Sulla natura del problema bancario

Il problema bancario italiano attuale va oltre le specifica condizione di singole banche (su cui non sono particolarmente informato). Ma a mio avviso non è neppure un problema di struttura, assetti morfologici, ingegneria di sistema. E’, piuttosto, una questione di contesto esterno, che chiama l’industria finanziaria a una reazione, a una non facile risposta.

1. Che non si tratti di un problema di struttura è confermato da succinti richiami al passato, lontano e recente.
Nella storia dell’Italia unita la struttura bancaria è cambiata tre volte in modo traumatico:
– con la crisi del 1873, che vide il prevalere delle banche mobiliari, “alla francese”;
– con la crisi del 1893, che vide la nascita e l’affermarsi delle banche miste, “alla tedesca”;
– con la crisi del 1933, che vide Menichella costretto a ricorrere a banche “pubbliche”.
Tra il 1980 e il 2000 l’intero sistema finanziario è invece pervenuto senza traumi, secondo un disegno, alla configurazione attuale: intermediari privati, articolazione di operatori e strumenti, risparmio delegato, uso moderato dei derivati, mercati monetari e mobiliari efficienti, funzionalità di pagamenti e transazioni in titoli, apertura internazionale, concorrenza, vigilanza della Banca d’Italia orientata a cautela, stile “originate to hold” più che “to distribute” [1].
Le riunioni di Sadiba – a diverse delle quali ho avuto l’onore di partecipare – hanno vissuto questa complessa, pluriennale metamorfosi: dal sistema Menichella-Carli all’attuale. Attraverso la marea di direttive europee e due Testi unici si è realizzato un buon compromesso fra la tradizione imperniata sulla legge del 1936 e le tendenze internazionali di matrice, questa volta, anglosassone. Nelle sue forme essenziali il sistema pare a me adeguato. La prova è che salvo casi marginali esso – grazie anche alla efficace supervisione della Banca d’Italia – ha retto alla più grave delle recessioni, a un crollo del Pil del 10% fra il 2007 e il 2014. La tenuta ha fatto seguito a un’espansione dell’intermediazione bancaria prossima a cento punti di Pil fra il 1998 e il 2007.

