Conti di Narrow banking

Premessa
Il recente episodio della prima applicazione del bail-in a quattro piccole banche del nostro paese ha generato, come era da attendersi, numerose severe critiche, sconfinate anche in scoppi di furore popolare, riguardanti due aspetti essenziali:

–        l’individuazione di un delicato punto di equilibrio tra le esigenze di un mercato dove la competizione possa esplicarsi senza interferenze dell’intervento pubblico, da un lato; e l’esigenza di evitare crisi di fiducia nel sistema bancario, dall’altro;
–        la necessità di scelte consapevoli da parte del pubblico che affida il proprio denaro alla banca, tra forme di investimento diverse.

Questi due aspetti riflettono i due versanti in cui la vigilanza bancaria si svolge: la tutela della stabilità del sistema; e il controllo che un corretto rapporto sia mantenuto tra la banca e la propria clientela (la c.d. conduct-of-business).
Quanto al primo aspetto, la normativa sul bail-in ha spostato quel punto di equilibrio, enfatizzando il ruolo degli istituti di credito come operatori di mercato, a scapito della loro natura di prestatori di servizi di pubblica utilità, portatori di passività di natura monetaria[1]. Quanto al secondo aspetto, il cliente della banca è stato – di conseguenza – accostato (sarebbe troppo dire “assimilato”) al creditore di un’impresa commerciale, correndo in parte il rischio della sua insolvenza, secondo una graduatoria di passività aggredibili in caso di insolvenza. L’onere della crisi si è spostato dalla mano pubblica al creditore stesso.
La normativa sul bail-in non è da vedere come uno sbocco ineluttabile della crisi finanziaria globale che ha avuto origine quasi dieci anni fa, tanto che per le banche di deposito degli Stati Uniti – per citare il paese più finanziariamente evoluto, ove la crisi ha avuto origine – il legislatore ha preferito non innovare la pre-esistente disciplina delle “risoluzioni”, facente capo alla FDIC. Il bail-in è una scelta deliberata a livello europeo, principalmente come conseguenza della interconnessione determinatasi tra crisi delle banche e crisi dei “sovrani”, al fine di spezzare il circolo vizioso (doom-loop) fra le due. Se questa normativa europea è destinata a permanere, occorre chiedersi come convivere con essa.

Riforme e loro probabile insufficienza
Il bail-in è parte di una serie di misure volte a affrontare la vita di una banca nella sua fase di crisi (la Bank Recovery and Resolution Directive dell’UE). In aggiunta, come noto, importanti riforme sono state adottate o proposte, non solo in Europa, dirette a rafforzarne la solidità e quindi a prevenirne la crisi. La caratteristica principale di tali riforme è stata quella di incidere su entrambi i lati del bilancio delle banche: sul lato attivo, regolando in maggior dettaglio e in sostanza riducendo le attività consentite; sul lato passivo, aumentando e diversificando gli strumenti che si qualificano o si equiparano ai mezzi propri (al fine di diminuire il rapporto tra attivo e capitale, il c.d. leverage). Ma l’attività bancaria è inerentemente rischiosa, e condotta essenzialmente a debito. Quindi, la eventualità che si determinino perdite che superino il capitale proprio, portando al fallimento della banca e colpendo creditori e depositanti, è costante e concreta, e nessuna normativa, o nessuna oculata e intrusiva vigilanza, possono eliminarla. La crisi attuale non deve far dimenticare che le crisi bancarie, proprio per il carattere intrinsecamente rischioso della attività bancaria (il suo elevato leverage), sono sempre esistite, come da sempre sono stati proposti – e talora attuati – rimedi per contenerle.
Se, come appena detto, le riforme mirano a contenere il rischio dell’attivo, e a rafforzare la qualità del passivo, le due soluzioni estreme consisterebbero nello svolgere solo attività totalmente sicure, oppure nell’operare soltanto con mezzi propri: in entrambi i casi, ciò significherebbe negare il concetto stesso di “banca”, essendo il credito per definizione insicuro, e venendo meno la natura principalmente debitoria, e monetaria, delle sue passività. Nonostante il paradosso che tali soluzioni estreme comportano, la gravità della crisi ancora in corso ha risuscitato idee di riforma che ad esse si avvicinano.

