Le elezioni americane e l’equilibrio mondiale

Dopo la foga disordinata e spesso violenta delle “primarie” svolte nell’ostilità personale tra i vari contendenti e tra i due campi, le elezioni presidenziali di Novembre si annunciano all’insegna del “voto contro”: i sondaggi confermano che i coefficienti negativi – press’a poco uguali per entrambi i candidati – superano gli indici di apprezzamento.
Nella scelta tra Hillary Clinton e Donald Trump, una malvagia ironia della sorte porterebbe così alla Casa Bianca il candidato ritenuto dai più “il minor male”: un risultato che sarebbe un autentico pericolo per l’equilibrio e per la stabilità politica di un mondo senza centro e senza più sistema, squassato dalle contraddizioni che appaiono ogni giorno tra la globalizzazione che rende porose le frontiere ed esalta la pervasività dei media, da un lato e, dall’altro, la frammentazione delle crisi in tanti scenari di conflitti, dominati da gruppi informi e sètte irresponsabili, che sfuggono ormai alla logica centrale di un sistema in deliquescenza.
Man mano che si avvicina il traguardo di Luglio delle conventions dove, per affrontare le presidenziali, i maggiorenti cercheranno di ricomporre ciascuno il proprio Partito malgrado le recenti lotte intestine, la temperie vede crescere negli Stati Uniti la preoccupazione diffusa nel ceto politico e tra gli osservatori, non solo americani, per l’atmosfera di aspra contrapposizione tra i due schieramenti.
Il discorso politico realista, il dialogo aperto e il vantato pragmatismo americano sembrano un ricordo di ieri.
Gli elettori oscillano tra il distacco sdegnoso, che potrebbe portare alle incognite dell’astensione, e il suo opposto, l’aggressività ben maggiore che nel passato, che ha rimpiazzato la leale, anche se serrata, competizione che si svolgeva nel nome dell’ideale condiviso di democrazia rappresentativa e bilanciata della tradizione americana, uno schema rispettato persino nelle campagne più accanite dove l’estremismo si rivelava appieno: basti pensare da ultimo a Goldwater o a Perot.
Tuttavia, gli americani non hanno disertato il processo politico delle primarie: l’affluenza alle urne e ai caucus (riunioni di partito al termine delle quali si vota) non è crollata, la campagna ha attirato molti giovani, attivisti o solo incuriositi, alle manifestazioni eccitate e spesso frenetiche, uno spettacolo che sembra contraddire la tradizione dei dibattiti televisivi relativamente composti e dei comizi elettorali coloriti, ma razionali e propositivi.
La strage di Orlando (Florida) ha reso poi più violenta la contrapposizione e più accesi gli scontri rafforzando la presa dei fautori dell’odio e della paura. Si scontrano le diverse visioni della sicurezza interna con l’accesso facile alle armi; l’ostilità verso gli stranieri, specie islamici ma anche ispanici, reca un fondo di non sopito razzismo e cozza con la società aperta di un Paese accogliente fatto dagli immigrati.
In casa repubblicana sono stati “tutti contro tutti”, senza esclusione di colpi. Il fenomeno Trump ha scompaginato ogni regola, legittimando l’insulto senza alcun riguardo per la conoscenza dei problemi, tenendosi anzi il candidato ben alla larga da fatti e cifre per ricorrere al più becero sbraitare, persino annunciando provvedimenti bizzarramente estremi in caso di conquista della Casa Bianca.
Donald Trump apporta al patrimonio del conservatorismo repubblicano una congerie disordinata di proposizioni sguaiate invece di un vero programma, un tessuto di proclami stra vaganti e irreali, una strana miscela in cui l’esaltazione dell’individualismo (estrema proiezione della self reliance, un dogma americano) in chiave anti-Stato e anti-politica convive, paradossalmente, con l’appello al ripristino della grandezza della nazione.
Non manca la feroce opposizione all’immigrazione fino all’espulsione in massa di milioni di persone e all’erezione di un muro al confine con il Messico che il candidato promette di costringere i messicani a pagare, per finire con il divieto d’ingresso ai musulmani. La sua chiave resta sfrontata, la presentazione volgare e clownistica in un Partito conservatore, che era stato deriso perché ritenuto elitario e perbenista.