2. Naturalmente, per data struttura, perfezionamenti sono possibili, in alcuni casi sono in atto. La concentrazione può aumentare senza pregiudizio per la concorrenza, non solo fra le banche popolari e cooperative. Un mercato dei prestiti dubbi e una più agevole realizzazione delle garanzie aiuterebbero, nel raccordo con una riforma organica del diritto fallimentare quale quella tracciata da Renato Rordorf. I costi degli ipertrofici sportelli sono riducibili. Così quelli del personale se, pur essendo scesi rispetto al totale dell’attivo (dall’1,3% del 1998 allo 0,7% del 2014), arrivano a incidere per due terzi sul margine d’intermediazione. Il capitale di migliore qualità è salito dal 7% al 12% degli attivi a rischio fra il 2008 e il 2015, nonostante l’erosione degli utili. Ma la capitalizzazione non è uniforme, specie fra le banche minori. Ora che il Roe è tornato sul 5% vi è margine per innalzarla ancora. La crisi che ha spinto l’industria finanziaria americana a un passo dal “liquefarsi” – la parola “meltdown” è di Ben Bernanke – ha molte madri, ma una di esse è stato certo il leverage siderale di tanti intermediari. Al tempo stesso è difficile immaginare banche senza leverage, come voleva Milton Friedman quando proponeva il narrow banking.[2]< Le banche possono limare la quota dei titoli pubblici italiani sul loro attivo di bilancio (10% nel 2015). Soprattutto, vanno smaltiti i crediti deteriorati: i 360 miliardi (120 nel 2008) che la più grave recessione della storia patria ha fatto ricadere sulle banche, al di là della loro capacità di valutare il merito di credito delle imprese. A giugno 2015 le garanzie reali e personali ammontavano a 130 miliardi, rispetto a sofferenze nette pari a 85 miliardi. I dati più recenti denotano una prima diminuzione del fenomeno-sofferenze, sulla scia della pur modesta ripresa avviatasi nel 2015. Ciò rassicura, ma può non bastare, qualora queste partite tornassero ad aumentare. Inoltre, anche qui vi è varianza. 3. La qualità dei prestiti e la loro sorte dipendono dalla capacità degli uomini dei fidi di valutare il merito di credito della clientela. Ma nell’attuale congiuntura dipendono ancor più dal quadro macroeconomico in cui alle banche tocca di operare: crescita, prezzi, tassi d’interesse. Dopo il crollo della lira del 1992 il Pil diminuì dell’1% nel 1993 e la quota delle sofferenze sugli impieghi balzò dal 5% del 1992 al 10% del 1996 (oggi è salita dal 4% del 2010 al 10,5% del 2015)[3]. Le sofferenze aggiuntive vennero riassorbite in quattro anni, tornando al 5% nel 2001. Ciò poté avvenire perché l’economia mondiale cresceva del 3% l’anno e quella dell’Eurozona del 2,5%. I prezzi aumentavano più del fatidico 2%. I tassi a lunga, pur diminuendo, superavano l’inflazione di circa tre punti, dando spazio ai margini d’interesse bancari. In Italia la crescita era dell’ordine del 2%, i profitti delle imprese erano sui massimi storici e anche il reddito delle famiglie aumentava, consentendo il rimborso e la rotazione dei debiti verso le banche[4].
L’attuale contesto è per più versi peggiore di allora. Dovrebbe, potrebbe, migliorare.
Il ritmo di sviluppo di medio termine dell’economia mondiale supera il 3% Alcuni temono uno scenario di ristagno globale. Io sono più positivo. Una Cina che si riforma e cresce in equilibrio del 6/7%, pesando il 20% circa sul Pil reale del globo, offre un contributo d’impatto alla domanda mondiale di oltre un punto percentuale, non inferiore a quello che offriva quando il suo Pil pesava il 10% e cresceva del 10%. Gli Stati Uniti – altro 20%, o quasi, del Pil mondiale – a differenza degli europei sanno usare pragmaticamente il bilancio pubblico e lo faranno se la domanda interna dovesse rallentare, in un anno di elezioni politiche.
I tassi a lunga prossimi allo zero non dipendono da un eccesso del risparmio sull’investimento su scala planetaria (come molti economisti ortodossi pensano, sulla scia di Irving Fisher) [5]. Non dipendono nemmeno dalle politiche monetarie delle banche centrali, che non controllano i tassi a lunga, al più i tassi a breve. Dipendono dalle aspettative, da quelle che Keynes chiamava “convenzioni”[6]. Su scala mondiale la convenzione sinora prevalente è stata di rischio di deflazione, dovuto non alla bassa domanda, ma al cedimento dei costi, del lavoro e del petrolio. Al di là delle politiche monetarie espansive, inflazionistiche nelle intenzioni ma non nei risultati, la convenzione muterà e i tassi a lunga torneranno “normali” se alcuni costi risaliranno. L’eccesso d’offerta di lavoro in agricoltura in paesi come la Cina non è illimitato, si va restringendo, le spinte salariali montano. I produttori di petrolio reagiranno a prezzi ormai stracciati. I prezzi spot e soprattutto forward lo segnalano.
Chi fa davvero disperare è l’Eurozona. La crescita europea è inchiodata su ritmi inferiori alla metà della media mondiale. La politica di bilancio espansiva latita. Sembra di riassistere alle antiche polemiche fra Keynes e la Treasury View dello Scacchiere in InghilterraMancano gli investimenti pubblici. E’ assurdo costringerli nel vincolo di Maastricht. Sosterrebbero la produttività. Avrebbero un moltiplicatore della domanda globale compreso fra 2 e 3[7]. Quindi sarebbero in grado di autofinanziarsi nel volgere di un biennio attraverso il gettito consentito dall’aumento del Pil che attiverebbero. Un punto di Pil o due di maggiori investimenti pubblici per buoni progetti contribuirebbero non poco alla ripresa e allo sviluppo dell’Eurozona.     La Germania è invece tetragona sulla linea del rigore. Sorprende che la imponga in primo luogo a se stessa. Si ostina a farlo sebbene il prodotto nazionale sia inferiore al potenziale, il bilancio in pareggio, le infrastrutture carenti, gigantesca la cessione di risorse all’estero attraverso l’avanzo di parte corrente gigantesco (quasi 300 miliardi di dollari, 9% del Pil). Il cittadino tedesco paga prezzi economici pesanti a una strategia economica che evidentemente il suo governo rivolge alla primazia politica di Berlino da paese creditore del resto d’Europa.

