Riflessioni sul rischio dell’insorgenza del procedimento penale nei confronti dell’amministratore pubblico

Affrontare il tema del rallentamento, o ancor peggio del rischio di paralisi, dell’azione amministrativa, in ragione delle possibili ricadute di essa in ambito penale, ritengo meriti anzitutto una duplice partizione metodologica, che consenta di correttamente individuare il potenziale target di intervento normativo[1].
Anzitutto, anche se forse superfluo, appare doveroso escludere, dal novero della presente analisi, le forme patologiche di condizionamento criminale dell’azione amministrativa, come quelle genericamente ascrivibili ai fenomeni corruttivi, o comunque a forme illecite di arricchimento privato del pubblico funzionario nell’esercizio dell’azione amministrativa. In tale ambito, il rigore dell’azione repressiva è doveroso, proprio a garanzia di tutela collettiva dell’attività della pubblica amministrazione.
Il contesto più critico, invece, rispetto al quale la linea di confine tra azione amministrativa non iure e condotta penalmente illecita si fa più sottile e frastagliato – con conseguente rischio d’inciampo nelle maglie del procedimento penale – è certamente quello che attiene al reato di abuso d’ufficio.
E qui può essere posta la seconda partizione metodologica, nel senso di differenziare il piano sostanziale della responsabilità penale, da quello procedimentale nel coinvolgimento delle indagini: e questo perché, come sarà analizzato nel prosieguo, il contesto nel quale può valere la pena, per ragioni sia di praticabilità che di strategia, intervenire, è il secondo e non il primo.
Rispetto al piano sostanziale della responsabilità penale, infatti, vanno ricordati gli sforzi compiuti dal legislatore, prima nel 1990 e poi nel 1997, per ridefinire un contenuto precettivo tassativo del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), che com’è noto prevede un’incriminazione sussidiaria delle condotte “che non costituiscono un più grave reato”.
Oggi la condotta del reato di abuso d’ufficio e l’evento di esso sono effettivamente sufficientemente tipizzati. È pretesa la violazione di legge o di regolamento, ovvero l’omessa astensione in caso di conflitto d’interessi, nello svolgimento delle funzioni e del servizio. È pretesa la realizzazione di un evento, di profitto o di danno, caratterizzato da profili d’ingiustizia.
Con la conseguenza che, per potersi configurare il reato, sul piano oggettivo, è necessaria la compresenza della cd. doppia ingiustizia, sia della condotta – la violazione di legge e assimilati – sia dell’evento di vantaggio o di danno, che non deve spettare in base al diritto oggettivo regolante la materia. Doppia ingiustizia che, ad essere rigorosi – come effettivamente è la giurisprudenza di legittimità –, non può essere né desunta, né presunta, dalla sola utilizzazione di un mezzo ingiusto per perseguirla, ma deve essere accertata in concreto come requisito ulteriore, rispetto alla condotta contra ius.
E tutto ciò sostenuto da un elemento psicologico particolarmente penetrante, vale a dire quel dolo intenzionale, che deve riguardare la deliberata volontà del pubblico ufficiale di agire contra legem per procurare un vantaggio o causare un danno ingiusto; con la conseguenza che, ad esempio, il comportamento illegittimo del pubblico ufficiale, che persegua comunque una finalità pubblicistica quale ratio della propria azione, determina l’esclusione del dolo intenzionale e di conseguenza il reato.
La norma attualmente in vigore, testé brevemente analizzata, era stata voluta dal legislatore per perseguire una serie molteplici di scopi, quali (a) arricchire la precisione del fatto di reato, delineando in maniera più netta e oggettiva i comportamenti punibili, prima descritti con la connotazione generica di “abusa del suo ufficio”; (b) circoscrivere l’ambito della punibilità, prevedendo un evento consumativo del reato, che ha trasformato il modello di incriminazione da reato a dolo specifico, a reato di evento sul piano degli effetti patrimoniali della condotta; (c) evitare il più possibile la penetrazione dell’Autorità giudiziaria penale in settori riservati istituzionalmente all’attività discrezionale della pubblica amministrazione, la cui eventuale illegittimità doveva rimanere emendabile o comunque sanzionabile all’interno dell’ambito amministrativo, eventualmente giurisdizionale e contabile.

