I lavoratori e la crisi

1. Il movimento dei lavoratori fu corresponsabile della stagflation italiana degli anni ’70 e ’80 del Novecento. Tra acute tensioni sociali i salari esplosero fra il 1969 e il 1985: +18% l’anno, in media ben 3 punti oltre l’inflazione. Ciò avvenne sebbene il tasso di disoccupazione salisse (dal 5% del 1969 al 12% del 1987-1989). La crescita del Pil inaugurò la sua parabola discendente (5,5% negli anni ’60; 3,8% nei ’70; 2,4% negli ’80; 1,6% nei ’90).
Sempre fra il 1969 e il 1985 la produttività peraltro aumentò, seppure meno dei salari reali (+2,3% l’anno quella del lavoro, +1% quella totale dei fattori o progresso tecnico). I profitti caddero. Ma sotto la pressione dei costi le imprese accrebbero quasi del 5% l’anno lo stock netto del capitale produttivo[1]. Sostituirono così lavoro (l’occupazione crebbe meno del capitale, solo dell’1,3% l’anno) e introdussero innovazioni.
Altri fattori concorsero alla stagflation: il petrolio carissimo, la finanza pubblica squilibrata, le svalutazioni ricorrenti della lira, l’alto costo del danaro, le “sproporzioni” da stravolgimento della costellazione dei prezzi relativi dei prodotti e degli input. Il rispettivo impatto di ciascuno shock è incerto, ma la crisi salariale e nelle relazioni industriali fu una rilevante concausa[2].

2. Dopo una fase di transizione tra lo scorcio degli anni ’80 e il cedimento della lira del settembre del 1992 prese avvio la moderazione salariale e nei rapporti di lavoro che tuttora persiste. L’accordo antinflazionistico “Ciampi” del luglio 1993 segnò la svolta. Dalla vigilia dell’euro al 2015 i salari nominali sono mediamente levitati del 2% l’anno, al pari dei prezzi al consumo. Come i salari reali, anche la produttività del lavoro ha ristagnato. Ma ancor peggio è andato il progresso tecnico: la produttività congiunta di lavoro e capitale (che aveva segnato un +1,6% l’anno nel 1985-1990) è caduta (dello 0,3% l’anno) nell’intero ventennio 1995-2014, con una modesta ripresa (+0,4% l’anno) nel 2009-20014[3]. La produttività del lavoro ha ristagnato anche nella lieve ripresa del 2015, sia gli occupati (+0,8%) sia le ore lavorate (+1,0%) essendo aumentati come il Pil (+0,8%). Negli anni Duemila si è investito meno. Gli investimenti lordi sono diminuiti dal 20,4% del Pil nel 2000 al 16,7% nel 2015 (dal 14 all’11% escludendo l’edilizia residenziale). Dal 2009 la caduta del 28% degli investimenti complessivi si è riflessa dapprima in un rallentamento, poi dal 2013 in una flessione in valore assoluto dell’ intero stock netto di capitale del Paese[4].
La stasi del Pil e della produttività avveniva anche allorchè i profitti risalivano – fino al 2001 – e in seguito, pur diminuendo, restavano elevati, prima del crollo che attraverso le recessioni post-2007 li comprimeva ai minimi dal dopoguerra[5]. Gli utili vennero rivolti alla riduzione dell’indebitamento (i prestiti sono scesi dal 45% delle passività delle imprese nel 1995 al 32% nel 2005, attestandosi poi su tale livello). Questo vero e proprio sciopero nella ricerca dell’efficienza e dell’innovazione è da imputare alle imprese, al difetto di capacità imprenditoriale di chi le controlla[6]. Non è imputabile a lavoratori e sindacati.

3. Lo scemare della produttività abbatte la crescita di trend. Essa è principalmente un problema d’offerta, cioè di volume delle risorse impiegate e soprattutto di efficienza e progresso tecnico nel loro uso. Ma l’economia soffre da anni di un altro male, congiunto: la carenza di domanda. La domanda interna cresceva solo dell’1,5% l’anno già prima del 2007. Ma è caduta del 6% nella recessione del 2008-2009 e del 9% nella recessione del 2011-2014, con un pallido recupero nel 2015. Il contributo della variazione delle esportazioni nette è risultato modesto o addirittura negativo (come nel 2009- 2011). Quindi fra il 2008 e la fine del 2014 la domanda globale abbatteva il Pil del 10% : la più profonda contrazione della storia patria, con l’ovvia eccezione del 1942-1945. Rispetto ai livelli del 2007 l’economia italiana ha subìto in ciascun anno perdite di Pil in volume che, valutate ai prezzi del 2015 e cumulate, ammontano a circa 850 miliardi di euro: la cifra corrisponde a un abbattimento del debito pubblico dal 130% al 70% del Pil…
I consumi privati sono diminuiti del 2% (cumulato) nel 2008-2009 e del 7% nel 2011-2013. Potevano lavoratori e pensionati consumare di più, se i loro redditi venivano frenati e tassati? Il calo dei consumi si è in realtà associato a una propensione al risparmio scesa ai minimi storici (4% del reddito disponibile nel 2012, metà della media europea). Ma ciò non è bastato neppure a mantenere i livelli di consumo precedenti.
In sintesi, i lavoratori non devono rispondere né del calo della produttività né del calo della domanda…