Sempre nell’area dell’Euro, la politica monetaria, la vigilanza, le regole sulle crisi bancarie agiscono in modo contraddittorio[8]. La politica monetaria è divenuta espansiva – ora forse troppo! – dopo l’errore compiuto fra il luglio del 2012 e il settembre del 2014, allorché la BCE ridusse di un terzo il suo bilancio, permettendo ai rischi di deflazione di materializzarsi. Ma il quantitative easing è inefficace anche perché trova ostacolo negli altri due bracci del governo della finanza. Nella vigilanza la filosofia è di concentrare – “internalizzare” – i rischi entro ciascuna banca. Dalla metà del 2013 ogni intervento sugli intermediari in difficoltà con danaro pubblico è precluso dall’ordinamento europeo. Lo stesso credito di ultima istanza con cui la banca centrale può circoscrivere il “contagio” dell’intermediario insolvente alle parti sane del sistema è fortemente vincolato[9]. La capitalizzazione è considerata la primaria modalità di “internalizzare” i rischi [10]. La giovane supervisione europea – che si è voluta separare dalla politica monetaria – preme sulle banche perché si capitalizzino. Ma nell’attuale congiuntura le banche incontrano difficoltà sia nel collocare azioni sia nel realizzare utili. Sono allora indotte a ricapitalizzarsi contenendo i prestiti, così da abbassarli rispetto al capitale di cui già dispongono. Il contrasto con l’indirizzo espansivo della politica monetaria è ancor più stridente se si considera l’impatto possibile del “bail in”: una discutibile idea, ancor peggio realizzata[11]. Lo scenario peggiore è che i risparmiatori si spaventino e ritirino i finanziamenti alle banche costringendole a ridurre a propria volta i prestiti all’economia. Ciò sarebbe traumatico in Italia, nel passaggio da un regime in cui per decenni i creditori delle banche non avevano mai subìto perdite a un regime in cui le subirebbero.
Contribuente e risparmiatore sono, in larga maggioranza, la stessa persona: proteggere il primo a scapito del secondo è privo di senso. Al risparmiatore/contribuente può apparire preferibile pagare maggiori imposte piuttosto che perdere i danari investiti in banche dissestate. Inoltre, quando lo Stato interviene contro l’instabilità bancaria, il bilancio pubblico, lungi dal risentirne, nel tempo ne beneficia. Infatti, vengono acquisiti cespiti patrimoniali nel momento in cui le quotazioni sono minime; seguono guadagni in conto capitale allorché, superata la crisi, quegli stessi cespiti vengono ceduti a quotazioni più elevate. Cito due casi. Nella crisi del 2008-2009 i sostegni pubblici alla finanza privata hanno generato da ultimo benefici per il contribuente americano pari a 200 miliardi di dollari; con essi, il governo USA ha fra l’altro coperto le perdite di 15 miliardi accusate sugli aiuti TARP concessi all’industria automobilistica decotta[12]. In Italia, il massiccio intervento del 1933 attraverso l’IRI si è chiuso con le privatizzazioni delle imprese del gruppo, liquidato nel 2002: nei 70 anni il tasso reale composto di rendimento per lo Stato è stimabile nel 2% l’anno[13].