Ritengo che, alla prova dei fatti, la novella normativa del 1997 i primi due scopi li ha raggiunti; mentre il terzo non risulta concretamente perseguito.
E questo perché tale realtà normativa, apparentemente ben congegnata, si confronta con due dati storici di carattere socio-giudiziario, che sono assolutamente dominanti nel nostro tempo.
Il primo, di carattere generale, che vale per il cittadino comune, come per il pubblico ufficiale, è quello per il quale il primo, vero, autentico e a volte unico pregiudizio, che lo può scalfire in sede giudiziaria, non è quello che gli deriva dal subire una condanna irrevocabile, ma è quello che deriva dalla pendenza del procedimento penale, anche solo in fase d’indagini, allorquando, dovendo il P.M. compiere un atto investigativo con la presenza del difensore dell’indagato (da una perquisizione, a un interrogatorio), il procedimento penale diventa di pubblico dominio e oggetto di attenzione dei mezzi informativi.
Il danno reputazionale, d’immagine, di carriera, spesso si consolida in questa fase, irreversibilmente, purtroppo indipendentemente dagli sviluppi successivi eventualmente liberatori del procedimento stesso.
Il secondo, facente più specifico riferimento all’azione amministrativa, è quello che deriva dall’esistenza di una prassi degli uffici giudiziari – certamente lecita da un punto di vista normativo – di considerare notizia di reato di abuso d’ufficio, che legittima l’iscrizione del procedimento penale e determina il dovere in capo al P.M. di mettere in movimento i meccanismi della macchina investigativa, qualsiasi conclamata condotta di violazione di legge e assimilati, rimettendo al prosieguo delle indagini, o purtroppo molto spesso finanche alla celebrazione del processo, la verifica se tale violazione di legge abbia determinato altresì la seconda ingiustizia del profitto o del danno, con azione intenzionale da parte del pubblico ufficiale.
L’effetto della commistione tra i due dati storici appena richiamati è, purtroppo, in danno dei cittadini comuni e del loro bisogno di azione amministrativa efficiente, la paralisi di quest’ultima.
Il rischio dell’azione amministrativa in violazione di legge è infatti oggettivamente fisiologico per il pubblico funzionario, costretto quotidianamente a scelte difficili, di composizione di interessi ed obblighi a volte contrapposti e inconciliabili. Se questo rischio fisiologico attiva sistematicamente la patologia del procedimento penale, con le conseguenze, per chi lo subisce, che ho poc’anzi ricordato, l’effetto concreto è quello della paralisi dell’azione amministrativa, che preferisce comprensibilmente la strada dell’astensione.

Si pensi, a mero titolo di esempio, al dirigente di un ente locale che attivi a mezzo avviso pubblico, in esecuzione di una delibera di giunta in tal senso, la procedura amministrativa di assegnazione di lavori retribuiti, socialmente utili, occasionali e accessori, per varie categorie di soggetti, dai pensionati, agli studenti, ai disoccupati.
Nonostante siano previsti requisiti e punteggi per la partecipazione all’assegnazione dei servizi da espletare, il responsabile del servizio prescelto ha, da bando, la titolarità di procedere all’affidamento della prestazione e di assegnare il lavoro a suo insindacabile giudizio.
Su tale atto, obiettivamente poco prudente sul fronte della garanzia d’imparzialità e buon andamento della P.A., viene decisa l’assegnazione di un determinato servizio e non altri comunque meritevoli d’intervento, a una determinata persona e non ad altri comunque meritevoli di assegnazione.
Una fattispecie come quella appena descritta genera certamente un’indagine prima, e l’esercizio dell’azione penale poi, per abuso d’ufficio, in ragione della sussistenza di una violazione di legge, consistente nel non rispetto dei doveri d’imparzialità della P.A., oltreché del secondo profilo d’ingiustizia, relativo al profitto per l’assegnatario dei lavori.
Per converso, tali indagini e tale esercizio dell’azione penale sono certamente destinate ad un nulla di fatto, sul piano dell’accertamento della responsabilità del pubblico funzionario, perché la sua azione, molto probabilmente illegittima, non implica in automatico la sua illiceità. L’ingiustizia della condotta, infatti, non implica l’automatica ingiustizia del compenso attribuito al beneficiario, né tantomeno – e a maggior ragione – l’intenzionalità dell’azione illegittima, perché comunque posta in essere, rispetto all’indirizzo tracciato dall’organo politico, per perseguire uno scopo di natura pubblicistica.
Ma l’effetto concreto di fattispecie come queste, pur destinate ad un epilogo liberatorio, è certamente quello di paralizzare, a futura memoria, l’azione amministrativa; e questo perché l’asserita illegittimità di essa non viene “curata” in seno all’amministrazione e/o alla giurisdizione amministrativa, bensì viene acquisita alla valutazione dell’Autorità giudiziaria penale.
Non rileva, a prevenire questo effetto collaterale da contrastare, il certo epilogo liberatorio poc’anzi accennato; perché, come già anticipato, è la stessa pendenza delle indagini che produce e procura una sequenza di effetti negativi, sul piano personale, professionale e patrimoniale, notoriamente irreparabili anche per effetto della successiva sentenza di assoluzione.

