Una nota sugli effetti economici delle tecnologie digitali

L’effetto delle tecnologie digitali sulla produttività.
Le rivoluzioni tecnologiche che hanno caratterizzato l’era industriale, e che sono dettagliatamente descritte nel libro di Robert Gordon “The Rise and Fall of American Growth” (2016), hanno sempre visto un circolo virtuoso tra incremento di produttività, incremento dei redditi, incremento dell’occupazione e incremento dei consumi che ha sostenuto il processo di crescita economica.
Ciò è avvenuto soprattutto nel quarto di secolo successivo alla fine della seconda guerra mondiale, nel quale le economie avanzate hanno sperimentato quella che è stata definita una “età dell’oro” per questo equilibrio tra aumento dell’uso delle macchine nella produzione, aumento della produttività del lavoro consentita da queste macchine,  aumento dei redditi consentiti da questo aumento di produttività; aumento della domanda di beni e di servizi in grado di assorbire la maggiore produzione.
Dunque nelle precedenti rivoluzioni tecnologiche l’equilibrio nell’espansione della domanda e in quella della produzione ha permesso che l’incremento potenziale di produttività si traducesse in incremento effettivo e si combinasse con l’aumento dell’occupazione.
Che cosa sta avvenendo e che cosa avverrà con lo sviluppo delle tecnologie digitali? Quale sarà il loro effetto sulla dinamica della produttività e su quella dell’occupazione?
Robert Gordon (2016) cita Robert Solow che, nel 1987 (Solow, 1987), osservava come “l’età dei computer si può vedere ovunque tranne che nella crescita della produttività”. Gordon ammette che il salto nella crescita della produttività sperimentato negli Stati Uniti nel decennio 1994-2004 è largamente attribuibile allo sviluppo delle tecnologie digitali. Ma la sua conclusione è che si è trattato di una eccezione che è molto improbabile che si ripeta. Se ci si colloca in una prospettiva di medio-lungo termine, Gordon di fatto ripropone l’interrogativo posto da Solow trent’anni orsono.
Il motivo di questa conclusione riprende quello indicato da Acemoglu e altri (2014) i quali trovano addirittura che l’impatto delle tecnologie digitali sulla produttività sparisce una volta che si escludano le industrie produttrici di tali tecnologie.
Gordon inoltre è tra coloro che ritengono che la cosiddetta “legge di Moore”, secondo la quale il potere di calcolo dei computer raddoppia ogni 18-24 mesi, manifesti segni di rallentamento.
Gordon non sembra tuttavia tenere nel dovuto conto il fatto, messo in evidenza, tra gli altri, da Martin Ford (2015), che la caratteristica più importante e recente della rivoluzione tecnologica digitale è che questa dinamica esponenziale ha riguardato non solo la velocità di calcolo dei computer, ma l’efficienza degli algoritmi per software, una cresciuta che è avvenuta a un tasso anche più elevato di quello indicato nella legge di Moore.
Anche se l’avanzamento dalla capacità dei computer nel campo “hardware” fosse arrivato a un limite alla ulteriore miniaturizzazione, nel campo “software” questo limite non sembra esservi, se non nella complessità e sofisticazione dell’architettura dei sistemi di calcolo.
Grazie ai progressi nel campo degli algoritmi “software” si parla oggi di “machine learning” riferendosi al fatto che “le macchine” sono in grado di imparare, scrivere autonomamente rapporti relativi a vari tipi di eventi sportivi, proporre ai singoli clienti indicazioni per gli acquisti (Amazon), procedere a traduzioni online (Google), sia pure non ancora a un livello qualitativo quale quello di traduttori specializzati.
I computer sono stati messi in grado di svolgere queste funzioni grazie alla possibilità di accedere a una enorme e crescente quantità di dati (“big data”) immagazzinati in formato digitale e di elaborarli, anche se presentati in modo non strutturato, sulla base di relazioni statistiche che gli stessi computer scoprono, a una scala e a una velocità impossibili per una persona umana.
Il “cloud computing”, ossia la centralizzazione e accessibilità non solo di dati, ma anche di software in una sorta di rete di “server”, una “cloud” verso la quale emigrano le più avanzate capacità di intelligenza artificiale, ne aumenta enormemente le opportunità di utilizzo.
Nel capitolo 17 del suo libro Gordon discute questi sviluppi dell’intelligenza artificiale sulle tecnologie digitali, ma le sue conclusioni sono che essi non sono tali da modificare quella per cui l’effetto nel medio termine sulla produttività di tali tecnologie non sarà rilevante.