4. Le riunioni di Sadiba hanno vissuto l’emergere dei due mali che affliggono da anni l’economia italiana: lo scemare tendenziale della produttività e il successivo cedimento della domanda globale. In un contesto economico europeo quale quello descritto e che largamente sfugge al loro controllo, cosa possono fare le banche, e più in generale la finanza, per curare i due mali?
Non ritengo che la finanza possa far molto per sostenere la domanda globale e accelerare la pallida ripresa ciclica che si è avviata nel 2015. Può riuscirvi solo una politica fiscale imperniata su investimenti pubblici in infrastrutture utili e su minori imposte, con l’equilibrio del bilancio affidato alla lotta all’evasione e soprattutto al contenimento degli sprechi e dei furti su forniture, appalti e trasferimenti vari. Quando la politica fiscale rimetterà in moto consumi e investimenti privati la domanda di credito bancario aumenterà e troverà soddisfazione.
Se sul fronte della domanda globale, come diceva Joan Robinson, per data politica monetaria “la finanza segue”, le banche – e i mercati finanziari possono invece recare un contributo nel riportare le imprese italiane sulla via maestra: ricercare il profitto attraverso l’efficienza, l’innovazione, il progresso tecnico, in una parola attraverso la produttività. Secondo le ultime stime dell’ISTAT dal 1995 al 2014 la produttività del lavoro è salita solo dello 0,3% l’anno, mentre la produttività totale dei fattori – che soprattutto conta – è addirittura diminuita dello 0,3% l’anno, a seguito del cedimento pari all’1,2% l’anno della produttività del capitale[14].
Le banche – come i mercati finanziari – possono contrastare lo scemare della produttività nell’intera economia almeno in due modi.
Il primo modo consiste nel favorire il dinamismo dimensionale delle imprese. Le aziende non finanziarie italiane, da sempre “piccole donne che non crescono”, con moto perverso diventano sempre più piccole. Le diseconomie di scala sono pesanti. Penso in particolare all’industria manifatturiera. Per carenza di produttività essa ha visto salire del 40 per cento dal 2000 a oggi un costo del lavoro per unità di prodotto rimasto invece invariato in Germania. Il pulviscolo delle imprese manifatturiere italiane minori – meno di 10 dipendenti – esprime un valore aggiunto per addetto pari a non più della metà della media nazionale. Nel confronto con le analoghe piccole aziende inglesi, francesi e tedesche la produttività italiana è compresa fra il 50 e il 75 per cento. Al contrario, le nostre imprese manifatturiere di media dimensione – da 50 a 250 dipendenti – hanno una produttività del lavoro superiore del 25 per cento alla media nazionale e del 15 per cento alle concorrenti inglesi, francesi e tedesche di analoga dimensione. Il passaggio dalla minima alla media dimensione comporterebbe quindi per l’impresa italiana un balzo all’insù della capacità competitiva. Ma anche i maggiori gruppi industriali italiani sono piccoli nel confronto internazionale. Esprimono una produttività del lavoro del 10/15 per cento inferiore a quella dei principali concorrenti degli altri tre paesi europei. Inoltre insistono su produzioni che, anche quando generano profitti, non sono più sulla frontiera del progresso tecnico.
Il secondo modo, che ricomprende il primo, chiama le banche a finanziare non solo, come è ovvio, le imprese che non registrano perdite, ma preferibilmente le imprese che realizzano i profitti grazie alla produttività, e non con altri sistemi. Quello della produttività è divenuto ormai il principale limite alla crescita di trend, al di là del ciclo, della nostra economia. Dipende dalle diseconomie di scala, ma anche da bassi investimenti in ICT e R&D, prodotti tradizionali, regresso tecnico, al fondo inadeguata imprenditorialità[15]. Solo il profitto da produttività è solido, durevole, tale da garantire il pagamento dell’interesse e il rimborso del fido. Come la storia recente conferma, non è questo il caso degli utili che nascono da posizioni di rendita, aiuti pubblici, bassi salari, deprezzamento del cambio.