“The Donald” è nazional-populista in un Partito internazionalista; protezionista in un Partito libero-scambista; aspramente critico dei magnati di Wall Street pur essendo un miliardario erede di imprese edili, anche se forse non tanto ricco quanto pretende (il New York Times non crede alle cifre che Trump sventola); avido costruttore in spregio all’ambiente e soprattutto al buon gusto; malgrado qualche bancarotta, “The Donald” si vuole poi imprenditore prestato alla politica, che ha invece frequentato assiduamente; difensore infine dei valori tradizionali, nonostante tre o più mogli e la proprietà di varie bische. E così via, le cronache quotidiane danno di lui un quadro dettagliato.
Tant’è nel generale discredito che colpisce la classe politica, a meno di un imprevedibile accadimento Donald Trump sarà il candidato dei Repubblicani, i quali hanno tentato invano di fermarlo nel convincimento che porterebbe in Novembre a un’inevitabile sconfitta il Partito che fu di Lincoln e di Eisenhower.
Del resto, i concorrenti rimasti in lizza fin quasi all’ultimo, i senatori cubano-americani Ted Cruz e Marco Rubio, lo rimbeccavano con foga in chiave altrettanto populista. Uno alla volta e con qualche imbarazzata eccezione, gli esponenti dell’establishment del GOP gli annunciano l’appoggio, turandosi il naso come direbbe Montanelli.
Meno folkloristica, ma certamente non meno drammatica, è la situazione dei Democratici. Hillary Clinton, è stata First Lady per i due mandati di Bill – finiti, come ricordiamo, nello scandalo e nel discredito di un Presidente carismatico, amato e tuttora popolare – è stata eletta senatore di New York, poi fu candidata sconfitta alle primarie contro Obama nel 2008, da quest’ultimo infine nominata Segretario di Stato, ma per un solo mandato.
Contro un personaggio di tal genere, ha tentato una rincorsa ritenuta da tutti donchisciottesca l’anziano senatore del remoto Vermont, il “socialdemocratico” Bernie Sanders, rappresentante monocorde di un’austera sinistra di stile scandinavo, buon polemista, unico a rifuggire dall’attacco e dall’insulto personale.
Fuori dagli schemi e privo di carisma, Bernie ha sedotto, però, la maggioranza dei giovani ed ha tenuto sino alla fine unendo alla critica al grande capitale e alle banche programmi e schemi sociali, alieni alla tradizione americana ma a noi più familiari come l’assistenza sanitaria per tutti e speciali provvidenze per l’educazione e la ricerca che configurano, agli occhi dei conservatori, un’indebita eretica invasione di campo da parte del Governo federale: programmi e valori che lasciano però una traccia nel campo dei Democratici incerti e perplessi.
Dopo un inizio in sordina, Hillary ha vinto le primarie, forte del consenso della minoranza afro-americana e del voto femminile. Preparata, fortemente impegnata in politica e buona conoscitrice della scena internazionale, l’ex First Lady è però battuta in breccia nella pubblica opinione per i sospetti di scarsa trasparenza alla guida del Dipartimento di Stato, dove adoperava la posta elettronica personale anziché quella del Governo, con la conseguenza che mancano agli atti milioni di files, anche classificati, compresi i documenti sull’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore americano in Libia.
Hillary è poi accusata di scarsa trasparenza nel maneggio del denaro per aver accumulato tesori nella fondazione che condivide con il marito – compresi, accanto ai versamenti di banche e industriali americani, anche generosi finanziamenti provenienti da Paesi stranieri (si include l’Arabia Saudita…) – e oggi anche di aver ricevuto enormi compensi per discorsi il cui contenuto ha rifiutato di svelare, tenuti a porte chiuse ad azionisti e dirigenti delle grandi banche che sono oggetto di attacchi violenti, sia da parte dell’estrema destra, dai famosi Tea Party, come anche da sinistra, dai movimenti del genere di Occupy Wall Street.