Le riforme “impossibili”
Forse, nella sua apparente completezza, quella che vale di più la pena di ricordare è la “limited purpose bank” di Laurence Kotlikoff, la quale, per quanto appena detto, neppure “banca” si può a stretto rigore definire: “le banche [sarebbero] esse stesse semplici intermediari finanziari, cui farebbero capo fondi comuni d’investimento [con diverso grado di rischio] che rappresentano mini-banche, ciascuna delle quali soggetta a un coefficiente di riserva del 100%”[2]. Ciascuno di questi fondi consentirebbe quindi ai detentori delle proprie quote (equity holders) di prendere posizioni più o meno rischiose. Ogni dollaro che ciascun fondo detiene corrisponde a un dollaro investito in esso, essendo precluso al fondo di indebitarsi. Tra la gamma di possibili fondi, spicca il “cash mutual fund” (il fondo che investe in contanti, assolvendo alla funzione “monetaria”): il suo azionista potrebbe trarre assegni sul fondo, trasferirne le giacenze, avere accesso ai POS, usare la carta elettronica per pagare acquisti anche on-line. Il cash mutual fund è l’equivalente del deposito in c/c[3] che, data l’attività in cui è investito (un conto alla banca centrale è la forma estrema), non renderebbe alcunché. Il rapporto di capitale di questo fondo ne copre l’intero ammontare; diversamente da una banca di deposito, non sarebbe necessario imporre a tale fondo forme di assicurazione simili alla assicurazione dei depositi bancari, dato il carattere privo di rischio della sua attività. La mancata corresponsione di interesse, e l’assenza di oneri assicurativi, ne allevierebbero i costi di gestione sopportati dalla “banca”, la cui attività riguardante siffatto fondo risponderebbe a un criterio di pura “pubblica utilità”. La limited purpose bank risponde infatti a una delle funzioni essenziali del sistema bancario: quella di operare al centro del sistema dei pagamenti. Il depositante/investitore è cosi’ trasformato in un detentore di quote di fondi comuni: cioè di “equity”, non di un credito o di un deposito.
L’idea della quale quella di Kotlikoff sembra una naturale, estrema evoluzione, è quella della “narrow bank[4]. Elaborata ottant’anni fa da Irving Fisher[5], e poi ripresa da Milton Friedman[6] e altri (la “Chicago School”), l’idea della narrow bank nacque in realtà da considerazioni di politica monetaria: una “banca” che raccoglie depositi trasferibili (checkable), ma investe solo in attività “sicure”, per tali intendendosi titoli di Stato a brevissimo termine, o depositi presso la banca centrale. La quantità di moneta del sistema (M1= circolazione+depositi) non potrebbe espandersi attraverso l’attività di credito bancario, per definizione preclusa alla narrow bank. Il moltiplicatore della moneta – come in Kotlikoff – sarebbe pari a 1. Impedire alle banche di creare o distruggere credito e moneta eliminerebbe, secondo i proponenti, la più grande fonte di instabilità dell’economia; inoltre, essendo le banche cosi’ intese completamente “sicure”, cadrebbe il pericolo di fughe dai depositi; infine, vi è una componente “sociale”, poiché il deposito assolutamente tutelato gioverebbe alle classi sociali più esposte al rischio bancario, in quanto meno abbienti e meno finanziariamente sofisticate. L’idea della narrow bank ha avuto sostenitori anche nel campo Keynesiano: si vedano Tobin (che ne rileva appunto l’aspetto sociale)[7] e Minsky[8]. Occorre aggiungere che, nella forma piu’ libertaria, radicale (Friedman), ogni attività creditizia al di fuori della narrow bank “andrebbe completamente esentata da quel genere di dettagliato controllo al quale le banche sono ora soggette”; mentre Tobin ritiene che la narrow bank debba coesistere con istituti di commercial banking e di investment banking, in una sorta di struttura tripartita del sistema bancario.

