In materia di partenariato pubblico privato

di Rita Caldarozzi e Luigi D’Ottavi

Relazione sull’incontro dell’Osservatorio dei contratti del 10.3.2017

In data 10 marzo 2017 si è svolto l’incontro in oggetto promosso da italiadecide, Aequa, Respubblica e ApertaContrada, al fine di condividere con gli stakeholders riflessioni sul tema del Partenariato Pubblico-Privato, così come delineato nel D.Lgs. n. 50/2016.
Il confronto ha visto coinvolti funzionari delle PP.AA. nonché operatori del settore economico-finanziario, rappresentanti di varie categorie giuridiche e liberi professionisti, a diverso titolo interessati ed ognuno attraverso la propria expertise, dando vista ad un contributo di ampio spettro al dibattito.
Ne è scaturito un momento di approfondimento molto costruttivo, che ha indagato il tema focalizzato, in tutte le sue variabili e potenzialità, inquadrandolo in chiavi prospettiche diverse, volte a privilegiare, di volta in volta, ora il profilo più strettamente economico-finanziario ora quello di valenza prettamente giuridico-amministrativa.
Roma Capitale ha evidenziato, nello specifico, la realtà di ente locale di prossimità tipico dell’“Amministrazione attiva”, chiamata a corrispondere alle esigenze della cittadinanza attraverso la tempestiva e su base continuativa erogazione di servizi sul territorio, con l’oggettiva difficoltà di risorse contingentate e fabbisogni decisamente elevati nell’attuale contesto storico.
Il confronto ha evidenziato una dicotomia/antinomia che da tempo permea la dialettica sulla contrattualistica pubblica nella fase di evidenza pubblica: il contrasto classico tra due accreditate e diametralmente opposte weltanschauung: la prima, orientata alla cultura del risultato ed a modelli imprenditoriali applicati anche alle stazioni appaltanti, ad un agere privatorum, connotato da flessibilità ed emancipato da schemi predefiniti e quella, più tradizionale ed ortodossa, ancorata al carattere “tipico” dell’atto e dell’attività amministrativa, al vincolo del procedimento, inteso come “binario canonizzato”, che vale a garantire la massima trasparenza, la finalizzazione del potere autoritativo allo scopo pubblico cui è preposto ed in definitiva l’esonero dal rischio di eccesso o sviamento di potere ovvero di subordinazione ad interessi privati [1].
In tale contesto non si è mancato di rilevare il rischio di un concetto di attività amministrativa disancorato dal procedimento, attraverso il quale si esprime anche il D.lgs. 50/16 e la deregolamentazione operata dalla c.d. soft law appaiono procedere in questo senso.
Va tuttavia evidenziato che tale diverso approccio, espressione di logiche più tipiche dei sistemi di common law, sconta – nel nostro attuale ordinamento – la mancanza di due fattori.
Un primo fattore è quello della “fiducia” nella P.A., nella sua capacità e volontà ferma di perseguire il pubblico interesse attraverso strumenti innovativi, anche quando la pongono in un rapporto diretto con le imprese ed il mercato. Ebbene, nell’attuale clima di sospetto generalizzato, è piuttosto ovvio che detta fiducia risulti svilita; dunque, a fronte della certezza che, prima o dopo, arrivi il momento del redde rationem, in ordine a scelte immaginate così “libere” e flessibili, nei confronti non solo di addetti ai lavori (id est, Procure, Autorità di vigilanza, d settore ecc.) ma di una platea generalizzata, notoriamente poco incline alla fiducia, è realistico attendersi una forte resistenza da parte della classe dirigenziale pubblica ed una energica istanza di procedimentalizzazione, che riconduca la discrezionalità