Una puntigliosa ricostruzione del massiccio bombardamento americano in Libia, del modo con cui Hillary giunse alla decisione, gravida delle conseguenze che seguirono l’uccisione di Gheddafi, tra cui lo svuotamento dei suoi immensi arsenali a beneficio dei terroristi – armi moderne oggi diffuse dalla Siria alla Nigeria – e l’aumento geometrico del tribalismo e della guerriglia, mette ora in risalto il ruolo personale e il temperamento irruento e impulsivo dell’allora Segretario di Stato (in Senato aveva votato a favore della guerra dell’Iraq), cui fa riscontro adesso l’operosa prudenza del successore John Kerry.
Se Donald Trump soffre principalmente dell’accusa di irresponsabilità e di improvvisazione, Hillary è vittima della scarsa fiducia di cui gode nell’elettorato e della mancanza di coerenza e trasparenza, che si rivela nella sua condotta pubblica.
Il profondo disagio, sociale più che economico, e il diffuso affievolimento del sentimento della mission dell’America nel mondo e del suo soft power, proiezione ideale degli assetti interni del Paese, compongono la scena di fondo su cui questi improbabili personaggi si battono guardando con malcelato ardore all’obiettivo supremo della Casa Bianca.
La crisi mondiale cominciata proprio qui poco meno di dieci anni fa, le crescenti diseguaglianze sociali e il senso del declino della potenza americana nel mondo costituiscono l’humus del diffuso scontento.
Assorbito dall’economia americana lo stimolo finanziario elargito subito da Washington e conseguita l’indipendenza energetica grazie alla politica di risparmio, agli idrocarburi ricavati dagli scisti bituminosi e al crollo del prezzo del petrolio, la ripresa economica è certo migliore che in Europa, ma è percepita nella pubblica opinione come insufficiente e soprattutto asimmetrica, iniqua perché privilegia i più ricchi, il famoso uno per cento che possiede la ricchezza del Paese, rispetto al 99 per cento che fatica ad arrivare alla fine del mese: un’immagine, certo, statisticamente inconsistente, ma percepita dalla massa come reale. Ed è quel che conta nelle elezioni.
Tra l’altro, all’aumento dell’occupazione, tornata ai livelli pre-crisi, non corrisponde quello della massa salariale cosicché, di fatto, è calata la qualità dei nuovi posti di lavoro con evidenti conseguenze sociali.
La progressiva de-industrializzazione degli Stati Uniti e la crescita dei servizi in percentuale del PIL contribuiscono, a loro volta, a cambiare la struttura sociale del Paese; il dilagare delle importazioni (nel 2015 il deficit di partite correnti degli Stati Uniti ha superato 6.000 miliardi di dollari) sollecita l’opposizione ai grandi accordi economici con l’Asia (TTP, concluso ma non ancora ratificato) e con l’Europa (TTIP, in corso di difficile negoziato), come l’imposizione che Trump annuncia di elevate tariffe verso la Cina, che esporrebbe il Paese agli azzardi delle guerre commerciali.
La crisi ha mortificato la classe media che si sente esclusa, le diseguaglianze sono molto cresciute e incidono sui programmi sociali; la polemica contro le banche e Wall Street si acuisce; le infrastrutture pubbliche sono consunte; l’invasione sfrenata dei finanziamenti ai candidati alle elezioni legislative, oltre che alle presidenziali, semina dubbi sull’indipendenza dei concorrenti; le divergenze sulle questioni etiche infiammano gli animi e sfociano talora nella violenza privata, non priva a volte di risorgenti accenti razziali.
I fattori etico-sociali e religiosi, infatti, tagliano anch’essi attraverso lo spettro politico: dall’assistenza pubblica per le famiglie povere all’aborto e alla violenza usata spesso ai medici che lo praticano; dal possesso personale di armi, malgrado i ricorrenti fatti di sangue che Orlando ha drammaticamente rammentato, ai diffusi timori di risorgente razzismo; dal geloso invadente potere delle congregazioni evangeliche nel sud e nel sud-ovest al potere delle lobby, che si formano aggressive attorno a interessi particolari.