Ecco che, dunque, l’ambito d’intervento riformatore dev’essere finalizzato a superare questa impasse, vale a dire a rendere meno casuale e diffuso, in relazione ad azione amministrative illegittime, ma non necessariamente illecite, il rischio stesso del procedimento penale, il rischio delle indagini; e tutto ciò ferma restando l’obbligatorietà dell’attività inquirente, e poi dell’azione penale, rispetto a condotte penalmente tipiche.
Affrontare la questione, pensando ad un ulteriore intervento sul piano sostanziale, appare percorso poco praticabile.
Ferma restando l’opportunità di rivedere il perimetro di tipicità legale di talune fattispecie che mostrano obiettivamente taluni profili di criticità applicativa[2], l’idea di riscrivere con connotazione ancor più stringente l’ipotesi criminosa sin qui analizzata non sembra opportuna; perché lo sforzo del legislatore, di rendere tassativo e residuale lo spazio di rilevanza penale dell’azione amministrativa illegittima, non sembra ulteriormente incrementabile.
E poi, se il problema non è quello di evitare il pregiudizio della condanna, ma quello di evitare il pregiudizio certo e irreparabile delle indagini e del giudizio, stringere ulteriormente lo spazio applicativo della norma non comporterebbe in alcun modo una limitazione degli accertamenti investigativi, che potrebbero rimanere inalterati, poiché indotti dalla valutazione, inalterata, della sussistenza comunque della notizia di reato, per il fatto dell’azione amministrativa illegittima.

Ragionare in termini innovatori in ambito processuale, per converso, appare fattibile, nella direzione dell’individuazione di taluni criteri di merito, che risultino capaci di rendere più rigorosa, sul piano della previa analisi della sussistenza di tutti i presupposti della notizia di reato stessa, ciò che oggi è considerato atto dovuto e discrezionale per il P.M., vale a dire l’iniziativa dell’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro, con la conseguente apertura della fase delle indagini preliminari.
Infatti, l’iscrizione a carico di taluno della notizia di reato – con il conseguente obbligo di svolgere le indagini – si presta, in relazione all’abuso d’ufficio, seppur inconsapevolmente, alla distorsione di poter considerare notizia di reato, meritevole di approfondimento investigativo, qualsiasi illegittimità dell’azione amministrativa: perché l’ingiustizia della condotta è considerata indizio univoco dell’ingiustizia del risultato che procura; perché l’intenzionalità soggettiva di tale risultato ingiusto si ritiene debba essere successivamente accertata dalle indagini, o ancor peggio, come spesso accade, dal processo.

L’idea di fissare normativamente degli obblighi più stringenti, per il P.M., nel valutare, sin dal momento dell’iscrizione della notizia di reato, la sussistenza di essa, come connotata dal quid pluris oggettivo e soggettivo, rappresentato dall’ingiustizia del risultato e dall’intenzionalità di esso, rispetto all’azione amministrativa illegittima, invece, ritengo possa essere approfondita.

Com’è noto presso le Procure della Repubblica esiste il registro delle notizie di reato, denominato mod. 21, la cui sola iscrizione obbliga il P.M. al compimento delle indagini e poi alla risoluzione della richiesta di archiviazione o dell’esercizio dell’azione penale.
Ma esiste anche il mod. 45, nel quale vanno iscritti i fatti non costituenti notizia di reato, vale a dire le cd. pseudo notizie di reato; esse generano iscrizioni rispetto alle quali la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che il procedimento iscritto in tale registro, se non assume la natura di notizia di reato, è destinato a transitare in archivio per diretta decisione del P.M., senza necessità di passare per la decisione di un giudice[3].