Diverse sono le conclusioni alle quali arrivano Brynjolfsson e McAfee (2014), secondo i quali, alla fine del Settecento la Rivoluzione Industriale, soprattutto con la macchina a vapore di James Watt, ma poi con tutte le innovazioni che si sono susseguite, ha permesso di superare i limiti del potere muscolare, degli uomini e degli animali, e ha introdotto nella storia dell’umanità quella che essi hanno definito la “prima età delle macchine”, mentre ora siamo nella “seconda età delle macchine”, nella quale il computer e i progressi della tecnologia digitale hanno fatto nei confronti del potere della mente, ossia della capacità del nostro cervello di capire e influenzare le realtà nelle quali viviamo, quello che le macchine della prima età hanno fatto nei confronti del potere dei muscoli.
Nell’era industriale le innovazioni hanno seguito una successione di dinamiche a S (di tipo logistico) staccate tra loro nel tempo; nelle tecnologie digitali invece la dinamica delle innovazioni si manifesta in una successione continua di curve a S: questo permette, come sottolineano Brynjolfsson e McAfee (2014), che nel campo delle innovazioni digitali il progresso si manifesti attraverso la continua “ri-combinazione” di ciò che si è raggiunto in qualcosa di nuovo e più potente (“re-combinant growth” come lo definisce Martin Weitzman, 1998).
Sembra quindi quanto meno azzardato escludere, come sembra fare Gordon, che gli sviluppi futuri delle tecnologie digitali possano manifestarsi in aumenti della produttività meno episodici di quelli riscontrati nel decennio 1994-2004.
Brynjolfsson e McAfee (2014) hanno peraltro messo in discussione la capacità di un indicatore quale il PIL di cogliere il valore dei benefici di produttività del progresso nelle tecnologie digitali.
L’utilizzo delle tecnologie dell’informazione ha consentito che, a parità di prezzo pagato, i benefici in termini di benessere dall’impiego di prodotti acquistati (per esempio computers, smartphones, tablets) crescessero enormemente senza che questo si traducesse in un aumento del valore di mercato della spesa e quindi del PIL. Valga come esempio l’osservazione che alla riduzione della spesa per acquisti di musica e di giornali non ha certo corrisposto una minore possibilità di accedere all’ascolto e alla lettura dell’informazione.
Come ha osservato Jeremy Rifkin (2104), le tecnologie digitali hanno consentito una espansione senza precedenti delle possibilità di produzione a costo marginale decrescente e vicino allo zero. La possibilità di vendere a prezzi bassi sempre più bassi un insieme sempre più ampio di nuovi beni immateriali (alcuni hanno dato a ciò il nome di “sharing economy”) ha significato una riduzione della spesa per acquisti , ma non una riduzione del benessere associato a tale spesa. Si può dire che un evidente aumento del surplus dei consumatori non ha trovato espressione in un aumento del PIL, il quale tiene conto solo del valore delle transazioni misurato dai prezzi di mercato.
Questo pone un serio interrogativo su come effettivamente si manifesti l’incremento di produttività derivante dal progresso tecnologico digitale: se i valori di mercato espressi dal PIL non finiscano per sottovalutarlo.

Il cambiamento del ruolo delle macchine nell’economia: gli effetti sull’occupazione.
Con la rivoluzione nelle tecnologie digitali e dell’informazione, la relazione stessa tra macchine e lavoratori sta cambiando: le macchine, da strumenti per aumentare la produttività dei lavoratori, si sono esse stesse trasformate in lavoratori. Questo cambiamento è destinato a costituire un fattore aggiuntivo ai vari fenomeni di crisi (da quelle energetiche a quelle finanziarie) che già hanno operato, a partire dagli anni 1970, per mettere in crisi il modello di sviluppo economico equilibrato dell’età dell’oro, soprattutto per quanto riguarda l’impatto di lungo termine sull’occupazione.
Uno degli effetti più evidenti riguarda la crescente automazione dei processi produttivi e di consumo mediante la robotica, la cui diffusione consente di sostituire mansioni ripetitive dell’uomo con dei robot.
Ci sono settori, come quello della costruzione di mezzi di trasporto, nei quali il ruolo della robotica anche in termini di riduzione dei fabbisogni occupazionali è riconosciuto da tempo. Ma oggi le minacce riguardano settori nei quali si dava quasi per scontata la opportunità di crescita occupazionale.
Un esempio è la possibilità di sistemi completamente automatizzati nel campo della produzione di “fast food. C’è un vantaggio per il consumatore che aumenta le capacità di scelta e ne rende più rapida l’attuazione (vantaggio che però va confrontato con le possibili perdite di qualità dietetiche); e c’è un vantaggio per l’impresa per effetto della riduzione dei costi. Ma gli effetti sull’occupazione sono potenzialmente devastanti per i milioni di persone vivono di lavori a basso salario e spesso part-time in questo settore.