Unito a quello economico, il contesto politico-sociale ha determinato la spaccatura che segna l’elettorato e attraversa gli schieramenti tradizionali caratterizzandosi nella feroce opposizione alle rispettive élites che sono avvertite come lontane dagli elettori, affette anzi quasi da un sentimento di proprietà nei loro confronti, indifferenti ai problemi dei cittadini se non nella retorica dei proclami, ossessionate dai dettami del parlare – forse anche del pensare – politically correct sino al punto da voler censurare l’opinione popolare.
È un’altra delle cause del populismo che trascina il fenomeno Trump, ma non è estranea all’elettorato democratico: sembra paradossalmente quasi una sorta di implicita…rivendica del Primo emendamento alla Costituzione che garantisce la libertà d’espressione!
Su tutti i candidati, non soltanto sui contendenti per la Casa Bianca, si è rovesciata l’espressione di un diffuso scontento che va oltre i dati socio-economici, quindi è più indicativo perché intimamente sentito, specie tra i giovani inquieti e disorientati, e colpisce anzitutto la classe politica distante e inefficace.
Ha poi screditato le istituzioni la prolungata aspra battaglia del Congresso dominato dai Repubblicani che ricorrono a mezzi estremi contro Obama e che ha paralizzato, infatti, l’attività del Governo e dello Stato, con il Senato che rifiuta persino di esaminare il candidato del Presidente alla successione dello scomparso Antonin Scalia: fino all’avvento del successore di Obama, quindi, la Corte Suprema avrà solo otto giudici e rischierà ogni giorno lo stallo.
Dal canto suo, il Presidente degli Stati Uniti in questa tesa situazione internazionale e interna esercita i poteri esecutiviquasi solo per decreto. Accanto alle istituzioni, divenute disfunzionali quando la Casa Bianca, il Congresso e persino la Corte Suprema battagliano senza quartiere, gli elettori hanno dinanzi agli occhi un panorama politico in cui la critica degenera nell’asprezza e la reciproca delegittimazione nel rifiuto del dialogo.
Il trasversalismo politico, che appare nei candidati di entrambi i partiti, sembra fatto poi per confondere ulteriormente un elettorato già disorientato e inquieto. I Repubblicani tradizionali non si riconoscono nei proclami di Trump in cui non ritrovano le amate dottrine conservatrici e l’ottimismo di Reagan. La tradizione dei Democratici è a disagio di fronte alla disinvoltura di Hillary e non apprezza il richiamo “socialista” di Sanders.
È un panorama sconfortante, in cui predomina in fondo la sfiducia nella politica e persino nei candidati e nella loro credibilità. L’immenso flusso di denaro (almeno Trump dice di autofinanziarsi…, ma adesso sta ricorrendo alla raccolta di fondi) da quando la Corte Suprema ha abrogato i limiti quantitativi dei contributi e le garanzie di trasparenza che vigevano, la stravaganza dei propositi della maggior parte degli esponenti politici e la scarsa serietà del reale fondamento delle loro idee convivono scomodamente in questa stagione elettorale.
Senza parlare dell’acredine che ciascuno mostra verso gli altri, quelli del proprio Partito in particolare, e degli insulti beffardi cui tutti ricorrono nei confronti dei rivali.
Tuttavia, guardando all’altra faccia del nazional-populismo, il ritorno del Paese “alla grandezza”, quello che gli elettori sembrano chiedere e i candidati promettere in modo confuso e velleitario è il ripristino dell’assetto interno dell’America, il suo rafforzamento produttivo e sociale, in altri termini è la necessaria premessa per la riconfigurazione del ruolo mondiale degli Stati Uniti.
Il paradosso risiede nell’aperta contraddizione tra questa domanda e le virulente critiche antisistema che accomunano nell’ostilità l’Esecutivo e il Legislativo. Tuttavia, si conferma così indirettamente una domanda politica che si dispiega su due versanti, forse complementari pur se potenzialmente contraddittori: cambiamento e credibilità.

