Brexit – Dal referendum al recesso

Il referendum britannico  pro-Brexit comporta una conseguenza immediata e diretta per il sistema giuridico della UE, e un’altra meno immediata ma inevitabile e centrale[1].
Il primo effetto riguarda l’Accordo UK – UE del 19 febbraio scorso. Come risulta dalle Conclusioni del Consiglio europeo in pari data, i 28 Stati membri hanno convenuto all’unanimità che, nel caso di esito referendario favorevole all’uscita, l’Accordo in questione sarebbe cessato di esistere. Si tratta di una conseguenza automatica, non legata a particolari formalità, che si è già prodotta per il semplice fatto del risultato referendario.
La decadenza dell’Accordo risponde ad una ratio ben precisa.  L’Accordo è stato concluso per favorire un esito positivo del referendum. Costituiva una concessione per il governo di Cameron per superare lo scoglio della consultazione popolare. Una volta mancato l’obiettivo, qualsiasi giustificazione dell’Accordo è venuta meno.
Vale la pena di notare la connotazione giuridica attribuita alla prevista decadenza. Non ci si è limitati a parlare di inefficacia dell’atto, o anche di sua invalidità o annullamento. Si è fatto ricorso a una qualificazione giuridica più forte, quella dell’inesistenza: si è precisato che l’Accordo “cesserà di esistere”.
Ne consegue che quanto previsto nell’Accordo non potrà essere invocato come precedente . Le interpretazioni del diritto UE ivi contenute, in materia di “unione sempre più stretta”, “multicurrency Union”, “circolazione dei lavoratori”, sono cancellate. Erano deroghe eccezionalmente pattuite in vista di una vicenda del tutto speciale, e sono state definitivamente travolte dall’esito del referendum. Altri Stati membri non potranno dunque avvalersene in futuro.
Vengo all’altra conseguenza del referendum, non immediata, ma inevitabile e centrale, vale a dire l’uscita del Regno Unito dall’Unione. Non si tratta di un effetto automatico del voto referendario, ma certamente ne rappresenta la inequivocabile finalità. L’uscita dall’Unione passa attraverso la procedura di recesso di cui all’articolo 50 TUE.

Questa disposizione del Trattato solleva una serie di questioni che mi provo di riassumere come segue.

a) Il recesso dalla UE si può attuare solo in base al citato art. 50. Altre vie, mutuate dal diritto internazionale generale, appaiono impraticabili nelle circostanze. Azioni unilaterali del Regno Unito al di fuori dell’art. 50 costituirebbero un illecito ai sensi sia del diritto UE sia del diritto internazionale.

b) La procedura dell’art. 50 prende avvio su iniziativa e richiesta dello Stato recedente, non può essere attivata dalle istituzioni dell’Unione. Queste possono sollecitare il Regno Unito a farlo, ma non determinare unilateralmente l’inizio della procedura.

c) L’iniziativa dello Stato recedente, quando assunta, comporta una notifica al Consiglio europeo dell’intenzione di lasciare l’Unione. L’organo competente ad effettuare la notifica, come pure le procedure interne che la precedono, dipendono ovviamente dall’ordinamento costituzionale dello Stato recedente, nel nostro caso quello del Regno Unito. Una semplice comunicazione circa l’esito dell’avvenuto referendum non basta ai fini dell’art. 50; ci vuole una vera e propria notifica dell’intenzione di recedere.

d) A seguito della notifica si apre un negoziato fra l’Unione e il Regno Unito sulle “modalità del recesso”, vale a dire sulla disciplina transitoria applicabile nel passaggio dallo status di membro a quello di non membro. Il negoziato deve tenere conto anche delle “future relazioni con l’Unione”. L’art. 50 distingue dunque tra “modalità del recesso” e “future relazioni”. Solo le prime formano oggetto specifico del negoziato, mentre delle seconde si deve unicamente tenere conto. Non è escluso tuttavia che, se le parti concordano di farlo, l’accordo si estenda anche alle seconde. L’art. 50 obbliga le parti a negoziare in buona fede in vista del raggiungimento dell’accordo (pactum de negotiando), ma l’accordo non deve essere necessariamente concluso, qualora si manifestino divergenze insuperabili.

e) Il negoziato coinvolge le quattro istituzioni principali dell’Unione: il Consiglio europeo detta gli “orientamenti”, vale a dire il mandato che la Commissione deve seguire in quanto negoziatore dell’accordo, che poi è concluso dal Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo. Il Consiglio europeo delibera con il consenso di tutti i suoi membri, il Consiglio a maggioranza qualificata, il Parlamento europeo a maggioranza dei suffragi espressi. La circostanza che a monte si collochino le direttive del Consiglio europeo, conferisce al negoziato un’impronta altamente politica, ribadita dalla necessaria approvazione del Parlamento europeo. Alle delibere e decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio non partecipa il rappresentante dello Stato che recede dall’Unione.

f) Lo Stato recedente cessa di far parte dell’Unione alla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso, o al più tardi due anni dopo la notifica di cui al precedente punto c), se non interviene prima l’accordo di recesso. La scadenza dei due anni può essere prorogata, ma solo con delibera unanime del Consiglio Europeo. Fino all’uscita dall’Unione, il Regno Unito è soggetto a tutte le regole e alle procedure della UE. Successivamente, gli si applicano le disposizioni dell’accordo di recesso:  in sua assenza, soccorrono i principi generali di diritto. Quanto alle relazioni future con l’Unione, quelle commerciali, se non concordate, ricadono sotto il regime ordinario del WTO.

Come risulta dai rilievi che precedono, la disciplina dell’art. 50 lascia margini di incertezza quanto ai tempi dell’uscita del Regno Unito  e ai contenuti dell’accordo di recesso. Poiché dal Regno Unito dipende l’avvio della procedura, e la scadenza dei due anni (salvo proroga all’unanimità) decorre da quella data, il Regno Unito conserva una certa discrezionalità circa il momento effettivo della separazione. E’ sufficiente che ritardi la notifica ex art. 50. Quanto ai contenuti dell’accordo di recesso, e alla sua estensione ai successivi rapporti con l’Unione, molto dipenderà da considerazioni di carattere politico, suscettibili di determinare un atteggiamento negoziale più o meno cooperativo delle parti. Un tempestivo chiarimento sui due fronti (tempistica dell’uscita nonché portata dell’accordo di recesso) è certo nell’interesse dell’Unione, specie per i riflessi nei rapporti fra Stati membri. Ma dovrebbe interessare anche al Regno Unito: fino a che continua a far parte dell’Unione, deve rispettare in toto gli obblighi che ne conseguono, mentre l’esercizio dei diritti risulterà inevitabilmente pregiudicato dalla prospettiva del recesso.
Un’ultima osservazione: l’art. 50 costituisce il passaggio obbligato per il Regno Unito, e per altri Stati Membri che dovessero maturare in futuro l’intenzione di lasciare l’Unione. Non solo: la procedura dell’art. 50 si impone anche per Stati euro che volessero eventualmente recedere dall’unione monetaria. Allo stato attuale del diritto della UE, non è consentito di farlo se non lasciando l’Unione nel suo complesso. In altri termini non è possibile uscire dall’euro e nel contempo rimanere  membri dell’Unione. Il ricorso alla procedura dell’art. 50 sarebbe ineludibile anche in questo caso.

Note

1.  Il contributo è in corso di pubblicazione sulla rivista Affari internazionali.