Un altro settore nel quale l’impatto dell’automazione sull’occupazione si sta già dimostrando e sarà sempre più rilevante è quello della vendita al dettaglio. Lo sviluppo dei grandi venditori on line, come Amazon e eBay, ha già portato alla chiusura di intere catene di negozi di vendita al dettaglio (come Blockbuster), con evidenti effetti in termini di occupazione. Lo sviluppo dei grandi venditori online comporterà un aumento dell’occupazione nel trasporto delle merci; ma questo aumento non compenserà la perdita di occupazione nella vendita delle merci al dettaglio, che sarà accentuata dallo sviluppo delle “vending machines” che non si limitano ormai più alla distribuzione di snack e bibite, ma riguardano prodotti anche molto sofisticati, come “smart phones” e “tablets”. L’automazione coinvolgerà sempre più anche la manutenzione e la riparazione di queste macchine che potrà essere svolta a distanza.
Il quadro si complica se si considera che le macchine in competizione con l’uomo non saranno solo i robot, ma i computer dotati di “software” sempre più innovativi. Questo mette in discussione l’idea unanimemente accettata fino a poco tempo fa, che la minaccia delle innovazioni digitali si rivolge soprattutto a lavori ripetitivi e di routine.
L’evoluzione tecnologica soprattutto nel “software” estende la minaccia anche a lavoratori con una educazione a livello universitario perché ogni tipo di lavoro che può essere appreso attraverso uno studio dettagliato di ciò che è stato fatto in passato è candidato a essere eseguito da una macchina mediante un algoritmo appropriato: un risultato a sua volta facilitato dall’enorme e sempre più elevato ammontare di dati e programmi che le tecnologie stesse sono in grado di rendere disponibili.
Martin Ford (2015) fa l’esempio della sanità. Uno dei vantaggi delle tecnologie digitali è di rendere disponibile e di elaborare una quantità sempre maggiore di dati sulle diagnosi delle malattie e le procedure e le tecnologie di cura, con un evidente potenziale vantaggio per i pazienti, non necessariamente sostituendo le diagnosi dei medici, ma aiutandole anche con pareri di “seconda istanza” forniti da elaborazioni di diagnosi e proposte di cura fornite da computer, potranno ridurre gli errori di natura umana.
Questi sviluppi richiederanno una riqualificazione medica per interagire con i sistemi di intelligenza artificiale almeno per la diagnosi e le terapie di malattie croniche o di routine che metterà in discussione le modalità di concezione e di esercizio di molte professioni mediche tradizionali; porterà per esempio al ridimensionamento di professioni come quella della radiologia e un cambiamento delle modalità con cui viene svolto il ruolo di medici di base.
Nel campo della chirurgia il ruolo dei robot è già complementare a quello di chirurghi sempre più specializzati. Ma l’impiego di robot avrà anche l’effetto di ridurre l’occupazione in campi che vanno dalla preparazione delle medicine, al lavoro di routine di consegna dei materiali e di pulizia negli ospedali, fino alla stessa assistenza al personale nello svolgimento di compiti di routine nei rapporti con i malati.
Gordon (2016) nella sua analisi degli sviluppi delle tecnologie digitali sottovaluta questi aspetti. Per quanto riguarda gli effetti sull’occupazione egli piuttosto condivide, con ancor maggiore ottimismo, le tesi di Brynjolfsson e McAfee (2014) i quali ritengono che il progresso nelle tecnologie digitali sia un tipico esempio di progresso tecnologico “skill-based”; questo richiede una riqualificazione dell’occupazione, non necessariamente una sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine; i lavori del futuro implicheranno una complementarietà, ossia una collaborazione, tra uomini e macchine.
Per Martin Ford (2015) al contrario la potenzialità di sostituzione delle macchine è enorme e tale da far sì che l’effetto di sostituzione sia più forte di quello di complementarietà. Le persone che sono destinate a un rapporto collaborativo con le macchine di successo saranno una piccola minoranza.
Brynjolfsson e McAfee, peraltro, riconoscono che il ridimensionamento quantitativo netto dell’occupazione sarà pesante e che proprio questo, attraverso una caduta dei salari, avrà un impatto sulla distribuzione del reddito e quindi sull’equità.
 
Gli effetti delle tecnologie digitali sulla distribuzione dei redditi e delle ricchezze e sulla domanda globale.
Rifkin (2014) sostiene ottimisticamente che l’avvento di una economia a costo marginale zero apre la strada alla sostituzione del capitalismo con un sistema basato sui “collaborative commons” nel quale tutti possono accedere con uguali opportunità alla produzione a al consumo di un numero crescente per quantità e qualità di beni e servizi a prezzi molto bassi.
Questo porterebbe immediatamente alla conclusione che la società basata sulle tecnologie digitali dovrebbe essere una società nella quale domina l’equità. In realtà la realtà mostra che a questa possibilità delle tecnologie digitali di offrire sempre nuovi beni e servizi a costi marginali vicini allo zero non corrisponde un’equa distribuzione dei guadagni di mercato derivanti da questa possibilità.
