Considerazioni e divagazioni sul correttivo al codice degli appalti e il project financing
1. Premessa
Se lo stimato barone Charles Louis de Secondat, in arte Montesquieu, fosse vissuto oggi ed avesse scritto le “Lettere Persiane” nel primo ventennio del terzo millennio, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di descrivere con stupore nel suo acuto epistolario uno strano paese ai cui abitanti la ricchezza fa ribrezzo.
Ovviamente in questo paese altrettanto ribrezzo vi fanno le azioni e le idee che portano alla creazione di ricchezza, non solo quella individuale, ma quella diffusa, per tutta la popolazione la quale invece mette regolarmente alla porta, a volte pure in malo modo, le persone che anche dall’estero verrebbero volentieri ad investire le loro cospicue risorse non solo finanziarie, ma anche intellettuali, e che invece vengono accolte a braccia aperte in altre contrade dove trovano tempi rapidi, cortesia, disponibilità.
Sì, perché solo con questa curiosa sindrome si spiega il fatto che la popolazione di questo paese lascia che ad arricchirsi siano quei pochi che invece, sagacemente, hanno capito che ai loro concittadini la materia della creazione del valore provoca l’orticaria, tanto che, attraverso i loro delegati pubblici, che appartengano al potere legislativo o a quello esecutivo ha poca importanza (il giudiziario ha una storia a parte, ma ha le sue belle responsabilità), continuano tranquillamente a strutturare il loro complesso e spesso indecifrabile sistema di codici, decreti e leggi in modo tale che sembra fatto apposta per deprimere la crescita economica, quando invece è un Paese che potrebbe campare in serena dignità anche nei momenti in cui gli altri paesi annaspano nelle bufere congiunturali.
Eh sì, perché questo strano paese è tutt’altro che l’Eldorado, il mitico paese descritto in “Candide” da quell’altro birichino illuminista, Voltaire, dove la ricchezza è talmente abbondante ed alla portata di tutti che la popolazione non si cura se un forestiero si porta via muli e montoni carichi d’oro e di altre preziosità.
Questo, viceversa, è un Paese in cui i delegati di cui sopra, con il beneplacito di tutta la popolazione s’intende, perché tutti bene o male un po’ di beneficio ne hanno tratto e continuano a pensare di trarne, altrimenti qualcosa farebbero, negli ultimi 40 anni hanno fatto sì che, col debito accumulato, venisse eroso in maniera forse irreversibile non tanto il valore creato annualmente dal sistema economico, quanto il “patrimonio”, cioè quella cosa che dovrebbe essere granitica e non intaccabile, semmai da incrementare, in quanto destinata alle generazioni future.
In quanto alle povere generazioni future, se oggi, in questo preciso istante, in virtù di una bizzarra quanto improbabile inversione delle correnti neuroniche di tutta la popolazione di questo strano Paese, il corso degli eventi e delle scelte si indirizzasse verso la creazione di ricchezza, forse non ne basterebbero quattro per ridurre il debito e ricostituire il patrimonio destinato, a sua volta, alle ulteriori generazioni a venire.
In un immaginario scenario fantascientifico in cui sia possibile viaggiare avanti e indietro nel tempo, le guerre future non saranno più tra popolazioni di un paese e quelle di un altro, ma tra varie generazioni, in cui le generazioni future muoveranno una guerra spietata a quelle precedenti, per punirle di averle messe in brache di tela con la loro sciagurata incapacità di governare in modo saggio e gestire il patrimonio, sia quello naturale che quello artificiale.
Attenzione, onde evitare equivoci, bisogna chiarire subito che in questa sede per ricchezza si intende il frutto generato dal valore. Sì, perché oggi non è poi così scontato che questo concetto sia chiaro e questo ha fatto molto gioco a quei pochi che sono riusciti ad accumulare ricchezze sull’ignavia dei molti.
