Le elezioni americane e l’equilibrio mondiale
Di contro alla generale sfiducia nella classe politica si profila infatti – paradossalmente, ma non tanto in un sistema presidenziale in cui il popolo depone il potere ai piedi dell’eletto diversamente dalle democrazie mediate, parlamentari – una domanda “di politica” che traspare, molto sentita tra i giovani, quella di un Governo efficace e autorevole, un segnale che recain filigrana un sentimento di speranza e di fiducia nell’America e nel suo destino che si traduce nella domanda di leadership e di un Paese forte e ordinato.
In questo senso, il messaggio che la campagna lancia implicito è l’auspicio di una Casa Bianca che eserciti una ferma guida del Paese nella consapevolezza dell’unicità, del dogma del cosiddetto “eccezionalismo”, della missione che la Storia ha affidato al “grande Paese tra due oceani”. Vasto programma, avrebbe detto de Gaulle, in queste condizioni.
I Partiti americani sono sempre stati molto diversi da quelli europei: non hanno vere strutture permanenti o uffici studi che preparino i programmi – i candidati si servono di enti e think tank politicamente e ideologicamente affini o creati per l’occasione – e hanno piuttosto forma di club o consorterie, organizzandosi in previsione delle elezioni, soprattutto in funzione dei candidati alla presidenza, al Congresso o ai Governi statali.
Avevano, tuttavia, conservato sinora un importante potere di aggregazione del consenso e di orientamento che si risvegliava quando le urne si avvicinavano.
Completando un percorso iniziato da qualche anno, negli Stati Uniti i partiti stanno invece andando in dissolvenza, si avvicinano all’irrilevanza più che al rinnovamento, soppiantati dallo spontaneismo tribunizio e dagli slogan dei movimenti nazional-populisti.
Non è però, come sappiamo, un fenomeno limitato agli Stati Uniti. Il populismo umorale o ideologico, malattia che l’America condivide con l’Europa, dilaga intanto tra Repubblicani e Democratici e nutre apertamente scontento e sfiducia verso il panorama politico, tra Tea Party e Occupy Wall Street, cristiani evangelici e fautori dei diritti sociali, conservatori ideologici e progressisti sognatori.
La marea nazional-populista dilaga, infatti, negli Stati Uniti assumendo persino carattere ricattatorio, soprattutto nelle legislative: i movimenti minacciano apertamente i candidati del proprio Partito di spostare i voti sui concorrenti, se non si allineano prontamente alle loro posizioni estreme. Hanno già mostrato la loro forza nelle passate elezioni per il Congresso sostituendo rispettate personalità con improvvisati tribuni.
Può apparire paradossale, ma nelle società avanzate sembra di vedere un parallelo con la trasformazione che avvertiamo nello scenario internazionale dove gli Stati sono incalzati da enti non statuali, spesso più potenti e meglio armati della maggioranza dei membri delle Nazioni Unite, certo in grado di interagire con quelli.
L’autorevolezza congiunta che la comunità internazionale credeva di essersi data a New York con le Nazioni Unite può funzionare soltanto se i principali attori raggiungono un consenso, legittimato ex post all’ONU: alla fine, il Concerto delle Potenze di felice memoria potrebbe ritrovare ora un possibile ruolo decisivo per la stabilità mondiale, a condizione che la consapevolezza del dovere comune prevalga sulla tattica episodica e sulle alleanze casuali.
L’alternativa, su cui spesso si trova un consenso nelle crisi locali, è invece per ora quella di una navigazione a vista.
Così, nelle nazioni, specie in molte di quelle avanzate, le società post-moderne si diffondono in tanti rivoli e aggregazioni differenti, che tendono a esautorare l’autorità centrale dello Stato e a sostituirvisi: stentano quindi a riconoscersi nei partiti.