Di contro alla generale sfiducia nella classe politica si profila infatti – paradossalmente, ma non tanto in un sistema presidenziale in cui il popolo depone il potere ai piedi dell’eletto diversamente dalle democrazie mediate, parlamentari – una domanda “di politica” che traspare, molto sentita tra i giovani, quella di un Governo efficace e autorevole, un segnale che recain filigrana un sentimento di speranza e di fiducia nell’America e nel suo destino che si traduce nella domanda di leadership e di un Paese forte e ordinato.
In questo senso, il messaggio che la campagna lancia implicito è l’auspicio di una Casa Bianca che eserciti una ferma guida del Paese nella consapevolezza dell’unicità, del dogma del cosiddetto “eccezionalismo”, della missione che la Storia ha affidato al “grande Paese tra due oceani”. Vasto programma, avrebbe detto de Gaulle, in queste condizioni.
I Partiti americani sono sempre stati molto diversi da quelli europei: non hanno vere strutture permanenti o uffici studi che preparino i programmi – i candidati si servono di enti e think tank politicamente e ideologicamente affini o creati per l’occasione – e hanno piuttosto forma di club o consorterie, organizzandosi in previsione delle elezioni, soprattutto in funzione dei candidati alla presidenza, al Congresso o ai Governi statali.
Avevano, tuttavia, conservato sinora un importante potere di aggregazione del consenso e di orientamento che si risvegliava quando le urne si avvicinavano.
Completando un percorso iniziato da qualche anno, negli Stati Uniti i partiti stanno invece andando in dissolvenza, si avvicinano all’irrilevanza più che al rinnovamento, soppiantati dallo spontaneismo tribunizio e dagli slogan dei movimenti nazional-populisti.
Non è però, come sappiamo, un fenomeno limitato agli Stati Uniti. Il populismo umorale o ideologico, malattia che l’America condivide con l’Europa, dilaga intanto tra Repubblicani e Democratici e nutre apertamente scontento e sfiducia verso il panorama politico, tra Tea Party e Occupy Wall Street, cristiani evangelici e fautori dei diritti sociali, conservatori ideologici e progressisti sognatori.
La marea nazional-populista dilaga, infatti, negli Stati Uniti assumendo persino carattere ricattatorio, soprattutto nelle legislative: i movimenti minacciano apertamente i candidati del proprio Partito di spostare i voti sui concorrenti, se non si allineano prontamente alle loro posizioni estreme. Hanno già mostrato la loro forza nelle passate elezioni per il Congresso sostituendo rispettate personalità con improvvisati tribuni.
Può apparire paradossale, ma nelle società avanzate sembra di vedere un parallelo con la trasformazione che avvertiamo nello scenario internazionale dove gli Stati sono incalzati da enti non statuali, spesso più potenti e meglio armati della maggioranza dei membri delle Nazioni Unite, certo in grado di interagire con quelli.
L’autorevolezza congiunta che la comunità internazionale credeva di essersi data a New York con le Nazioni Unite può funzionare soltanto se i principali attori raggiungono un consenso, legittimato ex post all’ONU: alla fine, il Concerto delle Potenze di felice memoria potrebbe ritrovare ora un possibile ruolo decisivo per la stabilità mondiale, a condizione che la consapevolezza del dovere comune prevalga sulla tattica episodica e sulle alleanze casuali.
L’alternativa, su cui spesso si trova un consenso nelle crisi locali, è invece per ora quella di una navigazione a vista.
Così, nelle nazioni, specie in molte di quelle avanzate, le società post-moderne si diffondono in tanti rivoli e aggregazioni differenti, che tendono a esautorare l’autorità centrale dello Stato e a sostituirvisi: stentano quindi a riconoscersi nei partiti.
Non sarà avanguardia della “società liquida” di Zygmunt Bauman, certo è però che la fine delle ideologie, delle “grandi narrazioni” del secolo scorso, come lo stesso schema multipolare che prevale dopo i cinquant’anni di quello bipolare, il contrasto tra la globalizzazione vittoriosa che cancella le frontiere e abolisce la censura, da un lato e, dall’altro, la frammentazione dello scenario nelle crisi locali – un contrasto che si riflette poi sul piano interno nelle metafore contenute nei problemi personali o familiari rispetto a quelli nazionali o addirittura globali – sono tutti fenomeni che influenzano il funzionamento dei sistemi politici e sociali.
