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Produttività o occupazione? Un falso dilemma?*

di - 12 Dicembre 2016
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Deve, allora, supplire la domanda pubblica: maggiori spese statali, minori imposte, fino a portare il prodotto effettivo al livello del prodotto potenziale, che la produttività innalza. Idealmente andrebbero prevenute le recessioni…
Non si è riusciti, negli USA, a evitare la recessione del 2008-2009. Ma fra il 2007 e il 2010 in America la spesa pubblica è salita dal 37 al 43% del Pil. Le entrate di bilancio si sono ridotte dal 33 al 31% del Pil. Il disavanzo pubblico è quindi aumentato dal 4 al 12% del Pil. Contemporaneamente la banca centrale ha moltiplicato la base monetaria senza soluzione di continuità, abbattendo i tassi d’interesse sebbene il debito pubblico sia aumentato dal 64% del Pil nel 2007 al 95% nel 2010, al 108% nel 2016. Già nel 2010 la ripresa del Pil era trainata dalla domanda interna. La disoccupazione scendeva. La bilancia dei pagamenti di parte corrente restava in deficit.
Nell’Eurozona, invece, sebbene la recessione del 2008-2009 sia stata più profonda che negli USA – con il Pil caduto del 4,5%, rispetto al 3,1% negli USA – la politica fiscale espansiva è stata invece meno decisa e la politica monetaria espansiva meno continua. Fra il 2007 e il 2010 la spesa pubblica europea è passata dal 46 al 51% del Pil. Le entrate di bilancio sono rimaste invariate, sul 45% del Pil. Il disavanzo è salito dall’1 al 6% del Pil, meno che negli USA. Il Sistema Europeo delle Banche Centrali ha addirittura ridotto il passivo del suo bilancio – e quindi la base monetaria – di un terzo fra l’estate del 2012 e l’estate del 2014, mentre il debito pubblico passava dal 70% del Pil nel 2007 al 94% nel 2014, per scendere al 92% nel 2016. La ripresa della domanda interna era inferiore a quella del Pil. La disoccupazione saliva. Si dilatava l’avanzo della bilancia di parte corrente. L’area dell’euro cadeva di nuovo in recessione nel 2012-2013.
Il quesito di fondo riguarda l’Europa. Perché la politica della domanda europea è stata relativamente timida, in un contesto di deflazione, disoccupazione, attivo nei conti con l’estero?
Hanno influito le regole restrittive sul bilancio e sul debito pubblico, da Maastricht al fiscal compact. Ma ha ancor più influito il rigore che un paese – la Germania – ha applicato a se stesso e imposto ai partners europei.
A molti sfugge come per questa scelta la Germania, lungi dal lucrare vantaggi d’ordine economico, abbia pagato e paghi costi molto alti, su tre piani.                     – Dopo una flessione del 5,6% nel 2009, nel 2012-2016 il Pil tedesco è cresciuto in media annua dell’1,1%: meno del già mediocre 1,7% realizzato prima della recessione, nel 1998-2007. Anche lo sviluppo del Pil potenziale ha rallentato.     – La bassa dinamica della domanda interna tedesca è sfociata in un abnorme avanzo della bilancia commerciale e di parte corrente (8,4% del Pil, quasi 300 miliardi di dollari, nel 2016). Sono state così cedute al resto del mondo cospicue risorse reali. Queste risorse avrebbero invece potuto essere utilmente impiegate nel Paese, per consumi delle famiglie e investimenti delle imprese e dello Stato.               – L’estensione del rigore tedesco a Spagna, Francia, Italia, Grecia ha fatto sì che la disoccupazione, alta nell’Europa Mediterranea e strutturalmente bassa in Germania, orientasse verso la Germania i flussi migratori provenienti dalla sponda Sud del Mediterraneo. Chi sbarca vivo a Lampedusa vorrebbe proseguire per Berlino…La Germania, la cui popolazione è già per un quarto immigrata, ha dovuto accogliere nel 2015 più di un milione di rifugiati, con pesanti oneri economici e aspre tensioni sociali e fra i partiti.
Non è pensabile che la classe dirigente tedesca ignori tutto ciò. Vi sarà pure un economista a Berlino… Se chi governa la Germania, edotto di siffatti costi economico-sociali, è comunque disposto a sopportarli, evidentemente i fini perseguiti sono d’altra natura: metaeconomici, politici, di politica estera, di potere.                      La memoria dell’essere stati debitori, in particolare nei confronti dei vincitori delle due guerre mondiali[13], può motivare nei tedeschi come una “colpa” il ritrovarsi ancora una volta indebitati. Ma la posizione attiva netta verso l’estero della Germania supera ormai il 60% del Pil. Un credito netto di 1400 miliardi di euro va ben oltre la volontà di non indebitarsi, di non dipendere da altre nazioni. Chi governa la Germania forse pensa che gli altri paesi europei, in quanto debitori, possano essere politicamente condizionati dal paese creditore. Ciò sarebbe molto grave. Ne risulterebbe minata alla radice l’idea stessa di un’Europa unita, fra pari. Anche per il timore di un’egemonia tedesca i cittadini inglesi hanno a mio avviso optato per la Brexit.
