Imposta come home page     Aggiungi ai preferiti

 

Imprevedibilità delle conseguenze dell’urbanistica negoziale: l’urbanistica italiana tra mancato rispetto del principio di concorrenza e rischio di procedure di infrazione per aiuti di Stato

di - 4 Maggio 2017
      Stampa Stampa      

Difficile rispondere. In astratto si potrebbe sostenere che le eventuali restrizioni al mercato determinate da piani urbanistici che riducessero al limite a zero l’offerta di terreni edificabili avrebbero da un lato l’effetto di far aumentare i prezzi dei terreni edificabili già sul mercato, con conseguenze evidenti per gli acquirenti e in generale di chi domanda i terreni per svolgere attività economiche, dall’altra quella di far convergere l’azione dei trasformatori solo sull’esistente. In generale sulla città, consolidata e in via di consolidamento. Quindi una «guerra» tra trasformatori: costruttori, developers, ecc., che potrebbero essere identificati come le imprese in concorrenza tra loro.
Nel caso si massima restrizione nell’offerta di suoli si determinerebbe con buona possibilità quel fenomeno che Isabelle Baraud Sarfaty[5] ha teorizzato come la fine della “città gratuita”: il meccanismo è piuttosto semplice. Quando si agisce solo sulla città esistente il costo delle operazioni, anche di rigenerazione urbana, è molto elevato.
Solo pochi sarebbero in grado di sostenerlo. Sia i produttori che gli acquirenti (anche in affitto) degli immobili. Tanto più che la trasformazione dovrebbe essere accompagnata da una elevata valorizzazione immobiliare, in specie della attività/funzioni ospitate: solo così si potrebbe poter disporre, ovviamente attraverso il prelievo fiscale, delle risorse capaci di finanziare comunque la città, nella parte pubblica; in genere quella dei servizi alla popolazione e delle infrastrutture di base. Appunto attraverso la tassazione di questi plusvalori. Densità più elevate di popolazione ed edilizie, sarebbero inevitabili.
E, soprattutto, nel caso di inerzia dei promotori o per difficoltà del mercato, strettamente connesse, si avrebbero possibili perdite di entrate per i comuni.
Quindi maggiori costi della città per gli utenti, non sufficientemente compensati dai risparmi pubblici, effetto delle maggiori economie di scala e di agglomerazione derivanti da densità insediative più elevate.
Questo scenario – considerazione a margine del nostro ragionamento sulla concorrenza in urbanistica – dovrebbe interrogare i tanti sostenitori entusiasti del cosiddetto «consumo zero» di suolo.

2. Il principio di concorrenza nella fase della citta’ che si ricostruisce su sé stessa
A queste considerazione si può obiettare – l’obiezione è quella classica – che con l’allocazione dei diritti di costruire di fatto si ripartiscono beni pubblici teoricamente indivisibili a fini di utilità pubblica. Quindi le questioni inerenti la concorrenza ed il mercato non sarebbero rilevanti nelle procedure di allocazione di questi beni, compreso il suolo, tanto più che questo bene è in larga misura di proprietà privata.
Tale posizione è ulteriormente esaltata dai sostenitori della transizione dai beni pubblici ai meno confinabili concettualmente ed operativamente «beni comuni». La letteratura in proposito è divenuta oramai strabordante.
Al contrario, la ripartizione di beni pubblici in nome del bene pubblico/collettivo, per di più operata da operatori pubblici detentori del potere di pianificazione, dovrebbe far cadere ogni possibilità di dubbio sulla bontà e fondatezza del ricorso all’uso positivo della concorrenza.
In realtà non è così e tutti ne sono consapevoli. Non si comprende perché di fronte a ciò non si possa cambiare il modo di allocare i diritti di costruire, esito finale della ripartizione di beni pubblici espliciti quale il suolo; ed impliciti, quali l’aria, l’acqua, ecc. Ragioni di tradizione e di pigrizia intellettuale? Ragioni di interesse, rappresentate nel «potere di piano»? Tutto ciò non si comprende più oggi che l’urbanistica è divenuta esplicito «scambio» tra il potere di piano e il potere di trasformazione reale del suolo sia da parte di operatori e privati che pubblici, che operano comunque con un atteggiamento orientato al mercato.
Probabilmente entrambe. Ma anche altre ragioni si intravedono e sono di carattere pratico: dall’architettura della pianificazione, alla formazione della domanda pubblica, alla sua declinazione nell’allocazione di diritti di costruire, nelle quali-quantità, nelle forme, nei modi e nei tempi di sfruttamento di questi, sino alle forme di redistribuzione dei plusvalori e della compensazione dei minus valori, cioè alla tassazione.

3. Il vulnus alla logica del piano urbanistico generale rappresentato dalle varianti urbanistiche: la messa in concorrenza come modalità per rilegittimarne la validità
Il problema della concorrenza, cioè del rispetto del principio, si fa ancora più acuto nel caso delle varianti agli strumenti di pianificazione. Ed è un problema di sempre, per tutte le tipologie di varianti, ad eccezione di quelle “generali”, in pratica veri e propri nuovi strumenti di pianificazione.
Il problema riguarda infatti sia il caso delle varianti di area o “puntuali” che quello delle varianti “di settore” che possono avere ad oggetto l’assetto viario, le attrezzature di servizio alla popolazione, settori funzionali (attività produttive varie), ecc.
E combinazioni di settori funzionali: la variante “a verde e servizi”, è un classico esempio.
Le varianti sono fisiologiche, per quanto una certa critica radicale tenda a demonizzarle. Di solito sono mal viste dal fondamentalismo urbanistico perché risponderebbero solo ad esigenze particolari di qualche portatore di interesse (contro l’interesse pubblico generale cristallizzato nel piano). Da parte dei critici “a prescindere”, infatti, si sottovaluta il problema che l’urbanistica opera sempre in regime di incertezza, come ogni disciplina che cerca di prefigurare il futuro. Anche il piano più conservativo – quello che prevede poca o nulla trasformazione di nuovi suoli -, avrebbe bisogno di «aggiustamenti» continui per poter rispondere al mutare continuo di esigenze e condizioni.
Come riportare quell’interesse particolare a quello più generale? Questo è il problema.
È a questo punto che entra, e può perfino aiutare a risolvere il problema, la questione della concorrenza.
È indubbio che la variante rappresenti un «vulnus» al principio della contemperazione contestuale e sincronica degli interessi identificato nel piano che si vuole o deve variare.
Pure nella fondata acquisizione che il piano è un atto unitario a contenuto diseguale. Con la variante si inficia l’aspetto della unitarietà, mentre si «flessibilizza», adattando il piano a nuove esigenze e condizioni, quello del contenuto/contenuti.
La variante urbanistica è di fatto la risposta alla variazione continua della domanda di città, data la impossibilità, stante l’attuale sistema di pianificazione, di realizzare davvero la cosiddetta «pianificazione continua» o «processuale».

Note

5.  Baraud – Sarfaty, La ville restera-t-elle gratutite?, Futuribles, n. 406/2015 pp. 5-20.

Pagine: 1 2 3 4


RICERCA

RICERCA AVANZATA


ApertaContrada.it Via Arenula, 29 – 00186 Roma – Tel: + 39 06 6990561 - Fax: +39 06 699191011 – Direttore Responsabile Filippo Satta - informativa privacy