–        Perché tali riforme sono inattuabili (salvo non auspicabili, ulteriori disastri).
Tuttavia, riforme radicali come quelle appena menzionate, che rivoluzionerebbero le strutture bancarie esistenti, appaiono impraticabili. Tutte le moderne economie poggiano su un ruolo centrale del credito, mentre quelle riforme – al di fuori delle attività protette (cash mutual funds o narrow banking) – fanno leva o su condivisioni del rischio attraverso forme di equity (tale è la partecipazione a quote di fondi d’investimento) oppure su attività creditizie del tutto sregolate. Nelle legislazioni approvate o in discussione, perfino forme di separatezza tra attività bancaria commerciale e di investimento sono o assai imperfettamente attuate (Dodd-Frank Act americano), ovvero stentano a tradursi in norme positive (Vickers Report[9] inglese, Liikanen Report[10] europeo). Del resto, è stato osservato, con riferimento alla crisi americana, che i problemi che la hanno determinata hanno avuto le loro radici o in attività proprie del commercial banking (mutui immobiliari a soggetti privi di merito di credito), o in attività specifiche dell’investment banking (titoli esoterici di ardua valutazione): sicché, si afferma, anche col Glass-Steagall vigente la crisi sarebbe ugualmente insorta[11]. Si aggiungano ovvi motivi di lobbying da parte dell’industria bancaria, che con la narrow bank o la limited purpose bank vedrebbe essenzialmente annullato il proprio franchising.

–        Conti di narrow banking entro la struttura finanziaria esistente?
Questa breve rassegna di soluzioni impraticabili sarebbe del tutto accademica se non se ne traesse un suggerimento forse opportuno nelle attuali circostanze. I paragrafi che precedono sono stati necessari per tornare ai due aspetti citati nella premessa di questa nota: la necessità di preservare la fiducia nel sistema bancario, in costanza di bail-in, e la consapevolezza del cliente (investitore/depositante) che affida alla banca il proprio denaro.
A questo riguardo, occorre richiamare i tre principali strumenti finanziari disponibili a chi intende affidare il proprio denaro alla banca: azioni, obbligazioni, depositi. Un problema di consapevolezza del rischio da parte dell’investitore non dovrebbe porsi nel terzo. Seguendo una schematizzazione Keynesiana, nel deposito sono presenti i motivi di transazione (“whether long or short, some interval there generally is between an individual’s receipts and his expenditure”) e precauzionale (“store of value”), non il motivo speculativo[12]. Questa è la ragione monetaria del deposito. Il deposito, nella sua forma più liquida, è l’alternativa di cui il risparmiatore “Tobiniano” dispone rispetto alla detenzione del denaro sotto il materasso: detenzione di cui nessuno auspicherebbe la diffusione (ma tanto più concreta adesso, sia per i tassi d’interesse quasi azzerati sia per le preoccupazioni – gli allarmismi – per l’eventuale debolezza della banca coinvolta).
All’estremo opposto c’è il titolo azionario, “speculativo” per eccellenza. Tra le obbligazioni, è forse possibile dire che il motivo precauzionale prevale nelle “senior”, quello speculativo nelle “subordinate” (ciò spiega la graduatoria di aggredibilità in caso di insolvenza della banca, approvata dal legislatore).
Se questa prospettiva è accettabile, è arduo rispondere al quesito se l’investitore in titoli di debito impersoni un tipico caso di “azzardo morale” – la ricerca di un più elevato rendimento nell’aspettativa che egli sara’ bailed-out in caso di dissesto della banca – o se egli sia inconsapevolmente indotto a impieghi non corrispondenti ai suoi intenti meramente precauzionali.
Secondo stime della Banca d’Italia aggiornate al secondo trimestre 2015, su un totale di 921,1 mld di euro investiti dalle famiglie in depositi e obbligazioni bancarie, 494 sono costituiti da depositi sotto i 100.000 euro, e 0,1 da covered bonds (entrambi esenti da bail-in), 225 da depositi sopra i 100.000, 173 da obbligazioni senior, 29 da obbligazioni subordinate. Pur trattandosi di una cifra minoritaria rispetto ad altre forme d’investimento, questi 29 rappresentano poco meno della metà del totale delle subordinate emesse dalle banche (ci si chiede se tale quota sia simile ad altri paesi, dove forme di risparmio gestito sono più diffuse). Non essendo possibile, né auspicabile, una protezione totale delle obbligazioni senior e tanto meno delle subordinate, la consapevolezza del rischio ad esse connesso, per la quota acquistata dalle famiglie, non può essere raggiunta se non attraverso un’ampia e non facile educazione finanziaria, e un corretto rapporto tra banca e cliente. Non è tuttavia certo che “prospetti” chiari, esaurienti e correttamente spiegati possano porre rimedio a tale deficienza. La vendita al dettaglio di titoli azionari e obbligazioni subordinate alla clientela andrebbe circondata di particolari cautele, per motivi di rischio e/o complessità. C’è da chiedersi se la direttiva europea in argomento (MIFID) sia adeguata, o adeguatamente applicata. Un’alternativa più radicale consisterebbe nella proibizione di vendita al dettaglio di queste obbligazioni; ma essa andrebbe riconciliata con l’intento delle autorità di vigilanza di rafforzare il patrimonio della banca con strumenti – come le subordinate – che integrino il capitale azionario della banca stessa, in una fase in cui tale rafforzamento è particolarmente avvertito.
L’idea della narrow bank potrebbe essere considerata, non per una radicale riforma del sistema bancario, ma per introdurre un nuovo strumento entro la compagine prevista dalla normativa esistente. I conti di narrow bank si affiancherebbero agli altri strumenti offerti al cliente dalla banca: sarebbero caratterizzati da tutte le modalità di utilizzo dei depositi in c/c, mentre i conti di riserva della banca presso la banca centrale ne sarebbero la garanzia (il back up) . Essi sarebbero segregati dal resto del passivo, inclusi i depositi, per evitarne l’utilizzo da parte della banca per scopi meno sicuri, e piu’ profittevoli. In altre parole, i conti di narrow bank, al passivo della banca, avrebbero come contropartita all’attivo i conti intrattenuti dalla banca con la banca centrale. Essendo la remunerazione di quest’ultimi bassa, o nulla, o negativa (come attualmente nell’eurozona), i conti di narrow bank non renderebbero alcunché, rappresentando il trade-off tra un utilizzo uguale al deposito in c/c, e la sua sicurezza. La mancata corresponsione di interessi su tali conti, mentre la stessa assicurazione dei depositi sarebbe superflua, compenserebbero in parte per la banca l’onere di tenuta di tali conti, che risponde al solo scopo di pubblica utilità.