entro limiti circoscritti e ben perimetrati, tracci l’iter da percorrere e consenta, a chi agisca entro i suddetti binari, una possibilità di difesa, altrimenti non agevole. Non bisogna dimenticare che la normativa vigente, anche su impulso prepotente del Diritto Comunitario, nell’ultimo decennio, ha guardato con netto sfavore all’ampio esercizio della discrezionalità, adoperandosi per ridimensionarla progressivamente, a tutto beneficio di un asserito speculare rafforzamento della tutela del privato; in questa direzione vanno tutte le modifiche intervenute sulla Legge principe del procedimento, la Legge n. 241/1990 (che ha visto pressoché azzerare la c.d. discrezionalità nel quando) ed il processo si è accentuato nelle politiche pubbliche degli ultimi anni, sotto la spinta della legislazione e della giurisprudenza comunitaria, da ultimo, con la recente legge n. 124/2015 (c.d. legge Madia): pensiamo all’accesso generalizzato, che ora affianca, con limiti ridottissimi, quello documentale e quello civico, in un’escalation di sistemi di controllo, sempre più diffusi, alla portata di chiunque (anche di chi non è ha adeguati strumenti di cognizione ed indagine diretta) . A fronte di tali evidenti manifestazioni di sfavore, quelle poche, residuali forme “buone” di discrezionalità, viste come tali e come tali invocate, per l’appunto, dalle nuove regole comunitarie in materia di contratti pubblici, restano pratiche destinate a rimanere inusitate, se non muta la comune percezione (prevalentemente) negativa della discrezionalità amministrativa, di cui sopra argomentato; lo stesso Nuovo Codice soffre di questa idiosincrasia, quando da una parte propugna il modello della flessibilità e dall’altra declina strumenti di “commissariamento indiretto” della P.A. (dalla commissione aggiudicatrice esterna, alla Raccomandazione volante dell’A.N.A.C., all’agevolazione normativa della progettazione esterna). Si invoca, dunque, un rinnovato apporto della scienza giuridica, affinché contribuisca, per quanto possibile, a ridurre l’incertezza e l’instabilità del quadro normativo, precondizione per lo sviluppo e la crescita economica cui sono finalizzate (con esiti sinora spesso deludenti) le politiche di liberalizzazione e semplificazione descritte.
L’altro fattore che presuppone la cultura del risultato e la filosofia della flessibilità ovvero della negoziazione per l’apprendimento (con approssimazione sempre più consapevole al miglior risultato, grazie anche al dialogo diretto con il mercato) è un elevato grado di professionalizzazione dell’Amministrazione, da conseguire come fattore endogeno o da acquisire tramite rapporti consulenziali (a mezzo cioè di advisors), nonché la possibilità di disporre di adeguate risorse (anche di tempo) per promuovere, seguire e valutare (con la competenza di cui sopra) le risultanze di best practice consultive (green papers). Ora, a fronte di tutto ciò, è spontaneo chiedersi se è plausibile credere che le realtà locali del nostro Paese, composto da oltre 8000 Comuni – costrette da vincoli di bilancio ed orizzonti temporali fortemente limtati, obbligati a tagliare sempre più la spesa pubblica, anche a discapito della qualità, e in sostanza indotte ad azzerare ogni forma di consulenza – possano mai, anche solo avvicinarsi ad un modello tanto ambizioso, come quello sotteso alla suddetta impostazione filosofica, abbracciata dal Nuovo Codice. Dunque, tale presupposta capacità di scelta, anche tecnica, delle stazioni appaltanti, allo stato, è fortemente indebolita, implicando consistenti investimenti in termini di risorse umane e materiali.