Qualunque sia il risultato delle presidenziali, saranno fondamentali per la governabilità le elezioni per la Camera e per un terzo del Senato: su queste la delusione popolare si sfogherà nella medesima aspra contrapposizione politico-ideologica, che vediamo oggi e che rischia di produrre un Congresso non migliore dell’attuale. Il pericolo che si profila, infatti, è che, eletto alla Casa Bianca il “meno peggio” dei contendenti, si affiderà di fatto al Congresso, diviso e anch’esso impopolare, le sorti della principale potenza di un mondo senza centro: sarà la condivisione dei poteri, o piuttosto la paralisi dell’Esecutivo, l’incubo storico dei sistemi presidenziali?
Se Atene piange, Sparta non ride. Se gli americani sono preoccupati per le prospettive politiche e istituzionali del loro Paese, dovremmo esserlo anche noi.
L’eclissi dell’America nello scenario globale, il ritorno all’isolazionismo che vedemmo tra le due guerre mondiali, il rifugiarsi della maggior potenza nel volterriano giardino di Candido per la preminenza data agli assetti interni, il distacco, infine, dagli organismi multilaterali, che pur l’America ha creato nel dopoguerra, accrescerebbero il disordine mondiale.
Portatori tradizionali dei valori che condividiamo, gli Stati Uniti, nonostante errori, esitazioni ed eccessi, restano un attore indispensabile della comunità delle nazioni, la potenza militare che ha garantito sinora l’equilibrio mondiale assumendosene la maggiori responsabilità, il socio di maggioranza dell’Alleanza occidentale.
L’America non è soltanto la maggiore economia del mondo, malgrado l’alterna rincorsa cinese, ma possiede anche un perdurante primato tecnologico ed educativo, ha il vigore innovativo che offre una cultura avanzata, non solo quella popolare che è a volte frivolamente derisa, ma soprattutto il potenziale che si esprime nella capacità di coniugare la cultura e la tecnologia in forme che influenzano il progresso della vita delle società avanzate. Possiede infine il soft power dei valori democratici e dei diritti di una società.
Con molto ottimismo, si dice che la personalità di un leader si forma nell’esercizio delle sue alte funzioni. Tuttavia, un Presidente americano eletto come “il meno peggio” difficilmente avrebbe l’autorità necessaria per aggregare il consenso popolare e guidare efficacemente la superpotenza nel mondo, né gli si riconoscerebbe in casa propria il cosiddetto bully pulpit che si esprime nell’appello al popolo caratteristico del sistema presidenziale, specie poi se fosse incapacitato o menomato dalla lotta senza quartiere di un Parlamento ostile di segno contrario.
Il Congresso possiede, infatti, una fondamentale funzione legislativa e il controllo del bilancio, un ruolo dominante nelle nomine ai vertici di una struttura statuale, che si rinnova ogni quattro anni e sarebbe attratta o intimidita dalla contestazione.
In queste condizioni, il Presidente non avrebbe poi l’autorevolezza, il prestigio, la capacità anche morale che la diplomazia internazionale richiede per mobilitare il peso che gli Stati Uniti possiedono, per esercitare credibilmente nelle crisi l’alterna missione di pressione e di persuasione. Non dimentichiamo, infine, che il Congresso detiene gelosamente il potere di dichiarare la guerra, come appresero Wilson e Roosevelt.

Il panorama mondiale è segnato dal disordine internazionale, scriveva Ennio Di Nolfo. La Cina, seconda potenza globale, rafforza il proprio potenziale militare, navale e spaziale, avanza sorniona in Asia Centrale e nel Mar Cinese meridionale, dove costruisce isole artificiali vere basi militari, e minaccia i Paesi minori del Pacifico con pretese territoriali.