4. Investimenti pubblici attuati nell’equilibrio di bilancio (meno sprechi, meno evasione), perequazione distributiva, riscrittura del diritto dell’economia, stimoli concorrenziali sulle imprese: sono queste le vie maestre per rilanciare la domanda e la ripresa, la produttività e la crescita.
Nella manifattura, principalmente a causa dell’improduttività delle imprese, il Clup (costo del lavoro per unità di prodotto) dal Duemila al 2014 è aumentato del 40%. Poiché la produttività in questi paesi progrediva, il Clup in Germania è rimasto invariato, in Francia è salito appena del 10%, persino in Spagna è aumentato non più del 20%. Anche se il lavoro incide solo per il 15% sui suoi costi totali (rispetto al 58% di materie prime, beni intermedi e prodotti finiti e al 21% dei servizi), l’industria italiana è su questo fronte fuori mercato in Europa. La Confindustria (cfr. Scenari industriali, Novembre 1915) inizia a evocare il classico mantra del taglio dei salari, realizzabile anche attraverso il Jobs Act, la cancellazione delle tutele previste dallo Statuto dei lavoratori e la contrattazione decentrata.

Quest’ultima ha forse senso quando il trend generale della produttività, ancorchè diversificato e scaglionato nel tempo fra le imprese, è positivo. Favorisce allora la diffusione dell’aumento salariale, dalle aziende più innovative alle altre, e la convergenza delle remunerazioni secondo la legge dell’unico prezzo per la medesima merce (merce-lavoro, in questo caso), presupposto dell’efficienza in un’economia di mercato. Quando la produttività tende a diminuire la contrattazione decentrata va invece nella direzione opposta. Allora, il meccanismo può consentire anche all’impresa peggiore di restare nel mercato, attraverso la minaccia del licenziamento dei dipendenti e l’abbassamento del loro salario al livello della improduttività  aziendale. Gli stessi dipendenti minacciati avrebbero d’altra parte difficoltà a trasferirsi nelle imprese che non tagliano il salario, perché l’economia ristagna e quelle imprese non domandano lavoro. Il contesto attuale è questo, al netto della occupazione drogata dai trasferimenti di danaro pubblico alle imprese.
Al di là della fattibilità, tagliare i salari sarebbe un errore. Le imprese riscoprirebbero i profitti “facili” degli anni 1995-2005, allora fondati sulla moderazione salariale, oltre che sul cedimento della lira (e dell’euro fino al 2002), sulla spesa pubblica a pioggia, sull’evasione e l’elusione delle imposte. Come ammoniva Paolo Sylos Labini, verrebbe meno lo stimolo che una ragionevole dinamica dei salari nominali esercita sulle imprese affinchè ricerchino il profitto attraverso l’innovazione, il progresso tecnico, l’intensità di capitale[7]. Inoltre l’economia cadrebbe in deflazione da costi, anche per la manifesta inefficacia della politica monetaria espansiva che con forte ritardo la BCE sta attuando. La deflazione non favorirebbe certo la domanda, per consumi e tanto meno per investimenti.

Note

1.  C. Giordano-F. Zollino, A Historical Reconstruction of  Capital and Labour in Italy, 1861-2013, in “Rivista di Storia Economica”, 2015, pp. 155-223.

2.  P. Ciocca, Ricchi per sempre. Una storia economica d’Italia, 1796-2005, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.

3.  Istat, Misure di produttività, Roma, 3 agosto 2015.

4.  Nel Mezzogiorno fra il 2007 e il 2014 gli investimenti totali sono scesi del 38%, mentre nella manifattura sono crollati del 59% e lo stock (lordo) di capitale è diminuito sin dal 2008 (cfr. Svimez, Quale ‘visione’ per la ripresa di una strategia nazionale di sviluppo?, Quaderno n. 46, Roma, 2016).

5.  R. Torrini, Labour, Profit and Housing Rent Shares in Italian GDP:Long Run Trends and Recent Patterns, in “Politica Economica”, 2015, spec. Fig. 3, p. 285, e Fig. 12, p. 298.

6.  S. Trento-F. Faggioni, Imprenditori cercasi. Innovare per riprendere a crescere, il Mulino, Bologna, 2016.

7.  “In generale, un aumento del rapporto fra salari e prezzo delle macchine può incentivare le invenzioni risparmiatrici di lavoro (…). Nel caso della sostituzione dinamica abbiamo un incentivo ad accentuare la meccanizzazione dei processi produttivi quando aumenta il rapporto fra salari e prezzo delle macchine (…). Sostengo che il progresso tecnico viene stimolato, fra l’altro, dall’aumento del salario. Io però considero l’aumento, non del salario in quanto tale, ma del rapporto fra salario e prezzo delle macchine; ed affermo che l’aumento di tale rapporto rappresenta uno dei diversi stimoli economici, non del progresso tecnico in generale, ma, specificamente, delle innovazioni che risparmiano lavoro” (P. Sylos Labini, Progresso tecnico e sviluppo ciclico, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 37, 38, 41, corsivo non nel testo). Ma ciò accadrà solo se le imprese sono dotate di capacità imprenditoriale e rispondono agli stimoli a cui Sylos allude…