E purtroppo occorre aggiungere, per restare all’interno del focus su cui si è incentrata la seduta del 10 marzo dell’Osservatorio, ovverosia il Tema del Partenariato Pubblico/Privato, che è emerso esattamente come i vari Istituti contemplati dal Codice risultino, tutti, scarsamente procedimentalizzati e presuppongano l’esercizio di una discrezionalità e negoziazione ampia, che scontano le carenze sopra rappresentate e gravano il dirigente preposto di responsabilità difficilmente sostenibili ove non via sia un supporto adeguato, la possibilità d ricorrere a professionalità esterne, l’accettazione culturale di un rapporto e dialogo diretto con il mercato: tutte queste sono condizioni al momento inesistenti o presenti solo in nuce, per la maggior parte degli Enti aggiudicatori di prossimità.
In tale ottica il D.lgs. 50/16 e soprattutto il relativo acquis communautaire rischia di rimanere inapplicato senza la promozione di una diversa cultura alla base di tale approccio.
Allora, forse, è doverosa la presa d’atto che il D.lgs. 50/16, almeno per alcuni profili, appare fin troppo ambizioso, per il contesto storico-operativo degli Enti Locali, se non accompagnato da una giusta riflessione sulle modalità di negoziazione con il privato, anche in ambiti più specifici (riconducibili al partenariato P.P., nel senso più ampio del termine), parzialmente trascurati dal Codice, ma che risultano di più agevole e diffuso impiego.
Ci si riferisce, ad esempio, alla sponsorizzazione, che meriterebbe una disciplina più articolata, tale da promuovere lo sviluppo di uno strumento dalle potenzialità enormi, specie in contesti di pregio architettonico, archeologico e storico, di spiccato richiamo turistico; o ancora si pensa alle ipotesi di affidamento a scomputo delle opere di urbanizzazione, che rappresentano peraltro una sezione importante delle opere pubbliche di un Ente locale e a cui sono dedicate solo poche righe nel Nuovo Codice, lasciando aperti temi e problematiche fondamentali, quali l’annessione al regime della qualificazione delle Stazioni Appaltanti anche del costruttore/esecutore dell’opera a scomputo, l’alternativa ostica dell’avvalimento delle Centrali Uniche di committenza, che al momento non contemplano se non ridottissime categorie di lavori pubblici, per lo più molto standardizzati e sottosoglia (vedasi il MEPA) e che comunque non necessariamente hanno tempi compatibili con l’attuazione di strumenti urbanistici; e non manca la necessità di normalizzare anche il tema dei controlli su esecuzioni di tale rilievo, ove una Stazione Appaltante Privata spende soldi pubblici e non, in forza di obblighi ex lege, per realizzare opere pubbliche, su terreni pubblici, che entrano a far parte del patrimonio della pubblica Amministrazione stessa: tutto ciò meriterebbe forse una legge dedicata, l’ambita riforma della L. n. 1150/1942 od altro ma certamente è una di quelle tematiche importanti che resta aperta e non trova risposta nel Codice, come emerso dalla seduta dell’Osservatorio del 10 marzo in questione.
In tale contesto sarebbe utile che fosse affrontato, magari in sede di sviluppo di linee guida meno articolate sulla trama e con un’ottica al risultato, il tema della maggior flessibilità nello svolgimento delle attività procedimentali prodromiche agli affidamenti in partenariato, mediante l’utilizzo di forme di consultazione degli operatori economici che sappiano contemperare il rispetto dell’evidenza pubblica con la dinamicità dell’attuale contesto: si pensi, a titolo esemplificativo, alla possibilità di utilizzare strumenti di consultazione (es. green e white papers utilizzati in ambito comunitario), anche nelle analisi di mercato, se del caso attraverso il supporto guidato di una PPP unit e l’utilizzo di advisors di parte pubblica che siano in grado di validare la bontà delle scelte.
Del resto uno sviluppo della cultura della negoziazione all’interno delle forme di partenariato costituisce una sfida importante, come già avvertito dalla più accorta dottrina, in grado di avviare una transizione dagli accordi sostitutivi di provvedimento, ex art. 11 L. 241/90, a tipologie di intesa sostitutive di procedimento: un approccio senza dubbio sfidante che non può non passare per la revisione delle forme di responsabilità e controllo della dirigenza in chiave maggiormente ancorata al risultato delle scelte secondo un paradigma di efficienza. Si tratta, anche nel contesto amministrativo, del passaggio ad una “società liquida” in grado di garantire quella circolarità dell’azione amministrativa in linea con i tempi e disancorata dalla concezione esclusivamente “paternalistica” del potere autoritativo.

Note

1.  1 La contrapposizione è individuabile anche in una concezione comunitaria della tutela della concorrenza come corollario della normativa sui contratti pubblici a differenza di un approccio, tipico dell’ordinamento italiano, più contabilistico ed ancorato al procedimento in distinte fasi come espressione di corretta rendicontazione nell’utilizzo di risorse pubbliche.