Il fatto che le opportunità possono essere rese più uguali non implica automaticamente che tale uguaglianza si trasferisca ai redditi delle attività rese possibili. Almeno, questo è ciò che dimostra l’esperienza dalla quale risulta che i redditi si concentrano su piccoli gruppi di grandi imprese (Google, Facebook).
La diffusione delle tecnologie digitali fornisce un grande incentivo al formarsi di mercati globali per il consumo attraverso le reti che essa consente tra potenziali consumatori in ogni parte del mondo. E’ soprattutto attraverso questo allargamento delle opportunità di consumo che si manifestano i benefici in termini di benessere di queste tecnologie.

Le cose sono invece più complesse per quanto riguarda le possibilità di entrare, con le tecnologie digitali, nella produzione: gran parte delle persone che entrano nelle attività online non riescono poi ad affermarsi in un mercato che appare organizzato in modo che “chi vince prende tutto”.
Chi riesce in una innovazione concernente le tecnologie digitali non può limitarne il successo a una piccola frazione del mercato. Proprio la natura di estensione globale dell’accesso all’informazione attraverso l’espansione dei “networks”, caratteristica delle tecnologie digitali, fa sì che chi è capace di offrire l’innovazione di migliore qualità possa e debba catturare l’intero mercato.
Ma le imprese esistenti, soprattutto se di grande dimensione e già abituate ad agire con profitti sul mercato globale, possono rendere difficile, se non impossibile, l’azione indipendente dell’innovatore magari asservendolo alla propria attività, con la promessa di lauti guadagni. Possono anche prevenire la competizione attirando a sé le competenze innovative delle persone potenzialmente in grado di essere loro concorrenti in futuro.
Questo apre nuove sfide all’attività antitrust affinchè sia consentito a chi intende esercitare una iniziativa imprenditoriale nella produzione di beni e servizi mediante le tecnologie digitali di poter effettivamente verificare la propria capacità di successo sul mercato.
Questo è accaduto all’inizio dell’era digitale, con l’inatteso successo di singoli imprenditori di grande capacità (Apple o Facebook) che sono riusciti a affermarsi come “superstar” sul mercato globale; ma questi oggi usano la loro forza per fermare la concorrenza, e questo andrebbe impedito.
Le caratteristiche che ha assunto il mercato delle tecnologie digitali, se se ne considera non solo l’aspetto del consumo ma anche quello della produzione, contribuiscono a un aumento della disuguaglianza che si aggiunge all’impatto negativo sull’occupazione.
La riduzione dell’occupazione e dei salari e la concentrazione dei redditi nelle fasce più alte della popolazione porterà con sé anche il rischio di avere troppo pochi consumatori di fronte a una produzione che continuerà a crescere.
Sembra così rompersi il circolo virtuoso sperimentato nelle precedenti fasi di innovazione tecnologica tra aumento della produttività e aumento dei salari in grado sia di assorbire l’aumento della produttività sia di aumentare l’occupazione.
Per fermare questa prospettiva alcuni ritengono che l’unica via da percorrere sia di ridurre la disuguaglianza rendendo possibili redditi sufficientemente ben distribuiti da sostenere la domanda, per esempio attraverso un reddito minimo garantito.
Una scelta di questo tipo richiede però una politica fiscale redistributiva molto decisa per utilizzare i redditi elevati di coloro che hanno saputo sfruttare la caratteristica “chi vince prende tutto” del mercato, al fine di finanziare le spese per il reddito garantito.
Inoltre essa dovrebbe essere organizzata in modo da non scoraggiare il lavoro condizionando il pagamento del reddito garantito all’accettazione di una occupazione in attività socialmente utili, nelle quali peraltro le tecnologie digitali possono svolgere una funzione importante, e ancor più alla riqualificazione per rendere il lavoro il più possibile integrato alle tecnologie digitali.
Sotto questo profilo diventa indispensabile una politica di investimenti per una appropriata qualificazione del capitale umano
Riferimenti bibliografici.

  1. Acemoglu e altri, “Return of the Solow Paradox? IT, Productivity and Employment in US Manufacturing” NBER WP 19837, 2014
  2. Brynjolfsson, A. McAfee, The second machine age, Nortin &co. 2014; (trad.it. La nuova età delle macchine)
  3. Ford, The rise of robots, Basic Books, 2015,
  4. R.Gordon, The Rise and Fall of American Growth, Princeton University Press, 2016
  5. Rifkin, The zero marginal cost society (trad. It. La società a costo marginale zero)
  6. Solow, We’d Better Watch Out, The New York Times, july 22, 1987.
  7. Weitzman, Recombinant Growth, Quarterly Journal of Economics, 1998, 113 n.2, pp.331-60.

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