Ormai, nella disperata rincorsa alla liquidità, si è persa di vista la sottile (si fa per dire) differenza tra plusvalenza e valore aggiunto. In altre parole il modo con cui si consegue la liquidità non ha più molta rilevanza e tutto ciò, ovviamente, a discapito della costruzione del valore, cioè dell’economia e quindi del patrimonio, a cominciare da quello pubblico. La plusvalenza, viceversa, molto più facile e rapida da conseguire per quei pochi che lo sanno fare, è una partita di giro, che passa di mano in mano a seconda dell’audacia, dell’abilità e della spregiudicatezza dei giocatori al tavolo verde.
Un bel mosaico sinottico di questa situazione, che, se qualcuno si mettesse seriamente a descriverlo, renderebbe un gran servizio agli abitanti di questo Paese, è il Bilancio dello Stato.
Non il Bilancio di questo o di quell’anno però, ma una visione complessiva dell’andamento del Bilancio diciamo più o meno dal 1980 in poi. Non bisogna essere dei Nobel in economia per capire che, al netto delle sottigliezze finanziarie destinate ai sacerdoti del tempio e da essi solo intellegibili, il bilancio di uno Stato è quasi elementare: da un lato ci sono le entrate che, grosso modo, coincidono con gli introiti delle tasse e delle imposte e dall’altro c’è la spesa. La spesa, a sua volta, si compone di due partite fondamentali, quella corrente e quella in conto capitale.
E qui casca l’asino.
La spesa in conto capitale dovrebbe servire per realizzare gli investimenti pubblici, per esempio le infrastrutture, cioè mantenere, ammodernare e incrementare il “patrimonio”. La spesa corrente serve principalmente per remunerare l’apparato amministrativo, insomma, grossolanamente, per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.
Da un certo momento a questa parte, diciamo verso i primi anni ’80, la spesa corrente ha cominciato ad essere utilizzata, prima surrettiziamente, poi in modo sempre più sfacciato, per andare a coprire anche il debito pubblico, perlomeno gli interessi (se qualcuno cominciasse a chiedere indietro il capitale comincerebbero i guai seri).
Una notazione interessante: l’emissione di titoli obbligazionari da parte dello Stato fino ad un certo momento, se non mi sbaglio fino a metà degli anni ’70, era consentita per legge solo in conseguenza di eventi eccezionali, tipo calamità, catastrofi, ecc. per consentire di drenare disponibilità per fare fronte a tali eventi. Da un certo momento in poi, invece, il ricorso al debito cominciò ad essere utilizzato in modo molto più disinvolto per coprire i flussi sempre più incontrollati della spesa corrente, un po’ per l’ipertrofia e l’inefficienza dell’apparato pubblico, ma eternamente ambitissimo bacino di voti per la politica, un po’ per gli interessi montanti del debito, insomma, il cane che si mangia la coda. È interessante ricordare che si era in tempi in cui i tassi di interesse e l’inflazione correvano su valori a 2 cifre e per un periodo oltre il 20%, per cui, se da un lato era molto oneroso ripagare un debito, dall’altro investire in titoli di Stato dava grandi soddisfazioni, per cui la popolazione italiana, notoriamente formichina, taceva e riscuoteva laute cedole.
Però, a poco a poco, i costi della politica, dell’apparato e, mettiamocelo senza nasconderci dietro un dito, l’avvento pernicioso delle Regioni (quelle con la R maiuscola, quelle con la r minuscola fanno e faranno sempre parte della storia millenaria di questo Paese) a partire dal ’74, che hanno costituito e costituiscono il peggiore buco nero ed emblema di inutilità ed inefficienza della storia d’Italia dal 21 aprile del 753 A.C., continuando a gonfiarsi senza limiti, costrinsero i “governanti” a trovare soluzioni che gli consentissero di raschiare il secchio. E quale invenzione migliore di quella di cominciare a contrarre la spesa in conto capitale per spostarla sulla parte corrente?