In relazione all’abuso d’ufficio potrebbe essere introdotto un vincolo, per il P.M., che lo responsabilizzasse, al momento dell’iscrizione della notizia di reato, nel motivare la sussistenza di essa, in termini di notizia naturalmente, non solo in relazione all’illegalità dell’azione amministrativa, ma anche con una specifica valutazione sulla presenza dell’ingiustizia dell’evento e sull’intenzionalità di esso.
Questo vincolo, prodotto di un accertamento e di una valutazione preliminare sulla tipologia di azione amministrativa attenzionata e dei risultati concretamente prodotti da essa, penso potrebbe produrre l’effetto virtuoso di escludere in radice l’illiceità penale di comportamenti amministrativi che, seppur non iure, non avvantaggiano o danneggiano nessuno intenzionalmente e in modo ingiusto, evitando così inutili approfondimenti investigativi, o addirittura processuali, finalizzati a chiarire ciò che poteva essere apprezzato sin da subito.
Si potrebbe obiettare che, quantomeno rispetto alla ricostruzione del dolo intenzionale dell’azione amministrativa illegittima, proprio le indagini preliminari sono il contesto nel quale il medesimo è destinato ad essere ricostruito.
Il rilievo è in parte corretto; lo è solo in parte, perché la verifica pre-investigativa, nell’ambito del procedimento amministrativo oggetto di attenzione, della sussistenza della notitia criminis anche in relazione all’ingiustizia dell’evento, oltreché dell’azione amministrativa, ridurrebbe comunque in modo significativo la dilatazione delle notizie di reato in materia. E comunque non può certo escludersi come un’analisi attenta, dello svolgersi del procedimento amministrativo illegittimo, sia in grado di rivelare, di per sé, la mancanza di qualsiasi intenzionalità dolosa nel voler avvantaggiare o danneggiare chicchessia.
Mi rendo conto che imporre una motivazione – oggi non prevista – all’iscrizione della notizia di reato sarebbe una novità rilevante, per certi versi clamorosa, rispetto ad un ordinamento processuale che all’art. 109 disp. att. c.p.p. descrive l’adempimento dell’iscrizione, in capo al P.M., come un passaggio meramente burocratico; burocratico ma eventuale, afferma la norma. E allora non ci sarebbe nulla di trascendente nell’indicare al P.M. di dover rendere ragione dei motivi dell’eventualità o meno della sua scelta; le prerogative ordinamentali del P.M. non sarebbero affatto pregiudicate. Sarebbe, a ben vedere, un modo per dare contenuto concreto, e non relegare a mera petizione di principio, quell’indicazione del diritto vivente secondo la quale solo la notizia di reato obbliga, senza libertà di azione, all’iscrizione di essa[4].

Quanto, poi, al tema della possibilità che un fatto, originariamente valutato come non costituente notizia di reato, si trasformi in notizia di reato, per effetto di determinate acquisizioni non necessariamente investigative, questa non sarebbe certo una novità “clamorosa”, essendo già prevista per determinati fenomeni “sensibili” dello svolgersi dell’ordinamento.
Ad esempio, la trasmissione all’ufficio della Procura della Repubblica da parte del Tribunale di una sentenza dichiarativa di fallimento (che costituisce adempimento imposto dalla legge) viene annotata proprio nel registro degli atti non costituenti notizia di reato; ove, poi, dalla lettura della relazione del curatore fallimentare nel frattempo richiesta (che non costituisce attività di indagine preliminare), il P.M. ritenga di ravvisare una ipotesi di reato, verrà disposta l’iscrizione nel registro delle notizie di reato.
La stessa cosa si potrebbe fare in relazione all’azione amministrativa illegittima, che potrebbe essere considerata non costituente notizia di reato, con la previsione di una previa acquisizione e vaglio preliminare degli atti del procedimento amministrativo sottostante, per apprezzarne ragioni e sviluppo, cui far seguire l’eventuale decisione di valutare tale azione come notizia di reato ex art. 323 c.p., come sorretta da idonea motivazione circa la sussistenza, in termini di notizia, di tutti gli elementi costitutivi del reato ipotizzato.
Attraverso questa strada potrebbe ridursi lo spazio delle notizie di reato in relazione all’azione della pubblica amministrazione; tale riduzione limiterebbe il pregiudizio individuale della qualità d’indagato, circoscriverebbe lo spazio per le informazioni di garanzia in materia: che, com’è purtroppo noto, continuano a portare un nome che ne ricorda l’origine, ma non ne copre la realtà fattuale di marchio pubblico di sospetto collettivo.
E l’illegittimità penalmente lecita dell’azione amministrativa rimarrebbe confinata nel suo alveo fisiologico di soluzione, che non è il procedimento penale, consentendo all’azione stessa di non subire quei meccanismi inibitori, oggettivamente dannosi, notoriamente prodotti dalla pendenza di un’indagine.

Note

1.  Intervento nell’ambito del Seminario “Responsabilità contabile e penale dei pubblici amministratori” organizzato da ItaliaDecide Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani Roma, giovedì 13 aprile 2017

2.  Il riferimento è al delitto di traffico d’influenze illecite di cui all’art. 346 bis c.p., introdotto dalla l. 06/11/2012, n. 190.

3.  2 Essendo legittimo il potere di cestinazione del p.m., non è necessaria la richiesta di archiviazione relativamente ad atti non costituenti notizia di reato (Cassazione penale, sez. un., 22/11/2000, n. 34).

4.  3 In tema di iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., il p.m., non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato, è tenuto a provvedere alla iscrizione della “notitia criminis” senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo (Cassazione penale, sez. un., 24/09/2009, n. 40538).