Non sarà avanguardia della “società liquida” di Zygmunt Bauman, certo è però che la fine delle ideologie, delle “grandi narrazioni” del secolo scorso, come lo stesso schema multipolare che prevale dopo i cinquant’anni di quello bipolare, il contrasto tra la globalizzazione vittoriosa che cancella le frontiere e abolisce la censura, da un lato e, dall’altro, la frammentazione dello scenario nelle crisi locali – un contrasto che si riflette poi sul piano interno nelle metafore contenute nei problemi personali o familiari rispetto a quelli nazionali o addirittura globali – sono tutti fenomeni che influenzano il funzionamento dei sistemi politici e sociali.
Qualunque sia il risultato delle presidenziali, saranno fondamentali per la governabilità le elezioni per la Camera e per un terzo del Senato: su queste la delusione popolare si sfogherà nella medesima aspra contrapposizione politico-ideologica, che vediamo oggi e che rischia di produrre un Congresso non migliore dell’attuale. Il pericolo che si profila, infatti, è che, eletto alla Casa Bianca il “meno peggio” dei contendenti, si affiderà di fatto al Congresso, diviso e anch’esso impopolare, le sorti della principale potenza di un mondo senza centro: sarà la condivisione dei poteri, o piuttosto la paralisi dell’Esecutivo, l’incubo storico dei sistemi presidenziali?
Se Atene piange, Sparta non ride. Se gli americani sono preoccupati per le prospettive politiche e istituzionali del loro Paese, dovremmo esserlo anche noi.
L’eclissi dell’America nello scenario globale, il ritorno all’isolazionismo che vedemmo tra le due guerre mondiali, il rifugiarsi della maggior potenza nel volterriano giardino di Candido per la preminenza data agli assetti interni, il distacco, infine, dagli organismi multilaterali, che pur l’America ha creato nel dopoguerra, accrescerebbero il disordine mondiale.
Portatori tradizionali dei valori che condividiamo, gli Stati Uniti, nonostante errori, esitazioni ed eccessi, restano un attore indispensabile della comunità delle nazioni, la potenza militare che ha garantito sinora l’equilibrio mondiale assumendosene la maggiori responsabilità, il socio di maggioranza dell’Alleanza occidentale.
L’America non è soltanto la maggiore economia del mondo, malgrado l’alterna rincorsa cinese, ma possiede anche un perdurante primato tecnologico ed educativo, ha il vigore innovativo che offre una cultura avanzata, non solo quella popolare che è a volte frivolamente derisa, ma soprattutto il potenziale che si esprime nella capacità di coniugare la cultura e la tecnologia in forme che influenzano il progresso della vita delle società avanzate. Possiede infine il soft power dei valori democratici e dei diritti di una società.
Con molto ottimismo, si dice che la personalità di un leader si forma nell’esercizio delle sue alte funzioni. Tuttavia, un Presidente americano eletto come “il meno peggio” difficilmente avrebbe l’autorità necessaria per aggregare il consenso popolare e guidare efficacemente la superpotenza nel mondo, né gli si riconoscerebbe in casa propria il cosiddetto bully pulpit che si esprime nell’appello al popolo caratteristico del sistema presidenziale, specie poi se fosse incapacitato o menomato dalla lotta senza quartiere di un Parlamento ostile di segno contrario.
Il Congresso possiede, infatti, una fondamentale funzione legislativa e il controllo del bilancio, un ruolo dominante nelle nomine ai vertici di una struttura statuale, che si rinnova ogni quattro anni e sarebbe attratta o intimidita dalla contestazione.
In queste condizioni, il Presidente non avrebbe poi l’autorevolezza, il prestigio, la capacità anche morale che la diplomazia internazionale richiede per mobilitare il peso che gli Stati Uniti possiedono, per esercitare credibilmente nelle crisi l’alterna missione di pressione e di persuasione. Non dimentichiamo, infine, che il Congresso detiene gelosamente il potere di dichiarare la guerra, come appresero Wilson e Roosevelt.