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Le elezioni americane e l’equilibrio mondiale

di - 15 Luglio 2016
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Una puntigliosa ricostruzione del massiccio bombardamento americano in Libia, del modo con cui Hillary giunse alla decisione, gravida delle conseguenze che seguirono l’uccisione di Gheddafi, tra cui lo svuotamento dei suoi immensi arsenali a beneficio dei terroristi – armi moderne oggi diffuse dalla Siria alla Nigeria – e l’aumento geometrico del tribalismo e della guerriglia, mette ora in risalto il ruolo personale e il temperamento irruento e impulsivo dell’allora Segretario di Stato (in Senato aveva votato a favore della guerra dell’Iraq), cui fa riscontro adesso l’operosa prudenza del successore John Kerry.
Se Donald Trump soffre principalmente dell’accusa di irresponsabilità e di improvvisazione, Hillary è vittima della scarsa fiducia di cui gode nell’elettorato e della mancanza di coerenza e trasparenza, che si rivela nella sua condotta pubblica.
Il profondo disagio, sociale più che economico, e il diffuso affievolimento del sentimento della mission dell’America nel mondo e del suo soft power, proiezione ideale degli assetti interni del Paese, compongono la scena di fondo su cui questi improbabili personaggi si battono guardando con malcelato ardore all’obiettivo supremo della Casa Bianca.
La crisi mondiale cominciata proprio qui poco meno di dieci anni fa, le crescenti diseguaglianze sociali e il senso del declino della potenza americana nel mondo costituiscono l’humus del diffuso scontento.
Assorbito dall’economia americana lo stimolo finanziario elargito subito da Washington e conseguita l’indipendenza energetica grazie alla politica di risparmio, agli idrocarburi ricavati dagli scisti bituminosi e al crollo del prezzo del petrolio, la ripresa economica è certo migliore che in Europa, ma è percepita nella pubblica opinione come insufficiente e soprattutto asimmetrica, iniqua perché privilegia i più ricchi, il famoso uno per cento che possiede la ricchezza del Paese, rispetto al 99 per cento che fatica ad arrivare alla fine del mese: un’immagine, certo, statisticamente inconsistente, ma percepita dalla massa come reale. Ed è quel che conta nelle elezioni.
Tra l’altro, all’aumento dell’occupazione, tornata ai livelli pre-crisi, non corrisponde quello della massa salariale cosicché, di fatto, è calata la qualità dei nuovi posti di lavoro con evidenti conseguenze sociali.
La progressiva de-industrializzazione degli Stati Uniti e la crescita dei servizi in percentuale del PIL contribuiscono, a loro volta, a cambiare la struttura sociale del Paese; il dilagare delle importazioni (nel 2015 il deficit di partite correnti degli Stati Uniti ha superato 6.000 miliardi di dollari) sollecita l’opposizione ai grandi accordi economici con l’Asia (TTP, concluso ma non ancora ratificato) e con l’Europa (TTIP, in corso di difficile negoziato), come l’imposizione che Trump annuncia di elevate tariffe verso la Cina, che esporrebbe il Paese agli azzardi delle guerre commerciali.
La crisi ha mortificato la classe media che si sente esclusa, le diseguaglianze sono molto cresciute e incidono sui programmi sociali; la polemica contro le banche e Wall Street si acuisce; le infrastrutture pubbliche sono consunte; l’invasione sfrenata dei finanziamenti ai candidati alle elezioni legislative, oltre che alle presidenziali, semina dubbi sull’indipendenza dei concorrenti; le divergenze sulle questioni etiche infiammano gli animi e sfociano talora nella violenza privata, non priva a volte di risorgenti accenti razziali.
I fattori etico-sociali e religiosi, infatti, tagliano anch’essi attraverso lo spettro politico: dall’assistenza pubblica per le famiglie povere all’aborto e alla violenza usata spesso ai medici che lo praticano; dal possesso personale di armi, malgrado i ricorrenti fatti di sangue che Orlando ha drammaticamente rammentato, ai diffusi timori di risorgente razzismo; dal geloso invadente potere delle congregazioni evangeliche nel sud e nel sud-ovest al potere delle lobby, che si formano aggressive attorno a interessi particolari.