–        Obiezioni
Anche un’applicazione molto limitata del narrow banking non può prescindere da diversi aspetti critici, riconducibili al fatto che non è possibile sapere a priori quale dimensione assumerebbero i conti di narrow banking rispetto ai depositi o altri strumenti, né come queste dimensioni si evolverebbero col variare delle prospettive di stabilità del sistema bancario o di singoli istituti di credito (presumibilmente muovendosi in senso inverso a tali prospettive) . Tra gli aspetti critici:
quante sono le riserve libere delle banche presso la banca centrale per accomodare la richiesta di conti di narrow banking, avendo presente che secondo i dati sopra citati l’importo dei depositi oltre 100.000 euro si aggira sui 225 miliardi? Se vi fosse uno sbilancio, i conti di narrow banking andrebbero coperti con attività diverse dai conti di riserva presso la banca centrale, che sarebbero a ridotto ma crescente livello di rischio, come titoli pubblici a brevissimo termine.[13] Secondo una proposta, questi conti, così ampliati, diverrebbero una sorta di “covered deposits”, coperti da una più ampia gamma di attività, la cui qualità andrebbe costantemente “monitorata” dall’autorità di vigilanza[14].
se i conti di narrow banking sono immobilizzati presso la banca centrale, di quanto l’attività di prestito della banca sarebbe suscettibile di ridursi (limitazione del “moltiplicatore”)?
di quanto spostamenti, soprattutto se repentini, da conti di narrow banking a conti di deposito, e viceversa, influirebbero sulla stabilità finanziaria?
Il modello di narrow banking fu stroncato con l’osservazione per cui “usarlo per affrontare i potenziali problemi della illiquidità bancaria è analogo a cercare di ridurre gli incidenti automobilistici limitando a zero la velocità delle automobili”[15]. Erano gli anni Novanta, in piena deregolazione bancaria e prima della crisi. Può trovare spazio una nuova riflessione.

