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Considerazioni e divagazioni sul correttivo al codice degli appalti e il project financing

di - 14 Giugno 2017
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Il patrimonio pubblico si divide sostanzialmente in tre categorie: quello disponibile, cioè quello per cui non c’è in sostanza nessun impedimento alla sua cessione in vendita o in affitto, quello indisponibile, cioè quello che è nel pieno utilizzo della P.A. e quello demaniale, ovvero quello che costituisce patrimonio inalienabile dello Stato, delle Regioni, delle province e dei Comuni, comprese coste, spiagge, strade, ecc.
I responsabili di questo patrimonio costituiscono un minestrone straordinariamente variegato che va dall’Agenzia del Demanio (cui compete, per esempio, anche la responsabilità di edifici sdemanializzati, come carceri dismesse o immobili di competenza della Difesa che non assolvono più allo scopo originario), alla Cassa Depositi e Prestiti, la quale ha ricevuto moltissimi immobili in dote da Fintecna, dalle partecipate pubbliche (vedi EUR SpA), fino agli enti locali, senza contare enti di diritto pubblico, come le IPAB, dove si consumano turpitudini irriferibili sui loro enormi patrimoni immobiliari e gli Istituti Autonomi Case Popolari (ora regionalizzati come le ASL).
La stragrande maggioranza di questo patrimonio: a) versa in uno stato di degrado vergognoso, b) è iscritto al bilancio dell’ente cui compete a valori che matematicamente non corrispondono al valore effettivo di mercato (che, en passant, ma è bene dirlo, spesso è sotto lo zero perché gli immobili, a causa della loro nascita super partes, sono spesso sprovvisti di legittimità urbanistica ed edilizia), c) è improduttivo in quanto gestito allegramente con percentuali di mancata riscossione dei canoni che fanno spavento.
Ma, la cosa più raccapricciante è che, nell’era digitale dove anche il Comune di 300 anime ha ormai un sito web in cui campeggia pomposa la sezione “amministrazione trasparente”, di questo oceano di immobili non esiste una vera anagrafe coordinata e razionalizzata, che sia in grado di riferire “univocamente” lo stato di consistenza, i titoli abilitativi, la conformità urbanistica, il vero valore di mercato, eccetera.
Come è pensabile, in una situazione come questa, di voler efficacemente inserire in una legge fondamentale dello Stato, quale è il Codice degli Appalti, una indicazione, teoricamente sacrosanta, che equipara gli immobili alla valuta corrente come contropartita economica per la realizzazione di opere pubbliche, senza che si sappia di che cosa realmente si sta parlando, cioè di quale è il valore di mercato di questo patrimonio?
Infatti, da quando è stata introdotta, questa opzione non ha mai funzionato, o quantomeno non ha mai determinato una vera leva sistematica di svolta nel regime delle concessioni. Gli immobili che, raramente, vengono messi nel pacchetto di una operazione legata alla realizzazione di opere pubbliche sono immancabilmente inappetibili per l’operatore perché degradati, costosi da valorizzare, spesso privi dei documenti minimi per la conformità urbanistica, in una parola, dei bidoni, tant’è vero che l’Art. 191 al comma 2, non senza far pensare vagamente alla coda di paglia, parla di immobili la cui dismissione sia già stata programmata e i precedenti tentativi di vendita siano andati deserti.
Il tutto perché? Perché come la maggioranza delle cose pubbliche in Italia, non si è “fatto sistema”. E perché non si è fatto sistema? Ma è semplice, perché fare sistema significa scompaginare il meccanismo capillare dei piccoli interessi polverizzati su tutto il territorio, meccanismo alimentato dalla incomunicabilità dello Stato con le Regioni e tutti gli altri enti locali.
L’occasione sarebbe d’oro, perché prenderebbe due piccioni con una fava: da un lato consentirebbe l’avvio di una vera e non farsesca valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico disponibile, dall’altro costituirebbe una interessantissima leva per supportare lo sviluppo di quelle opere che solo in parte possono conseguire l’equilibrio economico-finanziario con la gestione e l’apporto di capitale privato.
Il Correttivo, che, rimettendo le mani al tutto, avrebbe potuto essere un’ottima occasione per non dico stravolgere, ma perlomeno cercare di incanalare meglio questa tematica, cosa ci recita sul tema degli immobili pubblici in conto prezzo? Vediamo:

  • 165, comma 2, nessun riferimento;
  • 180, comma 6, nessun riferimento;
  • 191, e qui finalmente qualcosa troviamo: di particolare interesse è l’inserimento del comma 2-bis che recita: “il valore dei beni immobili da trasferire a seguito della procedura di gara è stabilito dal RUP sulla base del valore di mercato determinato tramite i competenti uffici titolari dei beni immobili oggetto di trasferimento”. Tradotto: finalmente qualcuno si è accorto dal 2002 a oggi che la questione del valore ha una qualche importanza nel momento in cui si pone un immobile come possibile contropartita economica. Il problema è, tanto per dire, che il comma parla di “valore di mercato”. Su quale base “gli uffici competenti” stabiliscono il valore di mercato e, ancora più curioso, come la mettiamo col valore di libro a cui è sicuramente iscritto il cespite, soprattutto se si tratta di una pubblica amministrazione, che immancabilmente non coinciderà mai col “presunto” valore di mercato? Forse che il RUP è legittimato a sconfessare quello che c’è scritto in bilancio? Ecco, basterebbe un dettaglio del genere per mettere in evidenza la superficialità con cui vengono affrontati temi importanti e il motivo per cui poi il meccanismo non si mette in moto.

Il tema della valorizzazione del patrimonio pubblico, in ogni caso, è di una vastità tale che meriterebbe una trattazione a parte.
Siccome però io sono un fervido assertore della massima: “se non porti una soluzione fai parte del problema”, ecco che provo ad avanzare una proposta, che poi in realtà non è neanche tanto originale, perché se ne parla perlomeno da 20 anni: così come c’è una banca del sangue, una degli organi per i trapianti e altre di importanza basilare per la perpetuazione della specie, un’idea potrebbe essere quella di creare una “banca dell’immobile pubblico”, intendendo per “banca” principalmente un sistema informatico accessibile a tutta la P.A. ed agli operatori privati accreditati che costituisca quella famosa “anagrafe” da costruire progressivamente e di cui ce ne è un bisogno estremo.
Questo strumento si chiamerebbe “banca” perché in effetti dovrebbe contenere il concetto di mutualità e circolarità non solo delle informazioni, ma anche dei cespiti stessi: un operatore che è potenzialmente interessato a fare degli investimenti pubblici a Siracusa, potrebbe trovare di interesse l’acquisizione e la valorizzazione di un immobile ad Aosta. La proposta rasenta l’utopia se non la follia, me ne rendo conto, per tutta una serie di motivi che però potrebbero essere mitigati se solo si cominciasse a contrarre la frammentazione degli organismi di potere che si nascondono dietro l’ipocrisia della presunta democrazia e del principio di autodeterminazione dei territori, asserzione demagogica che in 40 anni ha portato allo sfacelo la nostra finanza pubblica (qualcuno prima o poi mi dovrà spiegare, per esempio, perché scendendo le scale mobili dell’aeroporto di Dubai io mi debba trovare davanti un cartellone che mi magnifica le bellezze del Molise e non quelle dell’Italia, come se a Dubai, dove a stento sanno dov’è l’Italia, fosse scontato sapere dove sono il Molise o la Val d’Aosta).

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