Unito a quello economico, il contesto politico-sociale ha determinato la spaccatura che segna l’elettorato e attraversa gli schieramenti tradizionali caratterizzandosi nella feroce opposizione alle rispettive élites che sono avvertite come lontane dagli elettori, affette anzi quasi da un sentimento di proprietà nei loro confronti, indifferenti ai problemi dei cittadini se non nella retorica dei proclami, ossessionate dai dettami del parlare – forse anche del pensare – politically correct sino al punto da voler censurare l’opinione popolare.
È un’altra delle cause del populismo che trascina il fenomeno Trump, ma non è estranea all’elettorato democratico: sembra paradossalmente quasi una sorta di implicita…rivendica del Primo emendamento alla Costituzione che garantisce la libertà d’espressione!
Su tutti i candidati, non soltanto sui contendenti per la Casa Bianca, si è rovesciata l’espressione di un diffuso scontento che va oltre i dati socio-economici, quindi è più indicativo perché intimamente sentito, specie tra i giovani inquieti e disorientati, e colpisce anzitutto la classe politica distante e inefficace.
Ha poi screditato le istituzioni la prolungata aspra battaglia del Congresso dominato dai Repubblicani che ricorrono a mezzi estremi contro Obama e che ha paralizzato, infatti, l’attività del Governo e dello Stato, con il Senato che rifiuta persino di esaminare il candidato del Presidente alla successione dello scomparso Antonin Scalia: fino all’avvento del successore di Obama, quindi, la Corte Suprema avrà solo otto giudici e rischierà ogni giorno lo stallo.
Dal canto suo, il Presidente degli Stati Uniti in questa tesa situazione internazionale e interna esercita i poteri esecutiviquasi solo per decreto. Accanto alle istituzioni, divenute disfunzionali quando la Casa Bianca, il Congresso e persino la Corte Suprema battagliano senza quartiere, gli elettori hanno dinanzi agli occhi un panorama politico in cui la critica degenera nell’asprezza e la reciproca delegittimazione nel rifiuto del dialogo.
Il trasversalismo politico, che appare nei candidati di entrambi i partiti, sembra fatto poi per confondere ulteriormente un elettorato già disorientato e inquieto. I Repubblicani tradizionali non si riconoscono nei proclami di Trump in cui non ritrovano le amate dottrine conservatrici e l’ottimismo di Reagan. La tradizione dei Democratici è a disagio di fronte alla disinvoltura di Hillary e non apprezza il richiamo “socialista” di Sanders.
È un panorama sconfortante, in cui predomina in fondo la sfiducia nella politica e persino nei candidati e nella loro credibilità. L’immenso flusso di denaro (almeno Trump dice di autofinanziarsi…, ma adesso sta ricorrendo alla raccolta di fondi) da quando la Corte Suprema ha abrogato i limiti quantitativi dei contributi e le garanzie di trasparenza che vigevano, la stravaganza dei propositi della maggior parte degli esponenti politici e la scarsa serietà del reale fondamento delle loro idee convivono scomodamente in questa stagione elettorale.
Senza parlare dell’acredine che ciascuno mostra verso gli altri, quelli del proprio Partito in particolare, e degli insulti beffardi cui tutti ricorrono nei confronti dei rivali.
Tuttavia, guardando all’altra faccia del nazional-populismo, il ritorno del Paese “alla grandezza”, quello che gli elettori sembrano chiedere e i candidati promettere in modo confuso e velleitario è il ripristino dell’assetto interno dell’America, il suo rafforzamento produttivo e sociale, in altri termini è la necessaria premessa per la riconfigurazione del ruolo mondiale degli Stati Uniti.
Il paradosso risiede nell’aperta contraddizione tra questa domanda e le virulente critiche antisistema che accomunano nell’ostilità l’Esecutivo e il Legislativo. Tuttavia, si conferma così indirettamente una domanda politica che si dispiega su due versanti, forse complementari pur se potenzialmente contraddittori: cambiamento e credibilità.

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