a ridurre le emissioni e nonostante questo ha richiesto ben otto anni per l’entrata in vigore, ma anche rispetto alle usuali tempistiche degli accordi in sede ONU).
Dall’altra parte, gli strumenti per garantire che il sistema funzioni sono ancora in fase di definizione. Entro il 2018 sono attese le linee guida che permetteranno di rendere l’Accordo operativo, stabilendo criteri comuni di trasparenza e verifica degli impegni presi e dei progressi raggiunti, modalità di revisione periodica (prevista ogni cinque anni) e di “incoraggiamento” al rispetto degli impegni (dato che non sono contemplate sanzioni), termini e strumenti di sostegno, non solo finanziario, ai Paesi più poveri e con minori risorse per sviluppare azioni di mitigazione ed adattamento.
Sono dettagli operativi fondamentali su cui la comunità internazionale sotto l’egida ONU deve decidere bene (garantendo inclusività, bilanciando capacità ed esigenze diverse dei vari Paesi) ma in fretta. Avere gli Stati Uniti riluttanti al tavolo dei negoziati avrebbe molto probabilmente reso le trattative più lunghe, conflittuali e incerte.
Contro le aspettative di un generale disimpegno, la decisione del governo USA sembra invece aver scatenato una reazione a catena in senso contrario, anche e soprattutto all’interno degli Stati Uniti. Nelle settimana successive all’annuncio si sono moltiplicate le iniziative da parte di imprese ed enti locali che hanno confermato o aumentato i propri impegni e avviato nuove azioni a livello subnazionale, che potranno almeno in parte colmare il vuoto a livello federale. L’iniziativa “We are still in”, lanciata da Michael Bloomberg, ha raccolto l’adesione dei leader di oltre 125 città, 9 stati, 902 imprese e investitori e 183 università e college americani. Le città e gli Stati aderenti (tra i quali California, Oregon, Hawaii, New York, Washington, Los Angeles e Houston) rappresentano 120 milioni di cittadini e 6,2 miliardi di dollari di PIL statunitense. Le imprese e gli investitori (che avevano ripetutamente chiesto a Trump di non ritirarsi dall’Accordo di Parigi) rappresentano un fatturato annuo complessivo di 1400 miliardi di dollari e includono aziende come Apple, eBay, Google, Intel, Microsoft, Facebook, Tesla, Nike.
Questa colossale mobilitazione potrebbe trasformarsi nel primo “NDC della società civile” riconosciuto nel sistema di Parigi, come ha anticipato durante il G7 Ambiente di Bologna Patricia Espinosa, segretaria UNFCCC. L’onda lunga non si è ancora esaurita. A fine giugno, durante la conferenza dei sindaci statunitensi, oltre 250 amministratori locali hanno siglato una risoluzione che li impegna fornire energia al 100% da fonti rinnovabili nelle città interessate entro il 2035.

Durante il vertice G7 Ambiente qualche segnale positivo è arrivato anche dall’amministrazione Trump. Pur non sottoscrivendo la dichiarazione congiunta delle sette maggiori economie mondiali sul clima e impegni finanziari multilaterali, Scott Pruitt, capo dell’Environmental Protection Agency (l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente americana), ha sottolineato il fatto che il governo continuerà a tutelare l’ambiente e a controllare l’inquinamento nell’interesse dei cittadini americani. Continuerà quindi anche a ridurre le emissioni, modificando il Clean Air Act e introducendo nuove misure che, pur non rientrando all’interno dell’Accordo di Parigi, vanno nella stessa direzione.
Se da una parte queste considerazioni sono da valutare positivamente (al netto delle incertezza sull’effettiva strategia di deregulation e tagli al budget federale che l’amministrazione ha avviato in ambito ambientale, e sugli effetti che questa potrebbe avere nel medio termine), dall’altro è doveroso ricordare che i cambiamenti climatici sono un problema collettivo ed è necessaria un’azione di cooperazione internazionale senza precedenti per avviare una strategia adatta ad affrontarli. La decisione unilaterale degli Stati Uniti da questo punto di vista non può che essere vista come un rifiuto di assumersi le responsabilità che un ruolo di leadership globale richiede, in una situazione in cui la maggior parte dei Paesi che ben poco hanno contribuito a creare il problema sono anche quelli più vulnerabili e con meno risorse per fronteggiare gli impatti negativi sempre più evidenti. Con la sua decisione, Trump ha fortemente ridimensionato il capitale politico internazionale di soft power che l’amministrazione Obama ha accumulato in otto anni di lavoro di diplomazia e cooperazione sul tema dei cambiamenti climatici. Parte di questo lavoro include accordi su ricerca e sviluppo e partnership commerciali in settori strategici e innovativi come quello della transizione verso la produzione di energia a basse emissioni di carbonio, che sarà sempre più determinante negli anni a venire. La scelta di puntare sullo sviluppo delle fonti fossili e “resuscitare” l’industria del carbone (come dichiarato nel recente piano energetico “America First”) è un azzardo in cui rischiano di rimetterci per primi, paradossalmente, i cittadini e le imprese statunitensi.
L’ultimo e fondamentale motivo per cui la portata del nuovo corso USA non può essere sottovalutata è la questione dei tagli ai finanziamenti internazionali. Trump ha ribadito l’intenzione di interrompere il contributo statunitense al Green Climate Fund, l’istituzione creata nel 2010 allo scopo di finanziare progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo. Sotto l’amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno impegnato 3 miliardi di dollari (circa un terzo del budget attuale a disposizione del Fondo) ma finora i contributi effettivamente versati ammontano a un miliardo. Durante il recente G7 Ambiente Scott Pruitt non ha confermato né smentito l’interruzione dei finanziamenti e solo i rappresentanti canadesi si sono esposti sul piano finanziario dichiarando il proprio Paese disponibile a incrementare il proprio contributo in caso di assenza di quello statunitense. Il rischio è concreto anche su più ampia scala, dato che i tagli previsti dall’amministrazione coinvolgono anche i contributi al budget generale delle Nazioni Unite (gli Stati Uniti coprono il 22 percento delle spese ONU, escluse le attività di peacekeeping). Le scelte di Trump non possono che rimanere sotto stretta osservazione per le ripercussioni che potrebbero avere sia sugli strumenti di azione globale nella lotta ai cambiamenti climatici sia sul sistema di cooperazione internazionale nel suo complesso.