5. L’uscita dalla recessione e il ritorno alla produttività sono in primo luogo affidati alla imprenditorialità delle aziende italiane.
A monte, sono affidati a una politica economica, europea e nazionale, che potenzi con investimenti pubblici la domanda e le infrastrutture, schivi la deflazione, risani il bilancio, allenti la pressione fiscale e i gravami burocratici, promuova fra i produttori la concorrenza dinamica, a colpi di innovazioni e non solo di prezzi.
La finanza non può fare miracoli. Può tuttavia dare un contributo importante sia in via diretta sollecitando le imprese, sia premendo sui responsabili affinché quella politica economica venga attuata.
L’economia italiana tornerà a crescere solo se vi sarà il concorso delle imprese, dello Stato, della finanza, in un quadro europeo che superi l’ortodossia, la Treasury View contro la quale si batté Keynes.

Note

1.  P. Ciocca, The Italian Financial System Remodelled, Palgrave Macmillan, London, 2005.

2.  La proposta era piena copertura dei depositi-moneta con base monetaria e prestiti offerti da una separata istituzione, interamente finanziati con capitale proprio (M. Friedman, A Program for Monetary Stability, (1960), Fordham University Press, New York, 1992, spec. pp. 69-70). Eugene Fama è arrivato a proporre per le banche commerciali un rapporto fra capitale e attivi del 40-50% (cfr. A. Amati-M. Hellwig, The Bankers’ New Clothes, Princeton University Press, Princeton, 2013 p. 308).

3.  Il totale dei prestiti deteriorati passò dal 7% al 14% fra il 1992 e il 1996, mentre è salito dall’ 8% del 2010 al 18% nel 2015.

4.  Il dissesto più grave riguardò il Banco di Napoli. Nella primavera del 1996 il Tesoro ricapitalizzò il Banco con 2000 miliardi di lire. Nel dicembre di quell’anno il Banco conferì alla SGA crediti problematici e partecipazioni per un valore lordo di 16839 miliardi (1,7% del Pil), il 94% dei quali venne poi dalla SGA recuperato.

5.  I. Fisher, The Theory of Interest, Macmillan, New York, 1930.

6.  J. M. Keynes, The General Theory of Employment Interest and Money, Macmillan, London, 1936, p. 152. Le due fondamentali teorie dell’interesse, di Fisher e Keynes, sono criticamente esaminate in P. Ciocca-G. Nardozzi, The High Price of Money. An Interpretation of World Interest Rates, Clarendon Press, Oxford, 1996.

7.  IMF, Is It Time for an Infrastructural Push? The Macroeconomic Effects of Public Investment, in World Economic Outlook, October 2015, Ch. 3.

8.  Sui limiti del central banking europeo rinvio a P. Ciocca, Stabilising Capitalism. A Greater Role for Central Banks, Palgrave Macmillan, Londo, 2016.

9.  Secondo il principio comunitario che vieta alle banche centrali dei singoli paesi membri (NCBs) di sostenere, anche indirettamente, i bilanci pubblici, “the financing by NCBs (…) to support insolvent credit and/or other financial institutions is incompatible with the monetary financing prohibition” (ECB, Convergence Report, Frankfurt, 2008, p. 24).

10.  C. A. E. Goodhart, Financial Regulation, in S. Eijffinger-D. Masciandaro (eds.), Handbook of Central Banking, Financial Regulation and Supervision. After the Financial Crisis, Elgar, Chelthenam, 2011.

11.  Gli Stati Uniti si sono guardati bene dall’inserire tramite il Dodd-Frank Act del 2010 nel vecchio Federal Deposit Insurance Act regole automatiche che imponessero l’internalizzazione delle perdite fino a colpire i depositi non assicurati delle depository institutions (le banche con passività monetarie).

12.  T. F. Geithner, Stress Test. Reflections on Financial Crises, Random House Books, London, 2014, Tab. p. 497.

13.  P. Ciocca, Storia dell’IRI. L’IRI nella economia italiana, Laterza, Roma-Bari, 2014.

14.  ISTAT, Misure di produttività, Roma, 3 Agosto 2015.

15.  S. Trento-F. Faggioni, Imprenditori cercasi. Innovare per riprendere a crescere, il Mulino, Bologna, 2016.