Note

1.  Vds. sul punto, recentemente: Visco I.: Keynote speech, Workshop on Stability of the Banking System, European University Institute, maggio 2016.

2.  Kotlikoff L.: Jimmy Stewart Is Dead. Ending the World’s Ongoing Financial Plague with Limited Purpose Banking, John Wiley & Sons, 2010, cap 5, p 151.

3.  p 131.

4.  È difficile rendere in italiano l’espressione narrow bank. La traduzione letterale – “banca ristretta” – è inadeguata.

5.  Fisher I.: 100% Money, Adelphi, 1935.

6.  Friedman M.: A Program for Monetary Stability, in Kendall (ed): Readings in Financial Institutions, Houghton & Mifflin, 1965.

7.  “Le persone che danno priorità agli aspetti di sicurezza, con sacrificio dell’interesse, per lo più appartenenti alle classi indigenti e meno sofisticate [finanziariamente], sarebbero tutelate. Coloro che desiderano sicurezza e liquidità su somme più grandi sarebbero soddisfatti” (Tobin J.: The Case for Preserving Regulatory Distinctions, in Federal Reserve Bank of Kansas City: Restructuring the Financial System, 1987, p 173).

8.  Minsky H.: Financial Instability and the Decline (?) of Banking: Future Policy Implications, w.p. 127, The Jerome Levy Research Institute of Bard College, Oct 1994. Vale la pena riportarne un passo”: “possiamo ora avere un sistema bancario nel quale le banche detengono riserve portatrici di interesse presso la banca centrale pari al 100% dei loro depositi in c/c, e la banca centrale detiene titoli di stato in contropartita delle proprie passività (circolazione e riserve della banche stesse)” (pp 18-20).

9.  Independent Commission on BankingFinal Report, Sept 2011.

10.  High-level Expert Group on Reforming the Structure of the European Union Banking Sector – Final Report, Oct 2012.

11.  Wallison P.J.: Did the “Repeal” of the Glass Steagall Have any Role in the Financial Crisis? Not Guilty. Not Even Close, in Tatom J. (ed): Financial Market Regulation. Legislation and Implications, Springer, 2011.

12.  Vds Keynes J.M.: A Treatise on Money, Macmillan, 1965 (pr. ed. 1930), vol 1, chap 3; The General Theory of Employment, Interest and Money, Harcourt, Brace and Co, s.d. (1936), p 170.

13.  L’argomento sarebbe di particolare rilievo nel nostro paese, dove c’è forte sproporzione tra depositi e riserve del sistema bancario presso la Banca d’Italia. Negli Stati Uniti, le sole riserve libere presso la Federal Reserve ammontavano a fine 2015 a $1977 mld., mentre i depositi totali in c/c delle famiglie (cioè non distinguendo tra depositi sopra o sotto il limite assicurato) erano pari a $1222 mld (il dato include anche il contante). Questa “capienza” delle riserve bancarie non sempre si verifica. In Italia la situazione sembra essere opposta: i soli depositi delle famiglie sopra il limite assicurato eccedono di gran lunga le riserve (obbligatorie e libere) presso la Banca d’Italia (225 mld –stima al giu.’15- contro circa 23 mld – a fine ‘15). Vds Federal Reserve Board: Flow of Funds; www.bancaditalia.it/Bilancio e Rapporto sulla stabilita’, cit

14.  Cfr la lettera al Financial Times del professore belga Eric De Keukeneer (FT, 26/4/2016)

15.  Wallace N.: Narrow Banking Meets the Diamond-Dybvig Model, in Federal Reserve Bank of Minneapolis Quarterly Review, winter 1996, p 3