Più in generale, con un’azione coordinata si possono almeno perseguire entrambi gli obiettivi: il progresso tecnico, per la crescita di lungo periodo, il sostegno della domanda globale, per la piena occupazione.
Sul futuro dell’innovazione in uno studio recente Robert Gordon[14] ha sostenuto che prevarrà una tendenza al ristagno. A suo parere l’innovazione, pur proseguendo, avrà un impatto limitato sulla produttività. Lo studio è incentrato sugli USA, che tuttavia restano leader mondiali nella ricerca scientifica e nella tecnologia. Se il pessimismo di Gordon fosse fondato per gli USA, lo sarebbe ancor più per l’Europa. Gli smartphone non cambiano il lavoro negli uffici. L’e-commerce rappresenta non più del 7% delle vendite americane al dettaglio. In futuro, la medicina curerà meglio i corpi, non la demenza senile e l’Alzheimer; la robotica non potrà fare a meno dell’uomo, e così l’intelligenza artificiale, i Big Data, l’auto senza guidatore.
L’ipotesi stagnazionista dal lato dell’offerta di Gordon è più realistica e preoccupante di quella avanzata, dal lato della domanda, da Larry Summers e altri[15]. Quest’ultima si fonda principalmente sui bassi tassi d’interesse attuali, fisherianamente attribuiti a un risparmio eccedente l’investimento. Irving Fisher riguardava il tasso d’interesse “as determined by impatience to spend income and opportunity to invest it”[16]. Su scala mondiale risparmio e investimento, ex post necessariamente coincidenti, nel 1998-2007 si erano attestati sul 23,5% del Pil del globo; nell’ultimo decennio sono saliti, sino al 25,5% nel 2016. Soprattutto, i bassi tassi dell’interesse odierni possono essere interpretati keynesianamente. Decisive sono le aspettative di deflazione, unite alla liquidità creata da politiche monetarie espansive che tuttavia non riescono a invertire quelle stesse aspettative. Prevale quindi la “convenzione” keynesiana di tassi d’interesse, nominali e reali, dal 2008 storicamente bassi[17].
Le proiezioni dell’IMF di medio termine, al 2021, escludono un ristagno del Pil mondiale. Ne cifrano la crescita appena al disotto del 4% l’anno[18]. Ma i propellenti sarebbero Cina e India, con i loro ritmi di sviluppo del 7% l’anno e un peso del loro Pil  ormai pari a un quarto di quello mondiale (non arrivava al 9% nel 1950). Le previsioni sono molto peggiori per gli USA (2%) e soprattutto per l’area dell’euro (1,5%).
Una risposta della politica economica che può sia promuovere la produttività sia alimentare la domanda globale deve ricercarsi negli investimenti pubblici.
Nelle economie avanzate gli investimenti pubblici sono tendenzialmente diminuiti rispetto al Pil: dal 4% degli anni 1980 all’attuale 3%. La qualità delle infrastrutture è conseguentemente scaduta. Lo si riscontra persino in Germania, dove i conti dello Stato sono in equilibrio[19]. Gli investimenti in infrastrutture devono tornare a crescere. Keynes li voleva strutturalmente alti per stabilizzare il capitalismo[20]. Vanno programmati secondo priorità, appaltati sulla base di regole giuridiche chiare, attuati secondo criteri d’efficienza, collaudati con ogni scrupolo.

Note

13.  G. Stolper-K. Häuser-K. Borchardt, The German Economy 1870 to the Present, Weidenfeld & Nicolson, London, 1967.

14.  R.J. Gordon, The Rise and Fall of American Growth. The U.S. Standard of Living Since the Civil War, Princeton University Press, Princeton, 2016.

15.  C. Teulings-R. Baldwin (eds.), Secular Stagnation: Facts, Causes and Cures, Cepr, 2014.

16.  I. Fisher, The Theory of Interest, Macmillan, New York, 1930.

17.  Cfr., su questi temi, P. Ciocca-G. Nardozzi, The High Price of Money. An Interpretation of World Interes rates, Clarendon Press, Oxford, 1996.

18.  IMF, World Economic Outlook, Washington, April 2016, Tab. A1, p. 168.

19.  Si vedano recenti interviste di economisti tedeschi culturalmente diversi come Otmar Issing e Peter Bofinger.

20.  J.M. Keynes, Activities 1940-1946. Shaping the Post-War World: Employment and Commodities, in The Collected Writings of J. M. Keynes, XXVII, Macmillan, London, 1980, p. 352 e passim.

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