Semina inquietudine in Corea del Sud e in Giappone anche per il comportamento ambiguo verso l’avventura nucleare di Pyongyang. Pechino nasconde poi il Pil cedente e le contraddizioni insite nelle crescenti diseguaglianze generate all’interno del capitalismo del partito-Stato, nella trasformazione demografica, in quella sociale e nell’inurbamento che generano una forte domanda interna; cela infine nella conclamata serenità gli squilibri del suo assetto valutario e il crollo delle borse.
Nonostante il declino economico e demografico, il crollo del rublo e del petrolio (la Russia ha un Pil inferiore a quello dell’Italia) il calo della borsa, l’inquietudine sociale e politica, le sanzioni per la crisi ucraina – queste ultime causa solo parziale del declino – la Russia, seconda potenza nucleare pur con un potenziale strategico oggi di fatto inutile, ma fornita di enormi forze armate convenzionali, dotata di una serrata catena di comando verticistica autoritaria che risiede al Cremlino, vive l’esaltazione nazionalista che nutre la popolarità di Putin e, ignorando il lento assedio della Cina ai confini, azzarda in ogni teatro l’impiego della potenza militare convenzionale di cui dispone nell’obiettivo primario del riconoscimento dello status globale cui ritiene di aver diritto, con il sogno di ripristinare la parità con gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica aveva.
Le potenze emergenti stentano ad affermare un vero ruolo internazionale per il quale non possiedono la cultura politica, né l’ormai lontana necessaria tradizione.
L’Europa vive giorni tragicamente sconnessi tra la crescita molle da cui non riesce a emergere, i problemi politici che condivide purtroppo con l’America come il nazional-populismo crescente; soffre l’assedio dei disperati alle frontiere, l’obiettiva divisione interna che la strazia nelle crisi e nel dissenso dalla Grecia al Regno Unito, il travaglio che la dilania tra le opposte grettezza e faciloneria che animano tanti e diversi dei suoi litigiosi membri.
Londra ha rifiutato l’obiettivo politico (che aveva pur firmato…) della ever closer union, mentre alcuni dei nuovi membri dell’Unione si allontanano dai valori fondanti della democrazia, delle libertà civili e dello Stato di diritto. Il referendum britannico assicura all’Unione anni di acrimoniosi negoziati dai risultati incerti per stabilire un rapporto costruttivo, funzionante per le proprie istituzioni.
L’Europa ha difficoltà a dedicare le migliori energie all’integrazione politica e a guardare a un vero orizzonte mondiale, ai compiti che le avevano assegnato i Padri Fondatori. La sua stessa sicurezza sarebbe messa in forse dal possibile isolazionismo americano o dall’“Atlantico più largo”, quando la saldezza dell’Alleanza atlantica è stata chiaramente collocata dagli appelli londinesi di Barack Obama nel contesto euro-americano dove il Presidente americano ha iscritto quel che resta della brumosa special relationship tra Washington e Londra.
Con una Casa Bianca indebolita sarebbe ben difficile immaginare quale equilibrio mondiale possa formarsi e con quali protagonisti, sperabilmente più lungimiranti che imbaldanziti, qualora Washington non ne fosse parte traente e determinante.
In queste circostanze e facendo astrazione dalle rispettive turbolenze interne, possiamo solo guardare con la petrarchesca “paventosa speme” alle elezioni americane, perché alla fine emerga una classe dirigente transatlantica e, con essa, si riesca a pervenire a una collaborazione internazionale di lungo respiro, politicamente strategica in cui, legati da valori e tradizioni comuni, gli Stati Uniti e l’Europa, ma non soli, operassero come forza aggregante di un concerto mondiale nella missione storica di un nuovo ordine internazionale.
Tuttavia, nelle prospettive tutt’altro che improbabili cui dobbiamo, nonostante tutto, guardare, la diplomazia transatlantica e quella europea con essa sarebbero chiamate dalla loro stessa storia e dalle circostanze incombenti a un compito ben difficile, alla prova empirica della conclamata vitalità della società internazionale sopravvissuta alla fine della Guerra fredda.